La fuga dall'ospedale

 

- Mitsubishi... 0-Sen... ah... Nakajima... ah... - Dalla sua branda nel reparto infanzia, Jim ascoltava il giovane soldato giapponese enumerare i nomi degli aerei in volo sopra l'ospedale. I cieli di Shanghai erano pieni di aerei. Il soldato, che conosceva i nomi di 2 soli tipi d'apparecchio, faticava a stare al passo con l'incessante attività aerea. Da 3 giorni Jim riposava tranquillo nel reparto all'ultimo piano dell'ospedale Sainte-Marie, nella Concessione francese, disturbato unicamente dall'abitudine del giovane soldato di fumare di nascosto e dal dilettantismo del suo sistema d'avvistamento. Unico ospite del reparto, pensava ai suoi genitori, augurandosi che venissero presto a trovarlo. Gli giunse il rumore degl'idrovolanti in decollo dalla Base aeronavale di Nantao.

- ...ah... ah... - Il soldato scosse la testa, fece di nuovo qualche passo rigido, e ispezionò il pavimento immacolato alla ricerca di qualche mozzicone. Nel corridoio sottostante al pianerottolo Jim udiva le suore missionarie francesi discutere con la polizia militare giapponese che occupava quell'ala dell'ospedale. Nonostante i materassi rigidi, le pareti bianche con le loro sgradevoli immagini sopra ogni letto, Gesù bambino crocifisso in mezzo a una cerchia di discepoli cinesi, e il sinistro odore di disinfettanti (che, secondo lui, stava in rapporto con la religiosità più intensa), Jim trovava difficile credere che la guerra fosse iniziata davvero. Muri di stranezza separavano ogni cosa, e strana gli sembrava ogni faccia che lo guardasse. Riusciva a ricordare il ricevimento del dottor Lockwood a Hungjao, e gli acrobati cinesi che si trasformavano in uccelli, ma il cannoneggiamento della Petrel, il carro armato che aveva schiacciato la Packard, i grossi cannoni dell'Idzumo, appartenevano tutti al reame dell'immaginario. Quasi quasi si aspettava di vedere Yang entrare saltellando nel reparto e rivelargli che entrambi stavano recitando in un film epico in technicolor girato negli studi cinematografici di Shanghai. La realtà vera era rappresentata, senz'ombra di dubbio, dalla piana fangosa alla quale suo padre aveva contribuito a trascinare i marinai feriti, e nella quale era rimasto 6 ore, insieme con lui, accanto al cadavere del sottufficiale. Era come se i giapponesi fossero stati tanto sorpresi dalla rapidità del loro attacco, da aver avuto bisogno di un certo tempo prima di rendersi pienamente conto della loro vittoria. A poche ore di distanza dall'attacco di Pearl Halbor, le armate giapponesi attestate attorno a Shanghai avevano occupato il Quartiere internazionale. I fanti che avevano catturato l'USS Wake e occupato il Bund, avevano festeggiato l'impresa sfilando in forze davanti agli alberghi e agli istituti bancari. Nel frattempo, i feriti superstiti della Petrel e i soccorritori civili britannici restavano nella piana fangosa a lato dello scolmatore. Una squadra armata di poliziotti militari discese la gradinata e si portò in mezzo a loro. Il capitano Polkinhorn, ferito al capo, e il suo primo ufficiale vennero portati via, gli altri invece furono lasciati a sedere al sole. Un ufficiale giapponese in alta uniforme, fodero della spada nella mano guantata, fece il giro dei feriti e dei soccorritori esausti, scrutandoli 1 per 1. Jim, sedeva nella sua divisa scolastica, giacca sportiva e berretto, accanto al padre spossato: ovviamente confuso dai complessi emblemi della Scuola della cattedrale, l'ufficiale lo prese per un aspirante di marina, insolitamente giovane, della Royal Navy. Un'ora più tardi, il capitano Polkinhorn veniva condotto in motolancia sul luogo di inabissamento della Petrel. Prima di abbandonare la nave, aveva potuto distruggere i cifrari ma per giorni e giorni i giapponesi calarono sommozzatori nel vano tentativo di recuperare le custodie dal relitto. Poco dopo le 10, i giapponesi riaprirono il Bund, e migliaia di civili inquieti, cinesi ed europei di nazioni neutrali, furono convogliati lungo il molo. Costoro rimasero a guardare, in basso, i feriti della Petrel, e assistettero, ritti in silenzio, al cerimoniale dell'alzabandiera sulla USS

