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Davanti al posto si era addensato un nugolo di ragazzini. Il negozio di abbigliamento occupava un intero edificio del centro, risalente ai primi del Novecento. L’interno era stato sventrato ma la facciata risultava ancora intatta, solo che adesso era attraversata da un reticolo di luci a led.

La ragazzina col ciuffo viola si fece lasciare all’ingresso.

«Parcheggio e torno subito qui» le disse Oscar mentre scendeva dalla Mercedes con le stampelle. «Non ti muovere» le intimò, poiché aveva ricevuto ordini precisi.

La ragazzina pensò che, in fondo, la caviglia rotta era una buona scusa per sbarazzarsi del suo guardiano: se fosse stata libera di camminare agevolmente, l’avrebbe costretta ad andare con lui. Quando l’autista si fu allontanato, si voltò verso l’entrata.

Si fece coraggio.

L’accolse un enorme ambiente permeato dal fumo e spazzato dai laser. Un dj accompagnava l’esibizione di un performer di trap. Gli abiti in vendita erano esposti su semplici stand, per scarpe e accessori c’erano apposite vetrine luminose.

La ragazzina col ciuffo viola si domandò se fosse stata una buona idea dare appuntamento al suo angelo proprio lì. Ma in fondo non era nemmeno sicura che lui avesse intercettato il suo biglietto. Aveva indicato solo l’indirizzo e un orario approssimativo, ma adesso era preoccupata che il messaggio non fosse abbastanza chiaro. Si sentiva come uno di quei naufraghi che affidano all’oceano una richiesta di soccorso dentro una bottiglia.

Era esattamente quella la misura della sua disperazione.

Nell’attesa di un segno, cominciò ad aggirarsi per il negozio. S’imbatté in un gruppo di coetanee intente a scherzare fra loro e a ridere per nulla mentre sceglievano insieme i vestiti. Davanti alla scena, la ragazzina si bloccò. Ripensò ai pomeriggi in quel posto in compagnia delle amiche, ai discorsi sui ragazzi, agli innocui pettegolezzi, all’allegria. Le mancava essere così trasparente.

Si accorse che Oscar era entrato nel negozio e la stava cercando con impazienza, scansando malamente quelli che gli intralciavano il passo. Prima che l’autista la individuasse, afferrò una gruccia con un vestito a caso, portandoselo verso i camerini di prova.

Scelse l’ultimo in fondo a un lungo corridoio e si chiuse dentro.

Si sedette sulla panchetta che arredava lo stanzino, posò le stampelle e iniziò a guardarsi allo specchio. Ciò che vide la colpì. Non se n’era mai accorta. Per la prima volta, si rese conto di assomigliare a sua madre. Non nell’aspetto, non era diventata bella come lei. Era come se, all’improvviso, le fosse concesso di vedere il proprio futuro e di imbattersi nella donna delusa che sarebbe diventata presto. In quello spazio angusto, si sentì prigioniera. La musica, attutita dalle pareti, arrivava a ondate. In mezzo a un breve intervallo di silenzio ovattato, fu distratta da un rumore.

Qualcuno aveva bussato.

«È occupato» disse, seccata, rivolgendosi alla porta. Ma, chiunque fosse, non demorse e bussò di nuovo. «Cazzo, non ci senti?» disse, spazientita. Alla terza sequenza di colpi, decise di affrontare lo scocciatore, sapendo già che era Oscar.

Spalancò l’uscio ma fuori non c’era nessuno.

Tornò subito a rintanarsi nella cabina. Ma, prima che potesse capirci qualcosa, tre lenti colpi di nocche le svelarono che, chiunque stesse reclamando la sua attenzione, in realtà si trovava nel camerino accanto.

Si avvicinò alla parete con lo specchio e vi appoggiò delicatamente entrambe le mani e un orecchio. Il cuore batteva forte, il respiro accelerava e il suo fiato si condensava sulla superficie lucida. Però, oltre quella sottile e fredda barriera, non riusciva a sentire nulla. Decise di replicare all’invito sonoro e bussò anche lei. Tre tocchi.

Dall’altra parte, qualcuno le rispose.

Proseguì quel dialogo insolito e misterioso e scandì quattro brevi colpi. Anche il suo interlocutore fece lo stesso. Andarono avanti così, usando un linguaggio segreto di cui nessuno dei due conosceva le regole ma il cui significato era chiaro a entrambi. Poco importava che ciò che si stavano dicendo non fosse traducibile in parole. Ciò che contava veramente era aver stabilito un contatto.

Sono reale, e sono qui per te. Questo era il messaggio.

Ma alla ragazzina col ciuffo viola non poteva bastare. Perciò, contravvenendo al patto che si era instaurato fra loro fino a quel momento, decise di parlargli. «Dimmi qualcosa» sussurrò. «Ti prego...» Immaginava di udire una voce, invece non sentì nulla. Allora provò di nuovo, bussando ancora. Ma nessuno ritrasmise il suono. Colta da un’ansia improvvisa, impugnò le stampelle e uscì in corridoio. Il camerino accanto era vuoto, come se non ci fosse mai stato nessuno all’interno.

