La piscina asciutta

 

Il tempo s'era fermato, in Amherst Avenue, e rimaneva immobile come la parete di polvere gravante sulle stanze, dalla quale, ogni volta che camminava per la casa deserta, egli si sentiva brevemente avvolgere. Profumi semidimenticati, un vago sapore di tappeti, gli ricordavano il periodo precedente alla guerra. Per 3 giorni attese il ritorno dei genitori. Ogni mattina s'arrampicava sul tetto spiovente sovrastante la finestra della sua camera da letto, e lasciava correre lo sguardo sulle strade residenziali dei sobborghi occidentali di Shanghai.

Osservò così le colonne di carri armati giapponesi entrare in città dalla campagna, e tentò di rammendare la sua giacca sportiva, nell'attesa impaziente del primo sguardo che gli avrebbero lanciato, al rientro nella Packard con Yang, i genitori. Nel cielo volavano stormi di aerei, ed egli passava le ore a identificarli. Sotto di lui si stendeva il prato indisturbato, ogni giorno un po' più scuro ora che non c'era più il giardiniere a potare le siepi e a tagliare l'erba. Jim vi giocava nel pomeriggio, strisciando fra il gruppo di rocce e fingendosi 1 dei fanti di marina giapponesi che avevano attaccato la USS Wake. Ma i giochi in giardino avevano perso la loro magia, e così egli trascorreva la maggior parte del tempo sul sofà della camera da letto materna.

La presenza di lei aleggiava nell'aria come il suo profumo, tenendo a bada la figura deformata riflessa dallo specchio scheggiato. Jim ricordava le lunghe ore passate con lei sui compiti di latino, e i racconti di lei sulla sua infanzia in Inghilterra, quel paese a lui ben più straniero della Cina nel quale sarebbe andato a scuola a guerra finita. Nel talco sparso tutt'intorno sul pavimento poteva vedere le impronte dei piedi di lei. S'era spostata da parte a parte, spinta da un partner troppo frettoloso, forse 1 degli ufficiali giapponesi cui stava insegnando il tango. Provando a sua volta i passi, che gli parvero assai più violenti di qualunque tango mai visto, cadde e si tagliò la mano contro lo specchio scheggiato. Succhiandosi la ferita, si sovvenne di quando sua madre gli aveva insegnato a giocare a mah-jong, e del ticchettio delle misteriose tessere colorate contro i bordi di mogano. Ci avrebbe voluto scrivere un libro, sul mah-jong, salvo che s'era scordato la maggior parte delle regole. Infilato un fascio di canne di bambù sul tappeto del salotto, canne che era andato a prendere nella serra, cominciò a fabbricare un aquilone da volo umano secondo i principi scientifici insegnatigli dal padre. Già, ma le pattuglie giapponesi in Amherst Avenue l'avrebbero visto involarsi dal giardino: meglio rinunciare. Fece un giro per la casa vuota e osservò il livello dell'acqua della piscina calare quasi impercettibilmente. Il contenuto del frigorifero cominciava a esalare un cattivo odore, ma gli scaffali della dispensa erano pieni di frutta sciroppata, biscotti da cocktail e scatole di carne varia, ossia delle prelibatezze da lui più adorate. Mangiare, mangiava in sala da pranzo, seduto al suo solito posto; e, la sera, all'ora in cui giudicava ormai improbabile il rientro dei genitori, andava a dormire nella sua camera all'ultimo piano, con accanto, sul letto, 1 dei suoi aeromodelli, cosa proibitissima da Vera. Venivano, allora, i sogni di guerra, e tutte le corazzate della marina giapponese risalivano lo Yangtze, affondando a piene bordate la Petrel, e lui e suo padre portavano in salvo i marinai feriti.

