18
Il vento s’insinuava tra le foglie e i rami del grande tiglio, nascondendosi sotto la tovaglia di fiandra, sembrava volesse giocare con lei. La ragazzina col ciuffo viola teneva la testa all’insù, lasciandosi accarezzare dalla brezza. Piccole cose che non aveva mai apprezzato prima. Ma adesso che era costretta su una maledetta sedia a rotelle, aveva tutto il tempo di notarle.
Quella mattina, suo padre aveva dato disposizioni alla servitù perché la portassero a fare colazione in giardino, sotto il gazebo. Accanto alla fontana ma abbastanza lontano dal lago, si era raccomandato, per evitare che le tornasse in mente l’incidente, come lo chiamava lui. Non si era premurato nemmeno di chiederle se era d’accordo. Perciò adesso lei aveva davanti una tavola imbandita con cestini di croissant, marmellate assortite, toast alla francese, succo d’arancia e uova strapazzate.
Suo padre pianificava ogni cosa, in famiglia come in azienda, e non si rassegnava al fatto che le uova le facessero schifo.
Anche quel pasto faceva parte della recita. Tutto doveva tornare al più presto alla normalità. L’episodio del lago doveva essere archiviato, così la vita avrebbe ripreso a scorrere come sempre e l’apparenza sarebbe stata salvata, pensò con irridente solennità. Nonostante avesse solo tredici anni, aveva imparato molto presto il codice di condotta dei Rottinger. C’era una regola di etichetta per ogni cosa, anche la più improbabile. Per questo non bisognava meravigliarsi se ciò che le era accaduto non avesse turbato più di tanto la loro ineccepibile routine: esisteva una procedura da seguire perfino per il problema «figlia che ha stoltamente rischiato d’annegare».
Le tornò in mente la mano che le aveva afferrato il braccio mentre precipitava nell’acqua buia. Al ricordo di quel contatto, provò una scossa. Non rammentava molto altro.
Ancora non aveva toccato cibo e non aveva per niente fame. Forse era per via della sensazione acre che avvertiva in bocca. Il sapore del lago. Era stato come ingoiare un pesce di fango. Era ancora vivo dentro di lei, lo sentiva muoversi nella pancia. Adesso, ogni cosa che assaggiava era viscida e sapeva di quello. O forse erano le medicine a conferire quel gusto al cibo. Era sicura che nel succo d’arancia che brillava nel bicchiere di cristallo ci fosse lo psicofarmaco in gocce che sua madre aveva cominciato a somministrarle di nascosto, su consiglio dei medici. I dottori dicevano che era un bene che avesse dimenticato quasi tutto dell’incidente, la sua mente stava guarendo da sola dallo shock. Una cosa, però, non riusciva a scordare. Ma non ne aveva parlato con nessuno per evitare l’umiliazione di non essere creduta o, peggio, che fingessero di crederle.
L’essere di luce che si era ritrovata davanti riprendendo coscienza all’improvviso.
Per l’esattezza, un’ombra ritagliata in un raggio di sole che filtrava fra gli alberi della piccola spiaggia. Un gigante senza volto che, dopo aver ricambiato silenziosamente il suo sguardo, era svanito nel nulla.
Anche lei avrebbe voluto sparire così. Invece era ancora bloccata lì.
La ragazzina abbassò gli occhi sulla gamba appoggiata al supporto della carrozzina: il tutore che la immobilizzava arrivava fin sotto al ginocchio. Un ortopedico fatto arrivare apposta dalla Svizzera aveva assicurato che la caviglia si sarebbe rimessa a posto senza che fosse necessaria una seconda operazione, ma ci sarebbe voluto un mese e almeno un altro per la riabilitazione. Praticamente, si era fottuta l’estate. Ma forse essere ridotta così poteva rivelarsi un bene.
Sicuramente lo era per i suoi genitori.
Nonostante fosse sola sotto al gazebo, non poteva fare a meno di notare gli sguardi dell’anziano giardiniere intento a potare un cespuglio di rose, né quelli delle domestiche che si aggiravano con qualsiasi pretesto nei dintorni, sempre tenendosi alla larga per non dare troppo nell’occhio. La stavano sorvegliando. Era convinta che fosse stata la madre a ordinarglielo. Di cosa aveva paura esattamente? Che si alzasse dalla sedia a rotelle e si precipitasse zoppicando verso la riva per fare un altro bel tuffo?
Per far sembrare che tutto andava bene e che si fidavano ancora di lei, i genitori le avevano comprato un nuovo iPhone, l’ultimo modello. Avrebbe dovuto rimpiazzare quello vecchio che, secondo la loro versione, era caduto insieme a lei nel lago dopo il famigerato selfie. La infastidiva che l’avessero fatta passare per una cretina. Nessuno, però, voleva davvero sapere cos’era successo.
Forse neanche lei lo sapeva.
La mattina dell’incidente si era svegliata con una strana idea nella testa. Non avrebbe saputo spiegare cosa fosse. Ma qualcosa l’aveva spinta a rubare una bottiglia di whisky dal mobile bar dello studio, a nasconderla nello zaino di scuola, a prendere un autobus che non aveva mai preso e ad andare in un posto in cui non era mai stata. Era scesa a una fermata deserta, senza un motivo preciso. Dalla strada aveva notato il vecchio pontile malandato, nascosto dalla vegetazione. Ridiscendendo la collina, attraverso una selva di arbusti, aveva raggiunto la riva. Lì si era scritta addosso con una penna il numero di telefono del padre: sulle braccia, sulla pancia, sui polpacci. Poi aveva ingollato il liquore, lasciando che le bruciasse la gola. Aveva infilato la bottiglia mezza vuota insieme all’iPhone in una busta di plastica trovata lì vicino.
