Il kamikaze
Sicuro nelle sue scarpe, Jim si fermò alla casamatta di cemento che guardava i veicoli del parcheggio. Oltre l'entrata passava la strada che conduceva ai sobborghi meridionali di Shanghai. Nei campi circostanti non si notava alcun movimento, ma, 300 iarde più in là, in un fossato anticarro a lato della strada, c'era un plotone di soldati cinesi del governo-fantoccio. Ancora vestiti delle uniformi sbiadite color arancio e verde, costoro sedevano vicino a una stufa a carbone, coi fucili tra le ginocchia. Un sottufficiale balzò dal fossato e, mani ai fianchi, rimase in attesa, gli occhi puntati su di lui. Jim si rese conto che, se si fosse avvicinato ai soldati, sarebbe stato ucciso per le sue scarpe.
D'altra parte, era troppo debole non solo per affrontare i pericoli della strada aperta, ma anche solamente per camminare fino a Shanghai. Così, nascosto dalla casamatta, si diresse verso la sicurezza del campo d'aviazione di Lunghua. Il margine occidentale del campo distava poco più di mezzo miglio, e sorgeva in un terreno coperto di ortiche e canna da zucchero selvatica e disseminato di fusti di carburante e fusoliere di apparecchi abbandonati. Di tra le code arrugginite di questi si scorgeva la pista di cemento, dalla bianca superficie quasi vaporante nel calore. Lo stadio calò alle sue spalle. La strada era ora un meridiano vuoto attorno a un pianeta rottamato dalla guerra. Jim ne seguì il margine, avanzando fra gli zoccoli rotti e i cenci abbandonati dai prigionieri britannici durante gli ultimi passi di marcia prima dello stadio. Ai lati, trinceramenti e casematte sventrati dalle bombe: un mondo di fango. Sul pendio di una fossa anticarro piena d'acqua, fra gomme e casse di munizioni, giaceva il corpo di un soldato cinese, l'uniforme arancio lacerata alle natiche gonfie e alle spalle, che apparivano lucide di luce oleosa come una latta di vernice esplosa. Accanto alla strada era steso sul fianco il cavallo da soma, scuoiato all'altezza delle costole. Jim si fermò a scrutare l'interno dell'ampia gabbia, nella mezza speranza di poterci trovare un topo prigioniero. Lasciata la strada nel punto in cui piegava a est verso i moli di Nantao, prese per le risaie allagate, seguendo il terrapieno di un fosso d'Irrigazione. Anche qui, un miglio a ovest del fiume, l'olio combustibile dei mercantili arenati, filtrando per fossi e canali, copriva le risaie allagate d'una lucentezza sinistra. Si fermò per riposare sulla strada perimetrale del campo d'aviazione; poi, scavalcato il reticolato, si portò al relitto d'aereo più vicino. All'altra, lontana estremità del campo, sotto la massiccia torre antiaerea della Pagoda di Lunghua, c'erano le aviorimesse e le officine bombardate. Fra i relitti s'aggiravano alcuni meccanici giapponesi, ma i mercanti cinesi di rottami, chiaramente intimoriti da quella zona di silenzio, non erano ancora arrivati. Tese l'orecchio per cogliere eventuali rumori di seghe o attrezzi da taglio, ma l'aria era vuota, come se la furia del bombardamento americano avesse scacciato ogni suono, per anni, dalla regione. Si fermò sotto la coda di 1 0, fra le ali del quale cresceva della canna da zucchero selvatica. Sebbene il fuoco da cannone avesse bruciato il rivestimento metallico dei longheroni della fusoliera, la carcassa arrugginita conservava intatta la magia delle macchine da lui osservate, dall'emiciclo dell'aula magna, levarsi in volo da quella pista che egli aveva aiutato a costruire. Toccò le pale flangiate del motore stellare e fece scorrere la mano sul dorso ricurvo dell'elica. Il refrigeratore dell'olio aveva perso gioco, che ora copriva l'aereo d'una rabescatura rosata. Montato sull'attacco dell'ala, osservò, nell'abitacolo, lo splendore intatto dei quadranti e dei volantini d'assetto. Un pathos immenso avvolgeva la manetta del gas e le leve del carrello, e i rivetti stampati nella struttura metallica da qualche giapponese sconosciuto della catena di montaggio della Mitsubishi... Vagò per gli apparecchi abbattuti, che ora, come fluttuanti sui verdi banchi d'ortiche, riprendevano a volare nella sua mente. Stordito dalla loro derelitta bellezza, sedette, per riposare, sulla coda di un caccia Hayate, e si mise a guardare il cielo di Shanghai, in attesa dell'arrivo degli americani al campo d'aviazione di Lunghua. Non aveva mangiato nulla da 2 giorni, ma aveva la mente serena.
- ...Aah... aah...