Il quarto giorno, quando scese per la prima colazione, scoprì di aver dimenticato di chiudere un rubinetto in cucina. Così, la cisterna s'era svuotata di tutta l'acqua. La dispensa era copiosamente fornita di sifoni di acqua di seltz, però c'era il fatto che, ormai, i suoi genitori non sarebbero tornati più. Attraverso le finestre della veranda rimase a fissare il giardino inselvatichito. La guerra non cambiava le cose, i cambiamenti, del resto, a lui facevano un piacere immenso, ma lo lasciava tali e quali in atteggiamenti strani e inquietanti. Anche la casa sembrava cupa, come s'andasse ritraendo da lui con una serie di piccoli atti scostanti. Sforzandosi di tener su il morale, decise di visitare le case dei suoi amici più intimi, Patrick Maxted e i gemelli Raymond. Si lavò dunque con acqua di seltz e scese in giardino a prendere la bicicletta. Durante la notte, la piscina s'era svuotata del tutto. Così vuota, non l'aveva vista mai, e si fermò a osservare con interesse il fondo inclinato.

Il mondo una volta misterioso delle ondeggianti linee azzurre, osservate attraverso una cascata di bollicine, giaceva ora esposto alla luce del mattino.

Le mattonelle erano viscide dalle foglie e dallo sporco, e la scala cromata all'estremità profonda, che aveva sempre visto svanire in un abisso d'acqua, terminava ora bruscamente a lato di un paio di ciabatte sudice di gomma. Saltò giù nella parte bassa, e, scivolando sulla superficie umida, batté il ginocchio contuso, lasciando un filo di sangue sulle mattonelle: subito, venne a posarcisi sopra una mosca. Muovendosi con precauzione, discese il fondo inclinato. Intorno allo sfiato d'ottone della parte fonda s'accumulava un piccolo museo di estati andate: un paio d'occhiali da sole di sua madre, una forcina di Vera, un bicchiere da vino e una mezza corona inglese gettata per lui nella piscina dal padre. Quella moneta d'argento, brillante come un'ostrica, l'aveva occhieggiata spesso, ma non era mai riuscito a recuperarla. Ora la intascò e alzò lo sguardo lungo le pareti umide. C'era un che di sinistro in una piscina asciutta, e Jim tentò d'immaginare a quale scopo potesse servire, così vuota d'acqua. In quello stato, gli faceva venire in mente i bunker di cemento di Tsingtao, e le impronte insanguinate di mani lasciate dagli artiglieri tedeschi impazziti sulle pareti del cassonetto. Forse si stavano per commettere assassinii in tutte le piscine di Shanghai, e la piastrellatura delle pareti serviva per un più facile lavaggio del sangue... Lasciato il giardino, guidò la bicicletta attraverso la porta della veranda. Poi fece una cosa che aveva sempre desiderato: vi montò sopra e si avviò per le solenni stanze vuote. Godendo al pensiero dello choc che ciò avrebbe provocato a Vera e alla servitù, fece destramente il giro dello studio paterno, osservando con particolare interesse l'impronta lasciata nel folto tappeto dalle gomme delle ruote. Scontratosi con la scrivania, rovesciò una lampada da tavolo nello sterzare sulla porta del salotto. Sollevandosi sui pedali, si lanciò quindi a zigzag tra poltrone e tavoli, perse l'equilibrio, cadde sul sofà, rimontò senza toccare il pavimento, andò a sbattere contro la doppiaporta della sala da pranzo, la aprì, e cominciò 1 scatenato circuito del lungo tavolo di legno lucido. Poi svoltò nella dispensa, passò e ripassò con bel fruscìo nella pozza d'acqua attorno al frigorifero, fece schizzare i tegami dalle mensole di cucina, e concluse la volata puntando a tutta forza contro lo specchio del guardaroba a pianterreno. Quando la ruota anteriore tremò contro il vetro imbrattato, Jim gridò d'eccitazione alla sua immagine riflessa. Un piccolo regalo, la guerra glielo aveva pur portato, alla fine. Chiusa allegramente la porta d'entrata alle sue spalle, Jim lisciò il rotolo giapponese e si avviò verso la casa dei gemelli Raymond nella vicina Columbia Road. Tutte le strade di Shanghai gli parevano ora stanze di una immensa casa. Un plotone di soldati cinesi del governo fantoccio stava discendendo la Columbia Road: quando il sottufficiale lanciò una bordata di urli, lui si defilò con una virata scenosa.

