L'Impero del Sole
Un umido sole mattutino illuminava lo stadio, riflettendosi nelle chiazze d'acqua disseminate sulla pista di atletica e nei radiatori cromati delle auto americane parcheggiate all'estremità settentrionale del campo di calcio.
Appoggiato alla spalla del signor Maxted, Jim osservò con 1 sguardo d'insieme le centinaia di uomini e donne sdraiati sull'erba calda. Qualche prigioniero, il volto cotto dal sole eppure pallido, come cuoio sbiancato che avesse perso il colore, fissava, accosciato, le auto. Le fissava come sospettoso di quelle loro griglie brillanti, con la stessa diffidenza con cui i contadini di Hungjao levavano gli occhi dai solchi di riso al passaggio della Packard dei suoi genitori. Spazzò le mosche dalla bocca e dagli occhi del signor Maxted.
L'architetto giaceva immobile, il bianco costato come slacciato attorno al cuore, ma mandava un debole respiro.
- Ora sta meglio, signor Maxted... Andrò a prenderle dell'acqua. - Fissò le file di macchine a occhi stretti, e questo piccolo sforzo di messa a fuoco bastò a spossarlo. Nel tentare di tener ferma la testa, gli parve che il terreno vacillasse, come pronto a rovesciare fuori dallo stadio lui e le centinaia di prigionieri. Il signor Maxted si volse a guardarlo, e lui gli indicò le auto.
Ce n'erano oltre 50: Buick, Lincoln Zephy, 2 Cadillac bianche parcheggiate fianco a fianco. Che fossero là per accogliere i rispettivi proprietari britannici, ora che la guerra era finita? Jim accarezzò le guance del signor Maxted, poi, allungando le mani alla caverna sotto il costato, cercò di massaggiargli il cuore. Sarebbe stato un peccato, infatti, che morisse proprio nel momento in cui l'aspettava, per ricondurlo ai locali notturni di Shanghai, la sua Studebaker... I soldati giapponesi, però, erano ancora là, seduti sui gradini di cemento a lato del vomitorio d'ingresso. Sorseggiavano il tè accanto a una stufa a carbone, il cui fumo volteggiava tra i camion dell'ospedale. 2 giovani soldati andavano passando secchi d'acqua a 1 spossato dottor Ransome, ma le truppe di sicurezza sembravano tanto poco interessate ai prigionieri di Lunghua raccolti sul campo di calcio, quanto lo erano state durante la marcia del giorno prima. Le gambe tremanti, Jim si alzò e passò in rassegna le auto parcheggiate alla ricerca della Packard dei genitori. Ma gli autisti, dov'erano?
Avrebbero dovuto essere accanto alle auto, come facevano sempre davanti al circolo sportivo. Una nuvoletta di pioggia venne a oscurare il sole, e sullo stadio calò una luce tetra. Osservando le cromature arrugginite, Jim si rese conto che le auto americane stavano là da anni. Parabrezza sudici dello sporco dell'inverno, pneumatici sgonfi, esse erano parte del bottino fatto dai giapponesi sui residenti Alleati. Spostò lo sguardo sulle gradinate settentrionali e occidentali dello stadio. I supporti di cemento erano stati privati dei sedili, e alcuni settori delle tribune erano ora adibiti a depositi scoperti. In essi, come nella soffitta di un deposito di mobili, si vedevano impaccate insieme dozzine di stipi d'acero australiano e di tavoli di mogano dalla vernice ancora intatta, e centinaia di sedie da sala da pranzo. Lettiere e guardaroba, frigoriferi e condizionatori d'aria, montavano a pendio, accatastati, verso il cielo. L'immenso palco presidenziale, dal quale Madame Chiang e il Generalissimo avevano contato di salutare gli atleti del mondo, era ora stipato d'una congerie di cose: ruote da roulette, carrelli da bar e ninfe in gesso dorato con lampade dai colori sgargianti sopra il capo. Sui gradini di cemento si vedevano rotoli di tappeti persiani e turchi frettolosamente avvolti in teli incerati, da cui colava acqua come da una catasta di tubi marci. A Jim, quei miseri trofei delle case e dei locali notturni di Shanghai sembravano rifulgere di una freschezza da vetrina d'esposizione, come i saloni pieni di mobili da lui visitati un giorno, con la madre, nell'emporio della Sincere Gompany. Così, rimase a fissare le tribune, quasi aspettandosi di vedervi apparire sua madre, in abito di seta, e di vederle sfiorare, d'una mano guantata, quelle terrazze di lacca nera. Tornato a sedere, si schermò gli occhi dalla luce viva. Poi massaggiò le guance del signor Maxted, prendendogli le labbra fra pollice e indice per sloggiare le mosche che gli s'erano infilate in bocca. Tutt'intorno, i prigionieri del campo di Lunghua fissavano, stesi sull'erba umida, quello sfoggio di oggetti che erano stati loro, mentre la luce sempre più intensa del sole d'agosto avvivava gradatamente il miraggio. Ma il miraggio svanì presto.
