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A sedici anni, sua madre era già una modella.
Aveva sfilato per Armani e girava il mondo, dividendosi fra una passerella e un servizio fotografico. Era giovane ma tutti nell’ambiente le pronosticavano un futuro radioso. E affermavano che con quel suo viso particolare, spigoloso ed enigmatico, avrebbe lasciato il segno. A diciott’anni, però, la futura signora Rottinger aveva già capito che non sarebbe mai diventata una top model, poiché non possedeva la misteriosa qualità che rende speciali alcuni esseri umani rispetto ad altri. Per questo, le sarebbe toccata una carriera da gregaria e, nella migliore delle ipotesi, sarebbe finita a fare la bella statuina alle feste di qualche riccone. Il privilegio di una vera top era andare a letto presto quando gli altri erano costretti a divertirsi, e lei non l’avrebbe mai avuto.
Con un’enorme dose di realismo aveva compreso che l’unica possibilità, prima che evaporasse la magia della bellezza, era trovarsi un marito che le assicurasse un tenore di vita adeguato al corpo che aveva ricevuto in dono. Forse la madre della ragazzina col ciuffo viola si sarebbe anche accontentata del ruolo di moglie-trofeo di qualche trentenne basso e tarchiato, col Rolex d’oro rosa ben in vista e un sigaro fra i denti, capace solo di combinare casini che sarebbero stati risolti dai soldi di paparino. Invece aveva avuto la fortuna d’innamorarsi del giovane e avvenente rampollo di una nota famiglia di industriali che, a sua volta, aveva perso subito la testa per lei.
L’ingegner Rottinger parlava sei lingue. Da giovanissimo era appassionato di sport estremi ed era stato campione di surf e canottaggio, partecipando perfino a un’Olimpiade. Dopo aver studiato nelle migliori scuole internazionali, si era laureato a Stanford. A quarant’anni, oltre che essere a capo di una holding che valeva centinaia di milioni, presiedeva una fondazione benefica che si occupava di costruire scuole e ospedali nelle zone più disagiate del pianeta.
Secondo la leggenda che le veniva raccontata fin da bambina, i suoi genitori si erano conosciuti due anni prima che lei nascesse, durante una tempesta in mezzo all’oceano Indiano, quando suo padre aveva tratto in salvo sulla sua barca la futura moglie e un gruppo di amici, naufragati con il loro catamarano. Da quel momento, erano diventati una delle coppie più invidiate del jet-set locale.
E adesso, in quel quadro di assoluta perfezione, c’era lei. La ragazzina col ciuffo viola.
Le mancavano tre anni per compierne sedici, ma non credeva che quel lasso di tempo sarebbe bastato a farla diventare come la madre alla stessa età. Era partita dalla considerazione che, solitamente, i ricchi brutti sposano donne bellissime e il frutto dell’unione è sempre qualcosa d’incerto o d’improbabile. L’esempio lampante era la sua amica Maia, figlia di un nobile con la gobba e un’attrice del cinema. Ma, nel caso dei suoi genitori, la genetica avrebbe dovuto giocare a suo favore.
Invece si era divertita a riunire nell’unica figlia i pochi difetti di due semidei.
Aveva ereditato le gambe sottili del padre, sproporzionate rispetto al busto, come zampe d’uccello. E anche le sue mani troppo grandi. Le orecchie a sventola della madre, che il parrucchiere nascondeva abilmente. E il naso aquilino, che a lei stava benissimo e le conferiva un tratto arabeggiante, ma che sulla faccia della ragazzina sembrava una protuberanza posticcia.
Inoltre, non aveva doti particolari. Era una frana negli sport e, per quanto s’impegnasse, a scuola era un mezzo disastro. Non coltivava interessi particolari, non eccelleva in nulla. L’unica cosa che le riusciva bene era farsi rimproverare continuamente dai suoi perché non era la figlia modello che si aspettavano. Poteva leggere la delusione nell’espressione del volto o malcelata nel tono quando le parlavano.
A tredici anni, l’idea di non essere alla loro altezza era più che un sospetto.
