Il cinema all'aperto

 

Le braccia scaldate dal sole primaverile, Jim riposava confortevolmente nella prima fila del cinema all'aperto. Sorridendo fra sé, osservava lo schermo bianco a pochi passi di distanza. Nell'ora precedente vi aveva visto muovere l'ombra confusa del Park Hotel, e adesso, finalmente, dopo una lunga sfilata di depositi e casamenti di Chapei, aveva il piacere di ammirare l'ombra dell'insegna al neon sovrastante l'albergo. Le immense lettere, ciascuna alta il doppio del giovane soldato giapponese di guardia sul palcoscenico, si mossero alquanto rapidamente da sinistra a destra, incorporando il profilo della minuscola sentinella e del suo fucile in 1 spettacoloso film solare. Divertito dalla scena, Jim rideva da dietro le ginocchia sudice, i piedi sulla panchina assicellata di tek. Il panorama pomeridiano offerto in collaborazione dal sole e dal Park Hotel era il suo divertimento principale da 3 settimane, ossia da quando stava nel cinema all'aperto, ora divenuto centro di detenzione. In quel cinema, prima dello scoppio della guerra, cartoni animati e film d'avventure a episodi, prodotti dall'industria cinematografica di Shanghai, avevano intrattenuto, la sera, un pubblico di operaie e di portuali cinesi. Magari, Su quello stesso schermo era apparso anche Yang, l'autista della sua famiglia, aveva sovente pensato. Nella sua scrupolosa esplorazione dei luoghi, aveva trovato, nella polvere di un Ufficio disusato sopra la cabina di proiezione, un certo numero di bobine di pellicola. Chissà dunque che l'incaricato dello smantellamento del proiettore, un caporale giapponese del genio segnalatori, non proiettasse un film di Yang...

I suoi risolini gli attirarono un'occhiataccia dal soldato in palcoscenico.

Chiaramente diffidava di lui, e lui gli stava alla larga. La mano a schermo sugli occhi, il soldato scrutava le panche di legno, sulle quali sedevano, al sole pomeridiano, alcuni detenuti. 3 file più indietro c'era un uomo dai capelli grigi: il marito d'una missionaria che giaceva moribonda sulla sua stuoia nel dormitorio di cemento sotto la platea. La missionaria non si muoveva dall'ex-ripostiglio dal giorno del suo arrivo, ma il signor Partridge la curava pazientemente, portandole acqua dal rubinetto della latrina e nutrendola con la magra pappa di riso che 2 eurasiatiche cucinavano, una volta al giorno, nel cortile posteriore della biglietteria. Il vecchio inglese dai capelli radi e dalla pelle di moribondo gli stava a cuore. A volte sembrava incapace di riconoscere la moglie. Un giorno lo aiutò a erigere 1 schermo attorno a lei, che non parlava mai e aveva un odore sgradevole. Usarono il soprabito inglese di lui e la camicia da notte gialla di lei, che appesero a un cordoncino di filo elettrico staccato dalla parete. E quando il signor Partridge era annoiato, lui scendeva nel ripostiglio delle donne a scacciare i bambini eurasiatici che vi venivano a giocare. Nel centro di detenzione, al quale era stato inviato dopo una settimana trascorsa nella prigione centrale di Shanghai, c'erano una trentina di persone. A paragone dell'umida cella-dormitorio che aveva condiviso con un centinaio di prigionieri eurasiatici e britannici, il cinema all'aperto sembrava una spiaggia solatia come quelle di Tsingtao. Basie, non l'aveva più visto dalla notte della cattura, ed era contento di essersene liberato. In quanto ai suoi genitori, nessuno dei prigionieri della prigione centrale, che erano, in maggioranza, capisquadra a contratto e marinai mercantili del naviglio costiero della Cina, ne aveva mai udito parlare; ma il trasferimento dalla prigione al cinema all'aperto era pur sempre un passo in più nella loro direzione. Poco dopo la cattura, Jim era caduto preda di una febbre accompagnata da dolori, durante la quale aveva vomitato sangue. Probabilmente, dunque, era stato trasferito al centro di detenzione affinché si ristabilisse. Oltre a diverse anziane coppie inglesi, il centro ospitava un vecchio olandese con la figlia adulta e una belga silenziosa il cui marito ferito dormiva accanto a lui nella sezione maschile del ripostiglio. Per il resto, non c'erano che delle eurasiatiche, mogli abbandonate a Shanghai da mariti britannici membri delle forze armate. Nessuna di queste persone era divertente da starci insieme: erano tutte molto vecchie o malate di malaria e dissenteria, e, dei bambini eurasiatici, solo pochi parlavano qualche parola d'inglese. Perciò, lui trascorreva il suo tempo nel cinema all'aperto, ad aggirarsi tra i sedili di legno. Né i suoi mali di testa gl'impedivano di tentare, seppure senza esito, di fare amicizia coi soldati giapponesi. E, ogni pomeriggio, c'era il film-ombra della sagoma di Shanghai... Osservò le lettere dell'insegna al neon del Park Hotel confondersi e svanire. Sebbene patisse la fame, era contento di essere al centro di detenzione. Dopo mesi di vagabondaggio per le strade di Shanghai, era finalmente riuscito a consegnarsi alle forze giapponesi. La questione della resa, atto che richiedeva coraggio e anche una certa dose d'astuzia, l'aveva indotto a riflettere profondamente. Come facevano a risolverla eserciti interi?