Non posso averlo solo immaginato, si disse.

Poi vide in fondo una porta tagliafuoco da «usare solo in caso d’emergenza». Era accostata. L’angelo se n’era servito per scappare? Scappare da lei, per l’esattezza. Il pensiero le fece male. Si girò e imboccò la direzione opposta, voleva andarsene subito da lì. Forzava la camminata con le stampelle e, a ogni passo, dalla caviglia risaliva una fiammata di dolore. Intanto, lacrime inutili e patetiche le sgorgavano dagli occhi. Intorno a lei, le casse diffondevano la voce di un trapper alterata dal vocoder. Fu in quel momento che una parola sovrastò la musica.

Il suo nome. Qualcuno la stava chiamando.

La ragazzina col ciuffo viola si voltò di scatto e vide Maia che le veniva incontro, sfoggiando un gioioso sorriso metallico. Liberò una mano dalla stampella e se la passò velocemente sulla faccia per cancellare il pianto.

L’amica non ci fece caso. «Non mi aspettavo di vederti qui. L’altra sera mi sembravi mezza morta.»

Cercò di sviare dal discorso. «Come è andata a finire la festa? Vi siete divertiti?»

«A mezzanotte è arrivata una torta gigantesca: credevamo che fosse vera ma dentro c’era nascosto un clown con una specie di bazooka che ha cominciato a sparare panna montata sui presenti.» Maia rise. «Una strage di abiti da sera.»

Si sforzò di fingere che anche per lei fosse divertente.

«Ti faccio vedere le foto» disse Maia, brandendo lo smartphone.

La ragazzina col ciuffo viola pensò all’iPhone sul tavolo della sua stanza, ancora sigillato nella confezione. La madre aveva ragione, una volta era esattamente come Maia e non riusciva a separarsene neanche per un momento, e ogni singolo ricordo era filtrato da quell’aggeggio. Il vantaggio era che la realtà arrivava con un considerevole ritardo, così uno poteva anche farsi trovare pronto. Invece adesso era tutto così brutale, tutto così presente. «Magari me le mandi» tagliò corto. «Ora, però, devo andare: Oscar mi sta cercando.»

Si mosse ma qualcuno, passando, la urtò accidentalmente. Maia l’afferrò poco prima che cadesse.

«Come fai ad andare in giro su quei trampoli?» domandò, riferendosi alle stampelle. «Io piuttosto mi butterei nel lago.»

La battuta fintamente cinica era tipica di lei. Alla ragazzina scappò da ridere, ma poi si morse il labbro per non piangere ancora. Avrebbe voluto dirle quanto le fosse mancata in quei mesi.

Maia capì di aver aperto una breccia, sembrò quasi che la scrutasse attraverso quella piccola crepa. «Lo sai che io ci sono sempre e per qualsiasi cosa, vero?»

Lo sapeva. Ma il segreto che doveva custodire era troppo grande perfino per lei stessa.

Davanti al suo silenzio, Maia cambiò argomento. «Ti ricordi quando a otto anni abbiamo fatto credere a quello scemo di mio cugino che eravamo entrambe innamorate di lui?»

«Sì che mi ricordo.»

«E quella volta che abbiamo dato fuoco per sbaglio allo yorkshire di tua zia mentre cercavamo di pettinarlo col phon?»

«È scappato via come un razzo, poverino. Abbiamo dovuto inseguirlo con una bottiglia d’acqua.»

Iniziarono a ridere di gusto. La ragazzina col ciuffo viola dimenticò la delusione di non aver incontrato l’angelo. Invece era un sollievo che avesse incrociato Maia quel pomeriggio, perché in quegli aneddoti c’era la sostanza del loro rapporto e l’amica voleva rammentarle che ciò che le legava non si era creato in pochi minuti, c’erano voluti anni: per questo adesso poteva sopportare qualsiasi rivelazione.

«Quando sarò pronta» le promise di punto in bianco. E Maia le credette.

«Anch’io devo scappare» annunciò l’amica. «Ho una lezione di pianoforte e mia madre mi sfracassa le palle se faccio tardi.» Era deliziosa anche quando era volgare. Ma, prima di andare, si fermò e tornò a voltarsi verso di lei. «Te lo ricordi Tancredi?» domandò.

Ci pensò, poi scosse il capo. «Non lo conosco.»

«Come no? C’era anche lui alla festa, aveva un’orrenda camicia a scacchi.»

Un sudore improvviso. Perché glielo stava dicendo? Ebbe un brutto presentimento.

«Ieri sera l’hanno rapinato mentre rientrava a casa in scooter: per portargli via un cavolo di Rolex, l’hanno lasciato mezzo morto sull’asfalto.»

La ragazzina col ciuffo viola sentì che le si prosciugavano le forze, e avvertì anche un incomprensibile rimorso. Un unico, terribile pensiero le lampeggiava nella mente.

Gli angeli non fanno queste cose.

Io sono l'abisso
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