Forse per questo si era lasciata abbindolare da Raffaele. Per una volta, era stata capace di conseguire un risultato che nessuno si attendeva da lei. Si era illusa che lui l’amasse realmente. Aveva creduto a una fiaba mai esistita e che lei aveva immaginato partendo da una semplice domanda, «Perché non dovrebbe capitare a me?», senza riuscire a sospettarne i retroscena o le conseguenze. Era convinta che le richieste del ragazzo fossero normali e che il segreto che lui aveva imposto alla relazione fosse dovuto al fatto che gli altri non erano in grado di comprendere la purezza del loro amore e avrebbero fatto di tutto per ostacolarlo.
A Raffaele aveva regalato la sua prima volta. Ma poi si era chiesta come mai lui insistesse per farle fare sesso coi suoi amici. All’inizio si era sentita desiderabile, visto che in tanti volevano stare con lei. Ma poi, lentamente, aveva dovuto fare i conti col disagio che le cresceva dentro e, soprattutto, con l’incapacità di sottrarsi a quel vortice perverso, quel gioco da grandi mentre lei, in fondo, si sentiva ancora una bambina.
Aveva cercato una via d’uscita nell’acqua del lago. Ma lì aveva trovato solo la paura di morire.
E quando alla festa aveva notato il plateale passaggio di denaro fra Raffaele e il ragazzo con la camicia a scacchi, aveva finalmente compreso cosa stava succedendo. Non si sentiva ferita per il fatto che lui la vendesse. Fra l’altro, uno come Raffaele non aveva certo bisogno di soldi. Lo facevano solo per sfizio, pagare faceva parte del gusto. Perché in realtà non compravano lei: compravano la possibilità di scoparsi la figlia dei Rottinger. E non c’entrava niente che lei fosse bella o brutta, perché tanto ciò che volevano era insozzare la perfezione, spruzzare il loro viscido escremento sul ritratto di famiglia.
Era questo che faceva male.
La ragazzina col ciuffo viola sentiva di non aver umiliato solo se stessa, ma tutti loro.
A casa, dopo la festa, aveva gettato in un angolo le stampelle e si era chiusa nella sua stanza. Non era più uscita, nemmeno per mangiare. Aveva addotto come scusa il fatto che le erano venute delle mestruazioni molto dolorose. Siccome anche la madre ne soffriva, le avevano creduto. Invece, il motivo per cui continuava a sanguinare era legato alle manovre maldestre di un adolescente inesperto che, dopo aver fatto i propri comodi, se l’era svignata senza neanche dirle il suo nome. L’unica consolazione per la ragazzina era il pensiero che forse un giorno, diventato un uomo, se ne sarebbe vergognato. D’altronde, il ragazzo aveva avuto un chiaro assaggio di ciò che sarebbe stato per il resto della vita: anche se avesse avuto dei figli e fosse stato un marito amorevole, a causa di quell’unica volta sarebbe rimasto per sempre un vigliacco. Uno stupratore.
C’era anche un altro motivo per cui la ragazzina col ciuffo viola si era rintanata nella cameretta in cui era cresciuta. C’entrava con la canzone dei Coldplay portata dal vento e con l’orsetto riapparso dal nulla alla festa, sul davanzale della finestra del bagno. Chiunque gli avesse ricucito la testa, riportandolo indietro dall’inferno dei peluche, sapeva molte cose di lei. Più di quante lei stessa avrebbe voluto rivelare a chicchessia.
Era un bel pomeriggio ma aveva chiuso le imposte. Si dondolava seduta sul letto, al buio. Intanto ripensava a chi potesse essere l’autore di quei messaggi silenziosi. Ormai dava per scontato che non si trattasse di uno scherzo. L’unico che le venisse in mente era lo sconosciuto che l’aveva salvata e poi era sparito. L’essere di luce che aveva intravisto per qualche momento sulla spiaggetta.
Forse era un angelo.