Il resto della storia era confuso.
A volte malediceva il misterioso salvatore che l’aveva riportata indietro. Poi però se ne pentiva e lo ringraziava dentro di sé per non averla lasciata sprofondare in quell’abisso. Chissà come doveva essere stare là sotto, circondati dal silenzio.
«Ho notato che non hai ancora provato il nuovo iPhone» esordì la madre, sopraggiungendo alle sue spalle. Indossava una gonna bianca che le fasciava i fianchi e una camicetta di seta. Era sempre bella ed elegante e, anche se dicevano tutti che si somigliavano, la ragazzina col ciuffo viola si sentiva brutta e goffa in confronto a lei. «Non l’hai nemmeno tolto dalla scatola» la rimproverò la donna.
«Lo farò dopo» rispose la figlia, senza troppa convinzione.
«Strano» commentò l’altra. «Prima stavi sempre con la faccia ficcata in quel coso.»
Prima. Quella parola era l’unica eccezione alla regola che prevedeva che si dovesse parlare sempre meno dell’incidente al fine di rimuoverlo del tutto. Erano tutti concentrati sul dopo, senza chiedersi nemmeno perché lei non volesse più un cellulare. Mai più.
«Se proprio ci tenete a farmi un regalo, vorrei sceglierlo io» disse, decisa.
La madre non batté ciglio. «Sentiamo, cosa vuoi?»
«Stampelle.»
«L’ortopedico ha detto che è ancora presto.»
«L’ortopedico ha detto che potevo cominciare a usarle quando mi sentivo pronta» ribatté, perché ricordava esattamente le sue parole. «E in questo momento lo sono» ribadì.
La madre incrociò le braccia e la fissò, interrogativa. «Perché?»
La ragazzina voleva arrivare proprio a questo. «La festa.»
Era l’evento di fine anno scolastico, si teneva nella villa di una compagna di scuola che apparteneva a una nota famiglia comasca.
«Non se ne parla» disse la madre.
Si aspettava quella reazione. Ma lei doveva andarci. E non perché era una serata ambita da tutti i suoi coetanei. Non gliene fregava niente.
Doveva vedere una persona.
Altrimenti sarebbe finita di nuovo in quel maledetto lago, ne era sicura. E lei non voleva morire annegata, non dopo aver provato cosa significa essere ingoiati dall’acqua che ti toglie le forze e il respiro.
«Non sei nelle condizioni» ribadì la donna, cercando di sembrare ferma ma con la voce che le tremava perché aveva il terrore che le accadesse di nuovo qualcosa di brutto.
Se non l’avesse avuta come alleata, come poteva sperare di convincere anche il padre? Ma la ragazzina aveva escogitato un modo. «Avete detto a tutti che sto bene. Se non ci vado, qualcuno comincerà a chiedersi il perché...»
Lasciò che la frase producesse da sola l’effetto sperato. Lo vide affiorare sul volto della madre, come un punto interrogativo fra le sopracciglia. Il suo peggior timore erano le chiacchiere della gente. Non di chiunque però, solo degli appartenenti al loro mondo fatato.
«Dovrai chiederlo a tuo padre» disse.
La ragazzina col ciuffo viola non desiderava altro, perché ormai aveva aperto una breccia nelle resistenze della donna. L’energica ma, in realtà, fragile moglie dell’ingegner Guido Rottinger. Colei che per tutti era stata capace di farlo capitolare e che, secondo le cronache mondane, aveva un ascendente speciale su di lui. Ma che, invece, era totalmente succube del carattere autoritario del marito e degli antidepressivi.
Prima che la madre potesse aggiungere altro, il maggiordomo si avvicinò al gazebo con in mano una specie di volantino.
Sopra c’era stampata una frase. La via d’uscita sei tu!
Con la discrezione che lo contraddistingueva, il servitore parlò alla signora Rottinger con un tono sufficientemente basso per farsi sentire soltanto da lei ma abbastanza alto da non sembrare scortese nei confronti della ragazzina che, infatti, carpì appena la frase: «L’ho fatta accomodare nello studio».
La madre aveva visite, meglio così. Infatti si voltò e si diresse verso la casa. Chiunque fosse la sconosciuta del volantino poco le importava, però dentro di sé la ringraziò per averle costrette a sospendere la discussione. Finalmente rilassata, la ragazzina col ciuffo viola allungò una mano sul tavolo per prendere il bicchiere col succo d’arancia. Lo bevve senza chiedersi quale medicina ci fosse all’interno, con la sola speranza che il farmaco si portasse via i brutti pensieri. Poi chiuse gli occhi e tornò a farsi coccolare dal vento. Ma li riaprì quasi subito perché in mezzo alla folata aveva riconosciuto qualcosa.
Erano note.
Sparirono, tanto da farle credere di averle solo immaginate. Si guardò intorno. Oltre il muro di cinta della villa sembrava tutto tranquillo e non c’era nessuno. Che stava succedendo? Era uno scherzo? Poi la musica tornò, insieme a una voce malinconica. La riconobbe e si sentì smarrire. La canzone era un avvertimento, la promessa di un conto in sospeso. E veniva dal lago.
Everyday Life dei Coldplay.
Il brano che aveva ascoltato con l’iPhone la mattina in cui si era buttata in acqua con l’intenzione di morire.