Poi, sempre a gran velocità, si lanciò lungo i marciapiedi, zigzagando fra i pali del telefono e prendendo a calci le scatole di Craven A abbandonate dagli accattoni scomparsi. Quando arrivò alla casa dei Raymond, all'estremità tedesca della Columbia Road, aveva il fiato mozzo. Superate a ruota libera le Opel e le Mercedes parcheggiate, macchine strane, cupe, che davano, secondo lui, fin troppo l'idea di quel che doveva essere l'Europa, si arrestò davanti alla porta d'ingresso. Ai pannelli di quercia era affisso un altro rotolo giapponese. La porta si aprì, e apparvero 2 amah, intente a trascinare giù per gli scalini la tavola da toeletta della signora Raymond.

- C'è Clifford? O Derek? Amah...!

Conosceva bene entrambe le amah, e si aspettava che gli rispondessero in piegin (Lingua franca, mista di cinese e inglese, delle coste della Cina). Ma le amah continuarono, ignorandolo, a spingere e a tirare il mobiletto, scivolando sui gradini con quei loro piedi deformi, simili a pugni stretti.

Sono Jamie, signora Raymond...

Come fece per superare le amah, una delle 2 allungò di scatto il braccio e gli diede un ceffone. Intontito dal colpo, Jim tornò alla bicicletta. Mai era stato colpito così forte, né durante gl'incontri scolastici di pugilato né durante gli scontri con la banda dell'Avenue Foch. Gli pareva di avere il davanti della faccia staccato dalle ossa, e gli pizzicavano gli occhi, ma si trattenne dal piangere. Le amah erano forti, le braccia irrobustite da una vita passata a lavar panni. Osservandole mentre trascinavano il mobiletto, si rese conto di essere stato ripagato per qualcosa che lui o i Raymond avevano fatto loro.

Aspettò che giungessero in fondo ai gradini. Poi, quando una delle 2 si diresse verso di lui col chiaro intento di allungargli un secondo ceffone, montò in bicicletta e s'allontanò. Davanti al viale d'accesso dei Raymond, 2 tedeschi suoi coetanei stavano giocando a palla mentre la loro madre apriva la Opel di famiglia. In circostanze normali, gli avrebbero gridato slogan tedeschi o lanciato sassi finché non fosse intervenuta la madre. Ora, invece, rimasero tutt'e 3 in silenzio. La madre, presi i figli per le spalle, lo guardò preoccupata, come conscia di ciò che non avrebbe tardato ad accadergli. Ancora sconvolto dall'ira che aveva scorto sul viso dell'amah, Jim si diresse all'appartamento dei Maxted nella Concessione francese. Si sentiva la testa gonfia e aveva un dente traballante nella mascella inferiore. Aveva voglia di vedere sua madre e suo padre; aveva voglia che la guerra finisse presto, quel pomeriggio stesso, possibilmente. Coperto di polvere, e improvvisamente stanchissimo, giunse alla barriera di filo spinato dell'Avenue Foch. Le strade erano meno affollate, ma la coda di cinesi ed europei davanti al posto di controllo delle guardie giapponesi era di diverse centinaia di persone. Una Buick di proprietà svizzera e un autocarro a gasolio della Francia di Vichy furono fatti passare attraverso i cancelli. In circostanze normali, gli europei a piedi avrebbero occupato la testa della coda; ora, invece, rispettavano il turno, tenendosi fra i coolies dei risciò e i contadini coi loro carretti a mano. La bicicletta salda in mano, Jim riuscì a stento a non farsi travolgere dal passaggio di un coolie scalzo, dai polpacci piagati, curvo sotto un giogo di bambù carico di fascine. La folla lo stringeva da ogni lato, in un puzzo di sudore e fatica, grasso da 4 soldi e vino di riso, odori di una Shanghai nuova, per lui. Una Chrysler scoperta, con 2 giovani tedeschi sul sedile anteriore, accelerò a clacson pigiato, e il parafango posteriore gli graffiò la mano.

Superato il posto di controllo, Jim raddrizzò la ruota anteriore e si avviò all'appartamento dei Maxted in Avenue Joffre. Confortante memoria della vecchia Shanghai, il giardino formale in stile francese era immacolato come sempre.