Solo gli angeli compiono le buone azioni e poi non ne rivendicano il merito. Magari era davvero così, visto che lui era riapparso proprio nel momento in cui aveva più bisogno di un conforto. E, riflettendo bene, aveva avvertito la sua presenza in un’altra circostanza: la prima notte trascorsa in ospedale, quando era sedata dopo l’intervento alla caviglia ma aveva sentito chiaramente qualcuno muoversi nella stanza e sollevare il lenzuolo, scoprendole la gamba su cui si era scritta il numero di telefono del padre, nel caso fosse morta.
Sì, adesso ne era sicura. Non era stato soltanto un sogno. L’angelo era andato a farle visita.
Tuttavia, era ancora troppo strano e non sapeva se poteva fidarsi. Qualunque cosa le stesse accadendo, non poteva parlarne con nessuno. Ma se qualcuno le aveva mandato un angelo a proteggerla, voleva dire che lassù sapevano cosa aveva fatto e non la giudicavano per questo. Se invece si trattava di una persona in carne e ossa, allora c’era perfino la speranza che avrebbe messo fine all’incubo.
La ragazzina con il ciuffo viola ebbe la sensazione che una misteriosa giustizia stesse operando intorno a lei senza che potesse vederla e che, alla fine, tutto si sarebbe sistemato. Ma, nello stesso tempo, sapeva di non potersi illudere. L’amarezza dell’ennesima, profonda delusione era in agguato.
Doveva avere una prova.
Ripensando a come l’orsetto di peluche era tornato da lei dopo che l’aveva decapitato e gettato via, aveva escogitato un modo per mettersi in contatto con l’angelo misterioso. Quella mattina aveva scritto un biglietto. L’aveva infilato in una busta che poi aveva cosparso di glitter colorati, perché attirasse l’attenzione. Invece di imbucarla in una cassetta postale, l’aveva deposta nel cestino della carta, sotto la scrivania. Infine aveva atteso che una domestica venisse a prenderlo per svuotarlo.
Sperava che funzionasse.
Controllò l’ora. Quasi le quattro. Si armò di stampelle, uscì dalla stanza e andò in cerca della madre. La trovò nella sala da pranzo mentre dava disposizioni al maggiordomo e alla governante su come voleva che fosse apparecchiata la tavola per la cena che si sarebbe tenuta un paio di giorni dopo. Organizzare eleganti convegni casalinghi con amici e conoscenti era l’unica occupazione della signora Rottinger. Il marito lasciava fare tutto a lei e non voleva saperne nulla: l’importante per l’ingegner Rottinger era trovare una nota in agenda e si sarebbe reso disponibile per la data fissata. Ma la ragazzina col ciuffo viola stavolta aveva il sospetto che il prossimo incontro mondano, in realtà, avesse uno scopo preciso. Permettere agli invitati di sincerarsi personalmente che dopo l’incidente al lago andava tutto bene, in modo da mettere fine a chiacchiere e pettegolezzi. Visto che la madre era impegnata più del solito per realizzare quell’arduo proposito, non le sarebbe stato difficile ottenere ciò che era venuta a domandarle.
«Mamma?» la chiamò, inserendosi nella discussione con la servitù.
La madre si voltò, sorpresa di trovarsela davanti. «Come ti senti?» chiese, distrattamente.
«Va meglio, grazie» si limitò a risponderle. Prima che l’altra si rimettesse a parlare di porcellane inglesi e posate d’argento, la incalzò: «Puoi chiedere a Oscar di accompagnarmi in centro a Como?»
Stavolta la signora Rottinger le prestò più attenzione e il suo sguardo si fece diffidente.
«Stavo pensando di comprare qualcosa di nuovo da mettere alla cena» proseguì la ragazzina, fingendo entusiasmo per l’evento.
La madre si prese del tempo per riflettere. Alla ragazzina col ciuffo viola sembrò interminabile.
«Va bene, ma cerca di non fare tardi» disse infine freddamente la donna, dando l’impressione di non essersi del tutto bevuta la storiella. «Dirò a Oscar di non perderti mai di vista.»
La ragazzina trattenne la gioia, ma dentro di sé si compiacque per essere riuscita nell’intento. Adesso doveva soltanto sperare che anche il resto del piano andasse per il meglio.