In quanto a lui, era consapevole di essere stato preso dai giapponesi solo perché stava con Basie e Frank. Il ricordo dei soldati in chimono che assalivano Frank coi loro bastoni gli faceva tornare la paura, ma si consolava al pensiero che, se non altro, presto avrebbe rivisto i genitori. Al centro di detenzione era un andirivieni costante di prigionieri. Il giorno precedente erano morti 2 britannici: una donna tutta coperta di bende che non gli era stato permesso di vedere, e un vecchio malato di malaria che era un ispettore a riposo della polizia di Shanghai. Oh, se solo avesse potuto scoprire in quale della dozzina di campi attorno a Shanghai erano stati mandati sua madre e suo padre! Lasciò il suo posto per andare a parlare col signor Partridge, ma il vecchio missionario era tutto immerso in se stesso. Allora si avvicinò alle 2 eurasiatiche sedute qualche fila più indietro, ma, come al solito, esse scossero la testa e gli fecero bruscamente cenno di allontanarsi. -Disgustoso...! Sudicia creatura...!

Via, via...! - questo gli gridavano invariabilmente, sforzandosi di tenergli lontani i bambini. A volte, poi, scimmiottavano i versi che egli faceva durante gli attacchi di febbre. Lui sorrise, e tornò al suo posto. Si sentiva stanco, come spesso gli accadeva, e pensò di scendere al ripostiglio per un'ora di sonno sulla stuoia. Ma, il pomeriggio, davano un pasto di riso bollito, e il giorno precedente aveva perso la sua razione per via della febbre. Che strano che tutta quella gente vecchia e malata riuscisse ad alzarsi all'ora del pasto... Lui, però, non l'aveva svegliato nessuno, e così non gli era rimasto più nulla nel cono d'ottone. Alle sue proteste, il soldato coreano aveva risposto con 1 scappellotto. Chiaramente, poi, le eurasiatiche incaricate della custodia dei sacchi di riso nella biglietteria gli davano meno della sua spettanza. E lui diffidava di loro e dei loro strani bambini, che sembravano quasi inglesi ma sapevano parlare solo cinese. La sua parte di riso, però, era deciso ad ottenerla, anche perché si rendeva conto che, così magro, i suoi genitori avrebbero magari stentato a riconoscerlo. All'ora del pasto, quando si guardava nei vetri incrinati della biglietteria, faticava lui stesso a riconoscere quella faccia lunga dalle occhiaie incavate e dalla fronte ossuta. Gli specchi, li evitava, le eurasiatiche non smettevano di osservarlo attraverso i loro portacipria. Decise di pensare a qualcosa di utile, e si stese sulla panchina di tek. Osservò un idrovolante Kawanishi attraversare il fiume. Il ronzio dei motori era confortante, e gli riportò alla mente tutti i suoi sogni aviatorii.

Quando aveva fame o nostalgia dei genitori, sognava spesso di aerei: durante un attacco di febbre, anzi, aveva addirittura visto 1 stormo di bombardieri americani passare in cielo sopra il centro di detenzione. Dal cortile presso la biglietteria giunse il trillo di un fischietto: il sergente giapponese al comando del centro ordinava una delle sue adunate. Che strano, quel sergente: sembrava incapace di ricordare i nomi dei prigionieri per più di mezz'ora. Preso per mano il signor Partridge, seguì con lui le 2 eurasiatiche. Davanti all'entrata del cinema, le cui alte pareti di mattoni avevano nascosto le proiezioni alla vista degl'inquilini cinesi dei casamenti vicini, era venuto a fermarsi un autocarro militare. Negl'intervalli fra un trillo di fischietto e l'altro, si udiva il pianto di un bambino britannico. Era arrivato un nuovo scaglione di prigionieri. Questi arrivi significavano invariabilmente la partenza di altri prigionieri, e Jim si senti certo di dover partire entro pochi minuti, probabilmente per i nuovi campi di Hungjao e Lunghua. Nel ripostiglio, lui e i vecchi in grado di reggersi in piedi rimasero in attesa accanto alle rispettive stuoie, gavette in mano. Da fuori giungeva il rumore dello scarico dei nuovi arrivati. Che seccatura che, fra questi, ci fossero tanti bambini piccoli! Col loro incessante frignare avrebbero distratto i giapponesi dall'importante compito di decidere la sua destinazione...