Jim s'asciugò le mani sui calzoni del signor Maxted. I giapponesi avevano spesso adibito lo stadio a campo di smistamento, e l'erba consunta era sparsa di stracci unti, cenere di piccoli falò, strisce di tenda e cassette di legno.
C'erano poi resti inconfondibilmente umani: macchie di sangue e mucchi di feci, su cui banchettavano miriadi di mosche. Il motore di un camion portamalati s'avviò con un rombo. Scesi dalle tribune, i soldati giapponesi si stavano disponendo in formazione di marcia. Coppie di guardie, maschere di cotone sul viso, montarono dalle sponde posteriori. Con l'aiuto di 3 prigionieri inglesi, il dottor Ransome calò a terra i morti o i troppo malati per proseguire la marcia. Ed essi giacquero là, nei solchi scavati nell'erba dai pneumatici, come corpi desiderosi di avvolgersi in una soffice coperta di terra. Accosciato, Jim premeva il diaframma del signor Maxted come un mantice. Con quel sistema, il dottor Ransome aveva riportato in vita dei pazienti, e bisognava che il signor Maxted si rimettesse tanto, da poter riprendere la marcia. Tutt'intorno, i prigionieri s'andavano tirando su a sedere, e c'erano dei mariti già in piedi accanto alle forme raggomitolate di mogli e figli. Molti internati anziani erano morti durante la notte: a 10 passi di distanza, occhi sbarrati rivolti al sole, giaceva, nel suo abito di cotone, la signora Wentworth, l'interprete del ruolo di lady Bracknell. Altri cadaveri stavano stesi in pozze d'acqua, che il peso dei corpi aveva spremuto dall'erba molle. Le braccia doloranti dallo sforzo di pompare, Jim si aspettava che il dottor Ransome saltasse dal camion portamalati per venire a occuparsi del signor Maxted. Ma i 3 veicoli stavano già lasciando lo stadio, e il dottor Ransome abbassò la testa rossiccia quando il suo camion infilò il vomitorio. Jim fu tentato di corrergli dietro, ma sentì di aver deciso di stare col signor Maxted. Avere qualcuno da curare, aveva imparato, era lo stesso che venire curati da qualcuno. Ascoltò i camion attraversare il parcheggio, il grattare delle marce e l'ansito dei motori al momento di prender velocità. Sì, quello era finalmente lo smantellamento del campo di Lunghua. A lato del vomitorio, un gruppo di internati si dispose in ordine di marcia. Sulla pista d'atletica, ispezionati da un sergente della gendarmeria, attendevano in fila circa 300 prigionieri britannici, gli uomini più giovani, con mogli e bambini. Accanto a loro, sull'erba del campo di calcio, giacevano come tanti caduti i prigionieri non più in grado di reggersi né seduti né in piedi. Fra costoro, gente finita in un vicolo cieco della guerra, s'aggiravano, indifferenti e come alla ricerca d'un pallone smarrito, i soldati giapponesi.