Mentre saliva in ascensore al settimo piano, Jim si pulì mani e faccia con le lacrime, dicendosi che, chissà, magari la signora Maxted poteva esser tornata da Singapore. La porta dell'appartamento era aperta. Entrando nell'anticamera, Jim riconobbe il soprabito di pelle, ora sul pavimento, del signor Maxted. Il medesimo tornado che aveva infuriato nella camera da letto di sua madre in Amherst Avenue, aveva soffiato dentro e fuori d'ogni stanza dell'appartamento dei Maxted. Cassetti d'indumenti erano stati gettati sui letti, guardaroba saccheggiati lasciavano scorgere per le ante aperte mucchi di scarpe, e dappertutto c'erano valigie, come se una dozzina di famiglie Maxted non avessero saputo decidere che cosa portar via in 5 minuti di tempo.

- Patrick... - chiamò Jim, riluttante a entrare nella camera dell'amico senza bussare. Il materasso era stato scagliato sul pavimento, e le tende svolazzavano nelle finestre aperte, ma dal soffitto pendeva sempre, dondolando, l'aeromodello di Patrick, un aeromodello costruito con maggior cura del suo. Rimise il materasso sul letto e vi si stese. L'aereo girava nell'aria fredda che circolava nell'appartamento vuoto. Lui e Patrick avevano passato ore a inventare battaglie aeree immaginarie nel cielo di quella camera sopra l'Avenue Joffre. Osservò gli Spitfire e gli Hurricane volare in circolo sopra la sua testa. Il loro movimento lo calmò, attenuando il dolore della mascella, ed egli fu tentato di restare, di dormire tranquillo nella camera da letto dell'amico lontano, sino a guerra finita. Ma già si era reso conto che era tempo di ritrovare i genitori. O, se non loro, un britannico qualsiasi. Sul lato opposto dell'Avenue Joffre, in faccia all'immobile dov'era l'appartamento dei Maxted, stava il quartiere cintato della Shell, le cui case erano quasi tutte occupate da impiegati britannici. Lui e Patrick avevano giocato spesso coi ragazzi di là, tanto da essere membri onorari della Banda Shell. Ma, subito all'uscita dal viale d'accesso dell'immobile dei Maxted, notò che i residenti britannici avevano abbandonato il quartiere. All'entrata del recinto, dietro una barriera quadrata di filo spinato, c'erano ora delle sentinelle giapponesi, e una squadra di coolies cinesi stava caricando su un autocarro militare, sotto la direzione di un sottufficiale giapponese, del mobilio sottratto alle case. A pochi passi dalla barriera di filo spinato, un uomo anziano con un vestito liso, ma in polsini bianchi e camicia inamidata, osservava i giapponesi da sotto i platani.

- Signor Guerevitch! Sono qui, signor Guerevitch!

L'anziano russsobianco era il custode della Shell, e abitava con la vecchia madre in un piccolo bungalow accanto al cancello. Sulla sua porta stava ora un ufficiale giapponese, sigaretta in bocca, intento a pulirsi le unghie. A Jim, il signor Guerevitch era sempre stato simpatico, anche se lui, all'anziano russo, non era mai riuscito a fare la minima impressione. Era una specie di artista dilettante, e, preso nell'umore giusto, sapeva disegnargli elaborati velieri nell'album degli autografi. Il suo armadio grigio, che era una credenza da cucina, era pieno di colletti rigidi con relativi sparati, e a Jim dispiaceva proprio che non si potesse permettere una vera camicia. Chissà che non accettasse di venire ad abitare con lui in Amherst Avenue... Il signor Guerevitch gli segnalò, col giornale, di avvicinarsi, e Jim si disse che no, era meglio non pensarci. A sua madre il vecchio russo poteva anche piacere, ma a Vera di sicuro no, perché est-europei e russi bianchi erano anche più snob dei britannici.

- Salve, signor Guerevitch. Sto cercando mia madre e mio padre.