Wake, dal cui albero maestro sventolò poco dopo il Sole nascente. Rabbrividendo accanto al padre nel freddo sole settembrino, Jim levò gli occhi allo sguardo senza espressione dei cinesi ammassati sul molo. Stavano assistendo all'umiliazione totale delle potenze alleate da parte dell'impero giapponese, quegli spettatori, e lo spettacolo doveva fungere da lezione concreta a quanti riluttassero a entrare nella Sfera di coprosperità. Per fortuna, qualche ora dopo arrivava, aprendosi a forza il passo tra la folla, un gruppo di funzionari delle ambasciate della Francia di Vichy e di Germania. Costoro protestarono vibratamente contro il trattamento riservato ai feriti britannici, e i giapponesi, con 1 dei loro repentini scatti d'umore, permisero che i prigionieri prendessero la strada dell'ospedale Sainte -Marie. Una volta là, Jim ebbe un solo pensiero: lasciare l'ospedale per tornare dalla madre in Amherst Avenue. Il medico francese che gli spalmò i ginocchi al mercurocromo, e le suore che gli fecero il bagno, si resero conto all'istante di aver dinanzi 1 scolaro britannico, e tentarono di farlo rilasciare. Ma i giapponesi avevano occupato un'ala completa dell'ospedale, sgombrato i pazienti cinesi e messo una guardia per piano. Anche all'ultimo, quello del reparto infanzia, dove un giovane soldato passava il tempo a chiedere sigarette alle suore e a sciorinare i nomi degli aerei di passaggio. Una suora cinese disse a Jim che suo padre stava con gli altri civili in un reparto sottostante, e che sarebbe stato dimesso entro pochi giorni, una volta ristabilitosi dagli effetti dello stress cardiaco e del freddo. Intanto, per ragioni sue, l'alto comando giapponese aveva cominciato a tessere l'elogio del coraggio del capitano Polkinhorn e dei suoi uomini. Il secondo giorno, il comandante dell'idzumo inviò all'ospedale un gruppo di ufficiali in uniforme, i quali resero omaggio ai marinai feriti secondo le migliori tradizioni dell'ushido, inchinandosi davanti a ciascuno. Il giornale di lingua inglese Shanghai Times, di proprietà britannica ma da tempo filogiapponese, usci con una foto della Petrel in prima pagina e con un articolo che celebrava il coraggio della sua ciurma. L'editoriale descriveva l'attacco giapponese a Pearl Harbor e il bombardamento di Clark Field a Manila. Disegni forniti da agenzie di stampa neutrali mostravano scene apocalittiche di corazzate americane in affondamento tra nubi di fumo. Ora che i giapponesi avevano vinto la guerra, la vita a Shanghai sarebbe forse tornata normale, si diceva Jim. Quando il giovane soldato gli mostrò il giornale, egli studiò attentamente le foto dei cacciabombardieri in decollo dalle portaerei giapponesi. Quelle scene, gli pareva di ricordarle dai suoi sogni nella camera del Palace, alla vigilia della guerra. Sdraiato sul letto accanto a lui, il soldato gl'indicò col dito gli aerei d'assalto, desideroso d'impressionarlo con le sue eroiche imprese.

- ... ah... ah...

- Nakajima - disse Jim. - Nakajima Hayabusa.

- Nakajima...? - sospirò profondamente il soldato, come se l'argomento aviazione - militare andasse ben oltre la portata di un bambinetto inglese. Senonché, Jim era davvero in grado di riconoscere quasi tutti gli aerei giapponesi. I cinegiornali inglesi sulla guerra cino-giapponese si facevano apertamente beffe degli apparecchi giapponesi e dei loro piloti, ma suo padre e il signor Maxted ne parlavano sempre con rispetto. Mentre si stava chiedendo come avrebbe potuto fare per vedere suo padre, il caporale della guardia gridò un ordine dal basso delle scale. Il giovane soldato era terrorizzato da quel piccolo e sgradevole caporale, il cui grado doveva chiaramente essere il più importante dell'esercito giapponese. Così, messo via il suo mozzicone, afferrò il fucile e uscì di corsa, agitando un dito ammonitore nella direzione di Jim. Lieto di essere rimasto solo, Jim saltò immediatamente dal letto. Dalla finestra poteva vedere un gruppo di orfani cinesi convalescenti sul balcone dell'ala adiacente. Avvolti nelle loro vestaglie europee, donate, come quella di Jim, da un'associazione francese locale di beneficenza, gli orfani passavano l'intera giornata a fissare lui. Le 2 ali erano connesse da una scala metallica antincendio, ostruita da cumuli di sacchetti di sabbia che, nel '37, avevano protetto le finestre dalle cannonate sparate d'oltrefiume. Scalzo, Jim si diresse alla porta posteriore del reparto.

