21
In poco tempo, aveva imparato a spostarsi per la villa con la sedia a rotelle. Più che altro perché ne aveva abbastanza di essere scorrazzata in giro dalla servitù. Ce li aveva addosso tutto il santo giorno, voleva essere indipendente almeno in una cosa. Non le fregava nemmeno di scheggiare la maledetta boiserie o di lasciare lunghe scie nere sul marmo bianco. Manovrando la carrozzina, spesso urtava di proposito un mobile per far cadere a terra qualche preziosa statuetta di porcellana. Ogni volta che capitava, qualcuno si precipitava a riparare il danno, pulire o raccogliere i cocci. Faceva parte della sua tattica di guerriglia contro l’ordine costituito e il regime che governava quella casa. In ossequio alla nuova accezione che in famiglia avevano attribuito al termine «incidente».
In verità, era soltanto arrabbiata e non sapeva più come far passare il tempo. Allora, visto che tutti i tentativi di sabotaggio non le valevano neanche un misero rimprovero perché venivano comunque vanificati dall’intervento immediato dei domestici, a metà pomeriggio decise di rintanarsi nella propria stanza per leggere un libro. Quando aprì la porta, però, si ritrovò davanti una scena imprevista.
Suo padre era seduto sul letto e la stava aspettando.
Il completo grigio e la cravatta azzurro polvere indicavano che era rientrato in anticipo dal lavoro. Da bambina era affascinata dalla sua eleganza, dal buon odore che emanava quando la prendeva in braccio per farla rimbalzare sulle ginocchia. Crescendo, quella speciale intimità fra genitore e figlia era svanita, probabilmente pure per colpa sua. E anche se non l’avrebbe mai ammesso apertamente, la ragazzina col ciuffo viola ne avvertiva la mancanza.
«Come va?» le domandò subito l’uomo, con il solito sorriso affabile. Accanto a lui c’era una lunga scatola bianca con un bel fiocco di raso rosso.
«Una meraviglia» rispose, acida. Perfino lei stessa si detestava quando le usciva quel tono.
«Ti starai domandando perché sono qui» proseguì lui, incurante del suo umore.
«Perché mamma ti ha detto della festa di stasera» replicò pronta, aspettandosi un discorsetto su quanto fosse sconsigliabile e inopportuno partecipare nelle sue condizioni. Il regalo sul letto era il modo in cui il padre cercava di blandirla, ma lei conosceva troppo bene la tecnica e non si sarebbe lasciata sorprendere. Non poteva.
Ma lui la spiazzò. «Io la penso esattamente come te: dovresti andarci.»
Cosa stava succedendo? Non riusciva a credere che fosse così facile ottenere ciò che desiderava. Doveva esserci per forza qualcosa sotto. Un trucco, un inganno. «Però ti schiererai comunque dalla parte di mamma, giusto?» lo rintuzzò, credendo di aver intuito il suo gioco.
«Nient’affatto» rispose il padre, scuotendo il capo. «Hai tredici anni, non possiamo sempre dirti quello che puoi o non puoi fare: dovresti capire da sola ciò che è meglio per te.»
Ai loro occhi era diventata improvvisamente adulta: non solo non ci credeva ma al pensiero le veniva anche da ridere. «Allora immagino che in quella scatola ci sia un bel vestito da sera...» lo provocò.
Il padre ignorò la strafottenza e iniziò a disfare il fiocco. Sollevò il coperchio e le mostrò il contenuto. Un paio di stampelle rosso metallizzato.
«Credo che queste siano meglio di un bel vestito. Le ho fatte realizzare dagli operai in fabbrica: un modello esclusivo in fibra di carbonio.»
La ragazzina non riusciva a capacitarsi del regalo, ma soprattutto del fatto che lui fosse davvero dalla sua parte. Non sai quanto ho bisogno di te, papà, della tua protezione, avrebbe voluto dirgli. Soprattutto adesso. Per questo mi sono scritta addosso il tuo numero prima di buttarmi nel lago. Avrebbe voluto spiegargli che non voleva affatto partecipare a quella festa, ma non aveva scelta. E poi avrebbe voluto corrergli incontro e gettargli le braccia al collo, come faceva da bambina.
