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Verso le quindici di un assolato ma fresco pomeriggio, un dipendente come tanti, con indosso abiti borghesi, usciva dal deposito della municipalizzata per fare ritorno a casa.
Era così che l’uomo che puliva si vedeva: dismessa la divisa dell’azienda, indossava i vestiti che acquistava in un ipermercato, scegliendo i capi meno appariscenti. Prediligeva colori neutri. Di solito, jeans chiari e scarpe scure allacciate, un maglioncino grigio scuro e una camicia azzurra o bianca, e un giubbotto in poliestere grigio chiaro col cappuccio estraibile dal colletto per quando pioveva.
Quel giorno portava con sé una borsa a tracolla nera.
Cambiava almeno quattro autobus per raggiungere il quartiere di periferia in cui abitava, anche se gliene sarebbe bastato uno soltanto. Non aveva una ragione specifica, era semplicemente accorto.
Scese alla solita fermata e, camminando a testa bassa e con le mani in tasca, si avviò lungo il piazzale che serviva da corte a un agglomerato di palazzoni. Con la borsa che gli rimbalzava ritmicamente sul fianco a ogni passo, attraversò nugoli di bambini che rincorrevano palloni, impegnati in svariate partitelle su campetti improvvisati tracciando col gesso linee incerte sull’asfalto. Vicino ai muretti, gruppi di donne fumavano e discutevano fra loro o al cellulare in lingue incomprensibili, qualcuna scuotendo una carrozzina, qualcun’altra gesticolando esageratamente. I maschi chiacchieravano appartati, all’apparenza più mansueti e quasi tutti con una birra in mano. In sottofondo, un miscuglio di ritmi e musiche fuoriusciva dagli altoparlanti delle auto parcheggiate coi finestrini abbassati. In mezzo a quell’umanità chiassosa e appariscente, l’uomo che puliva era un alieno. Era lui lo straniero e sarebbe dovuto spiccare. Invece nessuno lo salutava, nessuno lo degnava nemmeno di uno sguardo. Avrebbe dovuto comunque astenersi dal transitare in mezzo a loro, per evitare di essere notato, ma da tempo si era accorto di non correre alcun rischio in tal senso: la sua presenza passava inosservata come quella di uno scarafaggio in una festa danzante. Un tempo, la cosa lo faceva soffrire, poi però si era ricreduto. Quante persone avevano quel potere? Ciò lo distingueva dai comuni mortali.
Sono invisibile, si era detto.
S’introdusse in uno degli androni del grande caseggiato popolare. Sul tetto svettava un serbatoio d’acqua. Prese l’unico ascensore ancora funzionante per giungere al settimo piano. Il suo appartamento era l’ultimo in fondo a uno stretto e buio corridoio. Per accedervi bisognava aprire tre serrature di sicurezza che aveva installato lo stesso giorno in cui si era trasferito lì. Si frugò nella tasca del giubbotto in poliestere ed estrasse un piccolo carrarmato di latta al quale erano attaccate le chiavi con cui cominciò a levare le mandate.
Varcò la soglia e poi blindò di nuovo il mondo alle proprie spalle con un senso di sollievo.
Lo spazio a sua disposizione constava di appena due stanzette e un bagno angusto. La prima stanza fungeva da soggiorno e cucinotto, e c’era anche un divano che ogni sera diventava un letto. La seconda stanza si trovava dietro una porta verde a tre riquadri, con la maniglia di ottone brunito.
La porta verde era chiusa a chiave.
Con ancora la schiena appoggiata a quella d’ingresso, l’uomo che puliva attese. Gli schiamazzi del piazzale antistante arrivavano attutiti insieme alle tv accese, alle liti domestiche e al pianto dei neonati. Ma dopo qualche secondo, nella sua testa emerse un piacevole acufene e i suoni svanirono.
Dalla finestra filtrava una luce caliginosa per via della plastica opaca con cui aveva rivestito i vetri. Non era interessato al panorama di palazzi di cemento, ma soprattutto non sopportava l’idea che i vicini potessero spiarlo. Quando gli occhi si furono abituati alla luminosità ridotta, ispezionò l’ambiente per verificare di non aver ricevuto visite inaspettate. Solo qualcuno capace di attraversare i muri sarebbe potuto entrare e uscire da lì senza chiavi, tuttavia il suo istinto lo spingeva lo stesso a controllare. Non possedeva niente di valore. Non aveva un computer, neanche il televisore. Non avendo nessuno da chiamare, non gli serviva nemmeno un cellulare. Quanto al denaro, l’azienda gli versava lo stipendio su un conto corrente postale da cui prelevava soltanto lo stretto necessario. Nondimeno, lo disturbava l’idea che un estraneo potesse violare o, peggio ancora, contaminare il suo spazio privato. Però tutto era come lo aveva lasciato quando era andato al lavoro molto presto quel mattino. Ogni cosa esattamente al proprio posto.