Sulla porta si stagliò, seguito da 2 soldati armati, il sergente giapponese.

Portavano tutt'e 3 delle maschere di cotone sul viso, il giovane belga addormentato sul pavimento esalava un gran puzzo, ma gli occhi del sergente ispezionarono 1 dopo l'altro tutti i presenti, controllando che le gavette corrispondessero al numero. La razione quotidiana di riso o patate dolci era data in base alle gavette, non alle persone; così, spesso, quando il signor Partridge era troppo stanco dopo aver imboccato la moglie, Jim andava a ritirare la sua razione per lui. Una volta, senza rendersene conto, s'era sorpreso a mangiare la farinata acquosa che gli stava portando, ed era rimasto con un senso di disagio, a fissarsi le sue mani colpevoli. Gli capitava spesso, ora, che parti della sua mente e del suo corpo si separassero... Mascherando il tic alla guancia, fece un gran sorriso al sergente, sforzandosi di apparire forte e sano, solo i più sani, infatti, tendevano a lasciare il centro di detenzione, ma quello, come al solito, sembrò trovare deprimente la sua aria gaia. Il sergente si scostò per lasciar passare i nuovi arrivati. 2 inservienti cinesi entrarono con una barella su cui stava una inglese priva di sensi, vestita di un abito macchiato di cotone e coi capelli madidi in bocca. Ai lati della barella, la mano sui bordi, c'erano i suoi 2 figli, ragazzi dell'età di Jim. Entrò quindi un terzetto di donne anziane, che avanzarono goffamente, imbarazzate dal puzzo e dalla poca luce. Dopo di loro, un militare alto, in scarponi bozzoluti e calzoni corti dell'esercito britannico, a torso nudo, emaciato. Le sue costole somigliavano a una gabbia da uccelli, dentro la quale a Jim pareva quasi di veder palpitare il cuore.

- Bravo, ragazzo... - gli disse con un rictus di sorriso, accarezzandogli la testa.

Poi si sedette di scatto contro la parete, il viso cadaverico girato verso il cemento umido. Una seconda squadra di inservienti gli posò accanto una barella, sollevando dal fondo di paglia intrecciata un ometto di mezz'età vestito di una giacca da marinaio sporca di sangue. Strisce di bende giapponesi di carta di riso erano appiccicate alle ferite che gli si vedevano sulle mani rigonfie, sul viso e sulla fronte. Jim fissò la derelitta figura, e alzò l'avambraccio alla bocca per proteggersi dal cattivo odore. Diverse eurasiatiche stavano lasciando il centro insieme coi loro bambini. Guardandosi intorno, e riflettendo sui malati e i moribondi del ripostiglio, e sugl'inservienti e i soldati giapponesi con le maschere di cotone sul viso, Jim sì rese conto per la prima volta della vera funzione del luogo. Il signor Partridge e i vecchi, in piedi accanto alle stuoie, agitarono le gavette in direzione delle guardie, battendole in segno di richiesta del pasto serale. Il marinaio ferito fece un cenno a Jim con le mani bendate, e prese a battere la sua gavetta vuota allo stesso ritmo del mendicante morente davanti al cancello di Amherst Avenue. Anche il soldato emaciato aveva trovato il coperchio di una gavetta: volto premuto contro il muro, lo sbatteva ora con violenza contro il pavimento di pietra. Jim cominciò a far risuonare la propria in direzione dei giapponesi che osservavano da dietro le maschere bianche. Nel momento in cui stava per disperare di poter ritrovare mai i genitori, sentì un émpito di speranza. Inginocchiandosi sul pavimento per prendere la gavetta del marinaio ferito, avvertì un vago profumo di colonia, e seppe che ora avrebbe potuto, insieme con lui, lasciare il centro di detenzione per la sicurezza dei campi di prigionia.

- Basie! - gridò. - Va tutto bene!