«Ho chiesto al tuo ortopedico: ha detto che se riesci a fare dieci passi con queste, sarai in grado di usarle anche subito.»
La frase le arrivò addosso come una secchiata d’acqua gelata. La ragazzina sentì spegnersi l’entusiasmo. Ecco la fregatura, pensò. Era una prova. Ogni cosa lo era con suo padre. L’uomo si accorse della sua smorfia di disappunto, adesso era lui a sogghignare.
«Voglio tentare» affermò lei, sicura, perché l’incontro che sarebbe dovuto avvenire alla festa era più importante di qualsiasi cosa.
«Bene» sentenziò lui. Si alzò dal letto e cominciò a creare una specie di percorso nella stanza. Spostò una sedia, scostò il tappeto, rimosse tutti i possibili ostacoli. Infine, prese dal comodino l’orsetto bianco con cui dormiva da quando era piccolissima. Lo osservò. «Ricordo ancora quando te l’ho portato da New York, avevi appena due anni.» L’aveva preso da FAO Schwarz e tante volte da piccola si era sentita promettere che un giorno sarebbero tornati insieme nel magnifico negozio di giocattoli. Non era accaduto e adesso era troppo tardi.
L’orso fu piazzato a circa cinque metri dalla carrozzina, come un traguardo. Poi il padre recuperò le stampelle dalla scatola e gliele porse.
La ragazzina mise il blocco alle ruote della sedia affinché non scivolasse all’indietro, quindi si alzò. In bilico sulla gamba fratturata e perfettamente piantata su quella sana, impugnò le stampelle e se le infilò sotto le ascelle. Il padre si appoggiò alla parete con le braccia conserte, per osservarla e fare da arbitro a quell’assurda sfida. Lei fissò l’orsetto nei piccoli occhi di vetro.
Facendo leva, mosse il primo passo.
Non fu difficile, ma non era ancora il caso di esultare. Il secondo fu altrettanto facile. Al terzo oscillò perché quel maledetto tutore ortopedico, pur essendo leggero, la sbilanciava. Il quarto passo fu più breve. Al quinto si fece coraggio, perché era a metà strada. Al sesto ebbe la sensazione che le braccia le cedessero: si accasciò su un ginocchio ma non cadde. Al settimo passo provò una fitta alle costole incrinate, si bloccò perché le era mancato il fiato. Era sul punto di mollare e di scaraventare le stampelle contro il muro, ma decise di non cedere. L’ottavo le costò una fatica immensa, poteva sentire piccole goccioline di sudore che le imperlavano la fronte. Al nono digrignò i denti ed emise un suono rabbioso, perché le faceva male anche la spalla che si era lussata.
L’orso era lì, mancava un solo passo.
Non poteva girarsi per vedere il padre, ma era curiosa di sapere se sul suo volto c’era un’espressione di sadico divertimento oppure d’incoraggiamento. Quando compì l’ultimo passo, avrebbe voluto esplodere di gioia. Ma si trattenne. Preferiva godere della reazione di chi era stato sconfitto. Finalmente, guardò il genitore.
Come al solito, l’ingegner Rottinger sembrava imperturbabile. «Brava» disse soltanto.
«Mi hai insegnato tu a non arrendermi» gli concesse lei.
Ma l’uomo non si curò del complimento. Si avvicinò, raccolse l’orso dal pavimento e gli accarezzò la pancia. «Oscar ti accompagnerà alla festa e rimarrà fuori ad attenderti.»
Oscar era il suo autista, nonché guardia del corpo e tirapiedi.
«D’accordo» disse la ragazzina. Poi andò a sedersi sul letto, esausta.
Prima di lasciare la stanza, il padre le riconsegnò il peluche. «Come ho già detto, devi sapere da sola ciò che è meglio per te... Ma forse dovremmo tutti rassegnarci al fatto che in molte cose sei ancora soltanto una bambina.»
Quando fu uscito, la ragazzina col ciuffo viola fu colta da un attacco di collera. Per l’irritazione, afferrò la testa dell’orso e cominciò a tirare fino a staccargliela. Quindi lo scaraventò nel cestino della carta che stava accanto alla scrivania e si mise a piangere.