Un'ora più tardi la colonna si mosse, e i prigionieri si trascinarono per il vomitorio senza 1 sguardo indietro. Dei giapponesi, 6 li seguirono, il resto continuò a pattugliare stancamente gli stipi d'acero australiano e i frigoriferi. I sottufficiali anziani, in attesa presso il vomitorio, osservavano i ricognitori americani in cielo e non facevano alcun tentativo di incitare i prigionieri rimasti. Nel giro di un quarto d'ora, comunque, cominciò ad adunarsi un secondo gruppo di prigionieri, e i giapponesi si fecero avanti per l'ispezione. Jim si pulì le mani nell'erba umida e infilò le dita in bocca al signor Maxted, le cui labbra gli tremarono attorno alle nocche. Il sole d'agosto asciugava già l'umidore dell'erba, e Jim rivolse la propria attenzione a una chiazza d'acqua della pista. Lasciata passare la sentinella, attraversò il tratto erboso e andò a bervi. Dalle mani a coppa, l'acqua gli scivolò in gola come mercurio ghiacciato, come una scarica elettrica quasi capace di arrestargli il cuore. Prima che dai giapponesi gli arrivasse l'ordine di allontanarsi, si affrettò ad attingere di nuovo con le mani a coppa e portò l'acqua al signor Maxted. Quando gliela fece stillare in bocca, fu un frenetico schizzare di mosche dalle sue gengive. Accanto al signor Maxted giaceva l'anziana figura del maggiore Griffin, un ufficiale in congedo dell'Esercito indiano che, a Lunghua, aveva tenuto conferenze sulle armi di fanteria durante la grande guerra. Troppo debole per alzarsi a sedere, questi fece segno a Jim di usare le mani. Jim pizzicò le labbra del signor Maxted, e fu lieto di vedere la sua lingua schizzar fuori in 1 spasmo. In un tentativo d'incoraggiamento, disse: - Le nostre razioni dovrebbero arrivare presto, signor Maxted.
- Bravo, Jamie, bravo, tieni duro.
- Jim... - chiamò, con un cenno, il maggiore Griffin.
- Subito, maggiore... - rispose Jim, attraversando la pista per andare ad attingere altra acqua con le mani a coppa. Mentre, accosciato, dava colpetti sulle guance del maggiore, notò, seduta sull'erba a una ventina di passi, la signora Vincent, che aveva lasciato figlio e marito con un gruppo di prigionieri al centro del campo di calcio. Troppo esausta per muoversi oltre, essa lo fissava ora col medesimo sguardo disperato col quale l'aveva osservato mangiare i tonchi. La pioggia della notte, slavandole l'ultimo colore dal vestito di cotone, l'aveva lasciata col cinereo pallore dei cinesi del campo d'aviazione di Lunghua. Eh sì, una ben strana pista avrebbe costruito, la signora Vincent...
- Jamie...
Lo chiamava col suo nome di bambino, quel nome che il signor Maxted aveva evocato, involontariamente, da qualche ricordo prebellico. Lo voleva bambino di nuovo: voleva vederlo riprendere quel giro incessante di commissioni che l'aveva tenuto in vita a Lunghua. Mentre raccoglieva l'acqua fredda dalla pista, ricordò come lei si fosse rifiutata di aiutarlo durante la sua malattia. Però, quel suo modo di mangiare l'aveva sconcertato sempre... Attese che gli bevesse dalle mani.
Quand'ebbe finito, l'aiutò ad alzarsi. - La guerra è finita, ora, signora Vincent.
Con una smorfia, lei gli spinse via le mani, ma Jim non provò più alcun risentimento. La osservò camminare traballando fra i prigionieri seduti, poi s'accosciò accanto al signor Maxted e prese ad allontanargli le mosche dal viso.
Sentiva ancora, sulle dita, la lingua di lei...
- Jamie...
Ecco che lo chiamava qualcun altro, come se lui fosse un coolie cinese pronto a scattare ai comandi dei padroni europei. Troppo in preda alle vertigini anche per tenersi seduto, si stese accanto al signor Maxted. Basta coi servigi agli altri! Aveva le mani gelate dall'acqua della pista, e la guerra era durata ormai troppo. Al centro di detenzione, e a Lunghua, aveva fatto il possibile per sopravvivere, ma ora una parte di lui desiderava morire, perché questo era l'unico modo, per lui, di metter fine alla guerra. Osservando le centinaia di prigionieri sull'erba, desiderò che morissero tutti, là, in mezzo ai loro tappeti marci e ai loro mobili-bar. Molti, questo favore gliel'avevano già fatto, notò con soddisfazione; però, che rabbia che ce ne fossero altri ancora in grado di camminare e dunque di adunarsi, come facevano, in un secondo gruppo di marcia! Perché i giapponesi, secondo lui, miravano ad ammazzarli a furia di marce per la campagna, e lui, invece, avrebbe voluto che rimanessero nello stadio, a morire con le bianche Cadillac davanti agli occhi... Rabbiosamente, spazzò le mosche dalle guance del signor Maxted; e, irridendo alla signora Vincent, cominciò a cullarsi sulle ginocchia, come da piccolo, e a mormorare a se stesso, battendo monotonamente per terra: - Jamie... Jamie... Un soldato giapponese di pattuglia lungo la pista laterale attraversò la striscia erbosa e si fermò a fissarlo. Irritato dalla sua cantilena, stava per dargli un calcio con lo scarpone sfondato, quando un lampo di luce illuminò tutto lo stadio: un lampo accecante sopra le tribune dell'angolo sudoccidentale del campo di calcio, come d'una immane bomba americana che fosse esplosa a nordest di Shanghai. La sentinella esitò, e si guardò alle spalle, mentre la luce aumentava d'intensità.