Soprattutto il tavolo al centro della stanza. Sotto una tovaglia a fiori, erano celati degli oggetti.
L’uomo che puliva si tolse le scarpe facendo leva sui talloni e le lasciò, appaiate, accanto alla soglia. Soltanto dopo s’inoltrò nell’unico locale utilizzato. Si sfilò la borsa a tracolla, l’appese a un piolo sulla parete e proseguì verso un piccolo armadio a due ante. Aprì quella di sinistra e si levò il resto dei vestiti che sistemò nei ripiani e sulle grucce, insieme ad altri simili. Con indosso soltanto slip azzurri e calzini bianchi, si soffermò per qualche secondo sul riflesso che gli restituiva lo specchio a figura intera all’interno del mobile. Il fisico glabro e grassoccio, i fianchi troppo larghi, la carnagione lattiginosa e disseminata di piccoli nei, gli occhiali da miope e i capelli rossicci, ordinatissimi.
«Perché non fai un tuffo?»
Scosse il capo e richiuse l’anta per mandar via quel pensiero. Prese un lungo grembiule di plastica scuro e se lo infilò passandoselo dalla testa. Quindi tornò verso la borsa nera. Senza fretta, fece scorrere la cerniera e infilò la mano in quella pancia molle, estraendone il sacchetto con l’organico che aveva prelevato quella mattina davanti al civico 23. Tenendolo per un lembo, lo portò verso il tavolo.
Quindi, con la mano libera, ripiegò la tovaglia a fiori fino a svelare cosa occultava.
Disposti con cura sul ripiano, partendo da sinistra verso destra, erano allineati sette scatolette aperte di cibo per gatti e tre cartoni di croccantini, quattro fiale rotte di vermifugo per felini, un barattolo di crema antirughe scadente di cui restava solo un residuo ingiallito, un tubetto di pomata anticellulite spremuto fino alla fine, un blister da cui mancavano otto pillole dimagranti, un paio di collant contenitivi smagliati, una dozzina di strisce depilatorie ricoperte da una peluria scura, un flacone di tintura per capelli tonalità biondo platino usata per tre quarti, uno spazzolino da denti rosa con le setole consumate, diciannove pacchetti accartocciati di sigarette Vogue alla menta, un accendino di colore verde acido marca Bic scarico, i vuoti di tre bottiglie di vodka di scarsa qualità, due bottiglie di plastica di acqua tonica formato famiglia, una vecchia ricetta medica per «ansiolitico Lorazepam da 20mg in gocce da assumere tre volte al dì», tre boccette di Lorazepam in gocce vuote, la card di una ricarica telefonica da cui era stata grattata via la barra argentata, riviste di gossip, un mazzetto di scontrini fiscali che lui aveva riunito con una graffetta. Infine, una scatolina di cerini con la pubblicità di un locale da ballo.
Il Blue.
L’uomo che puliva osservò il piccolo tesoro di rifiuti accumulato nelle ultime sei settimane, proveniente dal villino al civico 23. Aveva selezionato con grande attenzione quegli oggetti, scartando il resto, partendo da un semplice assunto imparato nel corso degli anni.
La spazzatura di una persona racconta la sua vera storia. Perché, a differenza delle persone, la spazzatura non mente.
Si poteva imparare tanto da ciò che la gente gettava via. E, in fondo, quello era anche il suo modo di relazionarsi con gli altri esseri umani. Non con tutti, però. Gli interessavano unicamente i suoi simili.
Le persone sole.
Sotto al tavolo c’era una bacinella azzurra. La prese e la sistemò nello spazio del ripiano lasciato appositamente libero. All’interno del recipiente depose il sacchetto con l’organico. Aprì un cassetto, si asciugò i palmi sudati sul grembiule, quindi indossò dei guanti in lattice. Si munì di un paio di forbici.
Dopo aver tagliato il sottile strato superiore del sacchetto, lo capovolse per rovesciare il contenuto.