Un'angusta passerella conduceva attraverso i sacchetti di sabbia, e la sabbia sparsa era disseminata dei mozziconi delle sigarette fumate, nei momenti di noia, dai dottori francesi. Facendo attenzione ai pezzi di vetro rotto, Jim si avviò lungo la scala antincendio. Una scala metallica raggiungeva l'ala dirimpettaia, e una passerella rugginosa la collegava al reparto sottostante a quello dell'infanzia. Jim scese rapidamente i gradini e attraversò la passerella. A quel piano, da qualche parte, stavano suo padre e i superstiti della Petrel. Le finestre dei reparti affacciati sulla passerella erano state verniciate a catrame da oscuramento. Osservato ad occhi spalancati dagli orfani, Jim seguì la passerella fin oltre l'angolo dell'ala. La porta posteriore del reparto era sprangata, ma, mentre provava a premere la maniglia, i bambini cinesi si abbassarono di scatto sotto il parapetto del balcone. Sul tetto, ritto, un soldato giapponese gridava qualcosa verso il basso, nello spazio fra le 2 ali.

Soldati con le baionette innestate attraversarono di corsa il cortile dell'ospedale, e una moto con carrozzetta armata entrò in tromba per l'ingresso.

Jim udì un rumore di scarponi e di calci di fucili su per le scale di pietra, e la voce acuta di una suora francese che protestava. Si accucciò fra i sacchetti di sabbia davanti alla porta sprangata. Dalla passerella del reparto infanzia veniva un rumore di soldati, e dalle griglie rugginose uscivano fili di sabbia.

In Avenue Foch echeggiò il richiamo di un clacson, e Jim si convinse di avere alle calcagna, sguinzagliata alla sua ricerca, l'intera forza d'occupazione giapponese di Shanghai. Un fragore di catenaccio, e s'aprì la porta del reparto oscurato. Nel breve lampo di luce, Jim vide come una caverna affollata di uomini bendati, alcuni stesi sul pavimento fra i letti, e soldati giapponesi, con fucili e barelle di tela, spingere da parte le suore. Mentre le facce sbiancate dei giovani marinai britannici si volgevano al sole, dalla camera scura salì, ad avvolgerlo, un fetore di malattia e di piaghe. Il caporale giapponese fissò il bambino in pigiama accovacciato tra i mozziconi. Poi chiuse di schianto la porta, e Jim lo udì colpire con un pugno, urlando, 1 dei soldati giapponesi. Un'ora dopo erano partiti tutti, lasciando Jim solo nel reparto infanzia.

All'echeggiare dei clacson in Avenue Foch, un camion militare entrò a marcia indietro nel complesso dell'ospedale. L'equipaggio della Petrel e i suoi 8 soccorritori britannici furono portati giù alla rinfusa e caricati. Alcuni feriti in barella vennero stesi sotto le gambe di altri a malapena in grado di reggersi a sedere. Jim non vide suo padre, ma la suora francese gli disse che, al camion destinato alla prigione militare di Hongkew, c'era arrivato con le proprie gambe.

- Stamattina è scappato 1 dei vostri marinai. E per noi è un guaio grosso. - La suora lo fissava con lo sguardo disapprovatore del caporale giapponese. Era arrabbiata con lui in modo nuovo, aveva notato nelle settimane precedenti: non per qualcosa che lui avesse fatto, ma per la sua impotenza a cambiare la situazione in cui era venuto a trovarsi.

- Tu abiti in Amherst Avenue? Allora devi andare a casa.

La suora fece cenno a una monaca cinese, e questa, gli depose sul letto il suo vestiario lavato di fresco. Chiaramente, avevano fretta che si togliesse dai piedi. - Ci penserà tua madre, ad aver cura di te.

Jim si vestì, si annodò la cravatta e s'infilò il berretto della scuola secondo le regole. Avrebbe voluto ringraziare la suora, ma lei se n'era già andata dai suoi orfani.