- E come potrebbero essere qui? - Poi, indicando col dito la sua faccia contusa, continuò, scuotendo il capo: - Il mondo intero è in guerra, e tu continui ad andare in giro con la tua bici...

Il sottufficiale giapponese cominciò a sgridare 1 dei coolies, e poi il signor Guerevitch ne approfittò per tirarlo sotto un platano. Aperto il giornale, gli mostrò 1 stravagante schizzo artistico di 2 immense corazzate che stavano affondando sotto una grandine di bombe giapponesi. Dalle foto accanto ai disegni, Jim riconobbe la Repulse e la Prince of Wales, le inaffondabili fortezze di cui i cinegiornali britannici avevano sempre proclamato che bastavano da sole, e separatamente, per fare colare a picco la marina giapponese.

- Non si può dire un buon esempio, - rifletté il signor Guerevitch, - la Linea Maginot dell'impero britannico. Capisco che tu abbia la faccia rossa...

- Sono caduto dalla bicicletta, signor Guerevitch - spiegò patriotticamente Jim, dispiaciuto di dover mentire per difendere la marina britannica. - Mi sto dando da fare per trovare i miei genitori, ed è un lavoro mica da ridere, sa.

- Lo vedo. - Il signor Guerevitch osservò un convoglio di autocarri passare in velocità. Guardie giapponesi con le baionette innestate sedevano accanto alle ribalte. Dietro di esse, le teste degli uni recline sulle spalle delle altre, gruppi di donne britanniche coi figlioletti stavano accovacciate sulle loro povere valigie e i loro letti arrotolati color cachi. Jim immaginò che si trattasse delle famiglie di soldati britannici prigionieri.

- Su, giovanotto, monta in bicicletta e segui quei camion! - disse il signor Guerevitch spingendolo avanti.

- Ma signor Guerevitch... - obiettò Jim, turbato dal misero bagaglio non meno che dalle strane mogli dei soldati semplici britannici. - Non posso andare con loro: sono prigioniere!

- Va', invece, forza! Non puoi vivere in strada!

Jim rimase fermo con le mani sul manubrio, e il signor Guerevitch, dopo una carezza solenne sul capo, riattraversò la strada e riprese la sua vigilanza da dietro il giornale, osservando i giapponesi saccheggiare le case del quartiere recintato come se stesse preparando un resoconto particolareggiato del suo perduto mondo per la Shell.

- Tornerò a vederla, signor Guerevitch! - Jim si sentiva dispiaciuto per il vecchio custode, ma, durante il viaggio di ritorno in Amherst Avenue, pensò soprattutto, con dolore, alle 2 corazzate. I cinegiornali britannici erano un tessuto di menzogne. Lui aveva visto la marina giapponese affondare la Petrel, ed era chiaro come il sole che essa poteva affondare qualsiasi cosa. Metà della flotta americana del Pacifico giaceva sul fondo, a Pearl Harbor! Forse il signor Guerevitch aveva ragione, e lui avrebbe dovuto seguire i camion. I suoi genitori erano magari già arrivati alla prigione a cui li stavano portando... Così, sebbene riluttante, decise di consegnarsi ai giapponesi. I soldati di guardia al posto di controllo dell'Avenue Foch gli fecero segno di proseguire quando tentò di parlar loro, ma lui continuò a cercare cogli occhi 1 dei caporali al comando del traffico. Per qualche motivo, però, quel giorno Shanghai sembrava essere a corto di caporali. Così, malgrado fosse stanco, Jim allungò la strada del rientro prendendo per la Great Western e la Columbia Road, ma, di giapponesi, non incontrò manco l'ombra. Quando però giunse all'ingresso della sua casa in Amherst Avenue, vide una berlina Chrysler davanti alla porta. Dall'auto scesero 2 ufficiali giapponesi, che presero a scrutare la casa rassettandosi l'uniforme.

Jim stava per dirigersi verso di loro, per spiegare di essere 1 degli abitanti della casa e per consegnarsi, quando da dietro il pilastro di pietra sbucò un soldato giapponese armato, che, agguantata la ruota anteriore della bicicletta con la sinistra, le dita fra i raggi, lo scaraventò con la destra, urlando, nella polvere della strada.