Nessuna sorpresa: i resti dei pasti degli ultimi giorni dell’unica inquilina del villino al civico 23 confermavano le sue abitudini frugali. L’uomo che puliva cominciò a separare accuratamente gli avanzi con la punta delle dita guantate, per esaminarli meglio. Quei rimasugli di cibo, sommati alla qualità degli oggetti presenti sul tavolo, facevano intuire facilmente che la donna non disponesse di grandi mezzi. D’altronde lo confermavano anche gli scontrini fiscali che aveva trovato. Ma, guardando bene, c’era qualcosa di più.
Una storia nascosta nelle sfumature, perciò quasi invisibile a un occhio inesperto.
L’uomo che puliva era bravo a cogliere quel significato recondito, in questo consisteva il suo vero talento. L’insieme dei resti che aveva davanti in quel momento andava a comporre il ritratto di una persona che preferiva sfamare i propri gatti piuttosto che se stessa. L’alcol e il fumo non erano vizi, ma modi per anestetizzare la tristezza. E l’ossessione per l’aspetto fisico rivelava il disperato tentativo di migliorare la propria esistenza prima che fosse troppo tardi. Ma l’unico modo per evadere dalla propria infelicità era invidiare la felicità altrui, esibita in maniera impietosa nelle fotografie di qualche rivista scandalistica.
Tuttavia, al di là delle speculazioni, per l’uomo che puliva quel giorno c’era un altro aspetto rilevante: nei rifiuti organici c’era la prova che, per sei settimane, l’inquilina del civico 23 non aveva avuto ospiti a pranzo o a cena e nessuno era passato anche soltanto per un tè pomeridiano oppure per un caffè. In quei pasti solitari c’era il senso del baratro dell’abbandono che quella donna avvertiva intorno a sé. E quando l’affetto interessato dei suoi gatti non le bastava più, probabilmente cercava un po’ di calore umano nelle conoscenze occasionali che di solito si fanno in locali di terz’ordine.
Come il Blue.
L’uomo che puliva si sfilò i guanti, poi prese dal cassetto un quaderno a righe che custodiva una matita fra le pagine. Lo sfogliò rapidamente: per giorni vi aveva annotato tutto ciò che aveva trovato nella spazzatura della donna. Qualcuno avrebbe detto che non era bello farsi gli affari altrui. Qualcuno l’avrebbe definito un impiccione.
«Sei un piccolo, maledetto ficcanaso!»
Lui avrebbe replicato che non era vero, perché era proprio così che si recuperavano risorse da riutilizzare, immettendole di nuovo nel ciclo produttivo. Vetro, ferro, plastica, acciaio potevano avere una seconda vita. E ciò che faceva contribuiva in qualche modo a quel circolo virtuoso.
Ciò che lui estraeva dalla spazzatura era molto più prezioso.
Per scrupolo completò l’ultimo elenco, conscio di aver comunque raggiunto lo scopo. Quando richiuse il quaderno provò un moto di soddisfazione per l’ottimo lavoro svolto. Di lì a poco, avrebbe imbustato nuovamente l’organico per poi gettarlo via. Ma poteva sbarazzarsi anche del resto: ormai da quel ciarpame aveva filtrato la vera storia dell’inquilina del civico 23. Quella che probabilmente nessun altro conosceva. E che a nessun altro, forse, importava. Lui, invece, si considerava il depositario dell’intimità di un altro essere umano. Ma quella donna poteva stare tranquilla: quei segreti erano al sicuro e sarebbero stati usati solo a fin di bene.
Stava per riporre il quaderno, quando la sua attenzione fu attirata da qualcosa che brillava in mezzo alla poltiglia rimasta nella bacinella. Si chinò e scavò con la punta della matita fino a far emergere uno strano frammento colorato che prima gli era sfuggito. Lo prese fra due dita, lo pulì con un lembo del grembiule, quindi se lo portò quasi davanti al naso per osservarlo meglio.
Un’unghia rotta, con lo smalto rosso.
Rimase a fissarla provando una sensazione di incantato stupore. Era molto più che un semplice rifiuto. Era una parte di lei.
Una reliquia.
La posò delicatamente sul tavolo. Emetteva una strana radiazione, un segnale profondo che lui, però, era in grado di percepire in maniera distinta. Provò una certa eccitazione. Quell’unghia rotta era il primo, vero contatto con la prescelta.
L’uomo che puliva si voltò verso la porta verde: si sentiva di nuovo pronto a varcare quella soglia.
Era venuto il momento di riferire a Micky.