Il suono, un gemito profondo di rabbiosa rassegnazione, proveniva dal margine del campo d'atterraggio. Prima che potesse nascondersi, dalle ortiche oltre lo 0, a una ventina di passi, s'alzò, in un tramestìo, un aviatore giapponese. Vestiva l'ampia tuta di volo da pilota, e portava, cucite alle maniche, le insegne di una sezione speciale d'assalto. Disarmato, aveva in mano un paletto di pino strappato dalla recinzione; e, fra un colpo e l'altro alle ortiche che lo circondavano, osservava irritato l'apparecchio arrugginito, aspirando e aspirando come a insinuare in entrambi la capacità di volare. Jim s'accucciò sulle ginocchia, sperando di mimetizzarsi contro lo sbiadito camuffamento dell'Hayate. L'ufficiale-pilota giapponese, notò, era un adolescente sotto i 20 anni, dal viso non formato e con naso e mento mollicci. La pelle emaciata e le ossa prominenti dei polsi lo rivelavano denutrito quanto lui, ma i sospiri gutturali erano quelli di un uomo fatto, come se l'entrata nella sezione kamikaze gli avesse procurato gola e polmoni da pilota maturo.
- ...puh... - Notato Jim sulla coda dell'aereo, il pilota lo fissò per qualche secondo dalle ortiche; poi distolse lo sguardo e continuò il suo collerico pattugliamento del perimetro del campo.
Jim lo osservò battere la canna da zucchero. Che volesse sgombrare un pezzo di terreno per l'atterraggio di un elicottero? O avevano magari, i giapponesi, approntato un'arma segreta in risposta alla bomba atomica, un Caccia a razzo ad alte prestazioni necessitante di una pista più lunga di quella di Lunghua? Jim si aspettava che il pilota segnalasse alle guardie ai piedi della Pagoda, ma il pilota era unicamente intento alle sue ricerche fra gli aerei abbandonati. A un certo punto si fermò, e Jim poté osservare ancora una volta la sua estrema giovinezza. Allo scoppio della guerra, e pochi mesi prima ancora, doveva essere stato studente: 1 studente passato direttamente dalla scuola all'accademia d'addestramento aeronautico. Jim si alzò e si diresse, attraverso le ortiche, all'erba giallastra ai margini del campo d'aviazione. Poi cominciò a seguire il giapponese a 50 iarde di distanza, fermandosi quando questi si arrestò per azionare il timone di quota di 1 0 danneggiato. Quando il pilota riprese a camminare, continuò a seguirlo, sforzandosi di posare i piedi sulle sue orme e senza tentare di nascondersi. Per un'ora, il giovane pilota e il ragazzo al suo seguito contornarono il margine meridionale del campo d'aviazione. Le baracche e i blocchi-dormitorio del Campo di Lunghua svettavano nella calura. Lontano, all'estremità opposta del campo d'aviazione, il personale giapponese di terra oziava al sole accanto alle aviorimesse carbonizzate: ma il pilota, sebbene consapevole di essere seguito da Jim, non fece alcun tentativo di richiamarne l'attenzione. Quando arrivarono a portata di vista di 2 soldati di una trincea per fucilieri, si fermò e fece cenno a Jim dì avvicinarsi. In piedi accanto a un aereo arrugginito e privato delle ali dai mercanti di rottami, il pilota, sconcertato dallo sguardo paziente di Jim quanto 1 studente anziano che fosse costretto a riconoscere la presenza di un più giovane ammiratore, cominciò ad aspirare aria, come se, per quanto ancora ragazzo, facesse del proprio meglio per fabbricarsi un'esasperazione da adulto. Nugoli di mosche, levandosi dal corpo in putrefazione di un coolie cinese abbandonato nella canna da zucchero fra serbatoi di carburante e blocchi-motore, vennero a ronzargli attorno alla bocca, battendo alle sue labbra come ospiti impazienti a un banchetto. Jim pensò alle mosche che avevano coperto il volto del signor Maxted: lo sapevano dunque anch'esse che quel pilota adolescente avrebbe dovuto morire in un attacco alle portaerei americane di Okinawa? Per un motivo o per l'altro, il giapponese non si curò minimamente di spazzarle via. Senza dubbio, sapeva che la sua vita era finita, che le forze del Kuo-min-tang in procinto di rioccupare Shanghai si sarebbero fatte un piacere di prendergliela... Il giapponese sollevò il paletto di legno; poi, come un addormentato che si svegliasse da un sogno, lo scagliò fra le ortiche. Al trasalimento di Jim, infilò una mano callosa nella tasca mediana della tuta di volo e ne trasse un piccolo mango. Jim prese il frutto giallo, ancora caldo del calore del suo corpo, e, imponendosi di mostrare la stessa autodisciplina, si trattenne dal mangiarlo. Poi rimase là, a guardare il pilota che fissava la pista di cemento. Con un ultimo grido di disgusto, il pilota fece un passo avanti e gli diede 1 scappellotto sulla testa, indicandogli a gesti il recinto perimetrale come se esso rappresentasse la salvezza dal terreno contaminato.