Dopo pochi secondi, la luce scemò, ma il suo pallido riflesso continuò ad ammantare di sé tutto lo stadio: il mobilio rubato delle tribune, le automobili dietro le porte del campo di calcio i prigionieri sull'erba, gente seduta sul fondo d'una fornace riscaldata da un secondo sole. Jim lasciò correre lo sguardo dal biancore delle sue mani e delle sue ginocchia alla faccia tirata del soldato giapponese, che sembrava sconcertato dalla luce. Entrambi restarono in attesa del brontolìo dell'esplosione, ma lo stadio e la campagna circostante rimasero immersi in un ininterrotto silenzio, come si fosse trattato d'un ammicco del sole alla perdita momentanea d'un battito cardiaco. Jim, allora, sorrise al giapponese, provando dentro di se il desiderio di dirgli che quella luce era il segno premonitore della sua morte, l'immagine visibile dell'unione della sua piccola anima con l'anima più grande del mondo vicino a morire... Questi giochi e queste allucinazioni durarono fino al tardo pomeriggio, quando un incursione aerea su Hongkew tornò a illuminare lo stadio. Jim, immerso nel suo trasognamento, sentiva la terra sussultargli sotto la schiena come la pista da ballo del Circolo Sportivo di Shanghai. Le vampe di luce si spostavano da un settore all'altro delle tribune, trasformando il mobilio in una serie di quadri illustrativi della vita coloniale britannica. Al crepuscolo, l'ultimo gruppo di marcia si adunò presso il vomitorio. Jim, seduto accanto al signor Maxted, osservò i 50 prigionieri formare la colonna. Dove credevano di andare? Molti di loro, uomini e donne, stentavano a reggersi in piedi, sicché, probabilmente, non ce l'avrebbero fatta nemmeno ad arrivare al parcheggio esterno. Per la prima volta dalla partenza da Lunghua, i giapponesi dimostrarono impazienza.
Desiderosi di sbarazzarsi degli ultimi prigionieri ancora in grado di camminare, i soldati entrarono nel campo di calcio e tentarono di rimetterli in piedi a schiaffi e strattoni. Un caporale col viso coperto da una maschera di cotone puntava intanto la sua torcia in viso ai morti, che rigirava sulla schiena.
Dietro i giapponesi veniva un civile eurasiatico in camicia bianca, il quale, come l'accompagnatore di un'efficiente compagnia di viaggi, s'affaccendava ad aiutare coloro che avevano ordine di proseguire la marcia. Ai margini del campo, le guardie giapponesi spogliavano intanto i corpi dei morti, strappando loro scarpe e cinture.
- Signor Maxted... - In un estremo momento di lucidità, Jim si levò a sedere, conscio di dover abbandonare l'architetto morente per unirsi alla marcia notturna. - Adesso, bisogna che vada, signor Maxted. E ora che la guerra finisca...
Mentre si sforzava di alzarsi, il signor Maxted gli ghermì il polso. - Non andare con loro... Jim... resta qui.
Jim aspettò che morisse, e lui gli premette il polso contro l'erba, come per incatenarlo alla terra. Intanto, osservava il gruppo di marcia trascinarsi verso il vomitorio. Incapace di fare più di 3 passi, un uomo cadde, e fu lasciato sulla pista laterale. Le voci dei giapponesi s'avvicinavano sempre più, soffocate dalle maschere di cotone, e, nel puzzo, il sergente ebbe un conato di vomitò e sputò... Un soldato gli s'inginocchiò accanto, il fiato greve, affaticato, dietro la maschera. Mani robuste gli palparono petto e fianchi, alla ricerca delle tasche, poi lo liberarono bruscamente delle scarpe, scagliandole sulla pista laterale. Jim rimase immobile. I fuochi dei depositi petroliferi in fiamme di Hongkcw lingueggiavano intanto fra le tribune, illuminando le porte dei frigoriferi rubati, i radiatori delle bianche Cadillac, e le lampade delle ninfe di gesso nel palco del Generalissimo.