Il cubicolo
- Ehi, giovane Jim...!
Un uomo seminudo, in zoccoli e calzoni corti a brandelli, lo chiamava a gran voce dai gradini del Blocco G. In mano teneva le stanghe di una cariola di legno dalle ruote di ferro, la quale, sebbene fosse vuota, sembrava svitargli le braccia dalle attaccature. Quando parlò, gesticolando, alle inglesi sedute sui gradini di cemento nelle loro sbiadite vesti di cotone, le scapole parvero staccarglisi dalla schiena, come pronte a involarsi oltre il filo spinato.
- Eccomi, signor Maxted! - Spinto da parte Richard Pearce, Jim si lanciò lungo il sentiero verso il blocco-dormitorio. Vista vuota la cariola del cibo, pensò di aver probabilmente perso la razione della giornata. La paura di dover restare senza cibo anche per un solo giorno fu così intensa, che si sentì pronto ad aggredire il signor Maxted.
- Su, entra, Jim. Senza di te, non avrebbe lo stesso sapore.
E, dato 1 sguardo alle scarpe da golf, quelle scarpe chiodate che avevano una vita propria e che spingevano in giri incessanti del campo quella figura da spaventapasseri, il signor Maxted disse alle donne: - Il nostro Jim passa tutto il suo tempo alla diciannovesima buca.
- Ho promesso, signor Maxted. Sono sempre pronto... - Dovette fermarsi, quando fu all'ingresso del Blocco G. Esercitati i polmoni finché non gli furono passate le vertigini, riprese la corsa. Tartaruga in mano, salì rapido i gradini fino all'atrio e schizzò fra 2 vecchi che, come fantasmi, stavano arenati nel mezzo d'una conversazione ormai dimenticata. I 2 lati del corridoio erano occupati da una serie di stanzette munite ciascuna di 4 letti di legno. Dopo il primo inverno d'internamento, che aveva visto la morte di molti bambini delle baracche non isolate, le famiglie con prole erano state trasferite nelle sale di soggiorno dell'ex college magistrale, le quali, sebbene prive di riscaldamento, conservavano una temperatura al di sopra dello 0 grazie alle pareti di cemento.
Jim divideva la sua stanza con una giovane coppia inglese, il signore e la signora Vincent, e col figlio seienne di essa. Ora, sebbene vivesse da 2 anni e mezzo a pochi centimetri dai Vincent, la sua e la loro esistenza non avrebbero potuto essere più separate. Il giorno del suo arrivo, la signora Vincent aveva appeso un vecchio copriletto attorno al quarto di stanza a lui destinato. Lei e il marito (un agente di cambio della Borsa di Shanghai) non avevano cessato di risentirsi della sua presenza, e, nel corso degli anni, avevano a tal punto rinforzato il suo cubicolo, combinando insieme 1 scialle consunto, una sottana e il coperchio d'1 scatolone, da farlo sembrare una di quelle minuscole baracche che parevano autoerigersi attorno ai mendicanti di Shanghai. Non paghi di aver murato Jim nel suo piccolo mondo, i Vincent avevano ripetutamente cercato di sconfinarvi, spostando i chiodi e la corda da cui pendeva il copriletto. Jim s'era difeso: prima, piegando i chiodi sino a far crollare, una notte, l'intera struttura, con orrore dei Vincent, che si stavano spogliando; poi, calibrando la parete con riga e matita, ciò a cui i Vincent avevano immediatamente risposto con la sovrapposizione al suo di un proprio sistema di segni. A tutto ciò, Jim s'era adattato facilmente. Per qualche ragione, la signora Vincent, una bionda avvenente anche se sciupata, seguitava a piacergli: e, questo, malgrado essa fosse perennemente nervosa e non avesse mai fatto il minimo tentativo di occuparsi di lui, e nonostante egli fosse convinto che essa avrebbe senz'altro trovato il garbo di non muovere un dito, se lui si fosse trovato a morire di fame nel suo cubicolo. Durante il suo primo anno a Lunghua, i pochi bambini senza genitori che avessero ricevuto attenzioni erano stati quelli che si erano piegati a far da servi. E Jim, unico a rifiutarsi, non aveva mai prestato servigi al signor Vincent. Quando irruppe nella stanza, la signora Vincent stava seduta sul suo materasso di paglia, le pallide mani raccolte in grembo come un paio di guanti dimenticati, gli occhi fissi alla bianca parete sopra la cuccetta del figlio come stesse guardando un invisibile film su 1 schermo. Eh sì, la signora Vincent passava troppo tempo a guardare quel genere di film... Spiandola attraverso le fessure del suo cubicolo, Jim si sforzò di immaginare ciò che lei stava vedendo: un film casalingo, magari, di lei in Inghilterra prima del matrimonio, seduta in 1 di quei prati rasi e solatii dei quali sembrava ammantato l'intero paese... Quei prati rasi, insomma, che, da come la vedeva lui, dovevano aver servito da campi d'aviazione d'emergenza per la Battaglia d'Inghilterra. A quanto aveva osservato a Shanghai, i tedeschi non avevano la passione dei prati rasi esposti al sole. Era forse per questo che avevano perso la Battaglia d'Inghilterra? Molte sue idee erano così disperatamente confuse, che nemmeno il dottor Ransome aveva più la forza di districarle...
- Sei in ritardo, Jim - disse la signora Vincent in tono di rimprovero, lo sguardo fisso sulle sue scarpe da golf. Come tutti, anch'essa trovava intimidatoria la loro presenza, e Jim aveva cominciato a rendersi conto di godere, grazie a loro, di una speciale autorità. - Ti sei fatto aspettare da tutto il Blocco G.
- Sono stato con Basie, ad ascoltare le ultime notizie sulla guerra. Che cos'è la diciannovesima buca, signora Vincent?
- Non dovresti lavorare per Basie. Le cose che quegli americani ti chiedono di fare... Prima veniamo noi, te l'ho già detto.
- Prima viene il Blocco G, signora Vincent - ribatté, convinto, Jim, sollevando lo straccio e infilandosi nella sua cuccetta. Poi, trattenendo il respiro, si distese, la tartaruga sotto la camicia. Il rettile preferiva la compagnia di se stesso, così egli rivolse la propria attenzione alle scarpe nuove. Con quelle punte lisce e quelle borchie brillanti, esse erano per lui un relitto integro del mondo prebellico, ed egli poteva stare a fissarle per ore, come la signora Vincent i suoi film. Ridendo fra sé, si allungò all'indietro, mentre la calda luce del sole, filtrando per la parete del cubicolo, delineava le strane macchie del vecchio copriletto. Guardandole, visualizzò scene di battaglia aeree e di flotte navali, l'affondamento della Petrel e anche il giardino di Amherst Avenue. -Ora del rancio, Jim... - gridò una voce dai gradini sotto la finestra, ma lui non si mosse. Era una bella tirata, fino alle cucine, e non valeva la pena di arrivare in anticipo. I giapponesi avevano festeggiato il Giorno della vittoria in Europa a modo loro: dimezzando, cioè, le già magre razioni. I primi arrivati, così, ricevevano spesso meno dei ritardatari, perché i cuochi volevano prima calcolare quanti fossero i prigionieri morti e quanti quelli non in grado di venire a prendersi le razioni perché troppo malati. Inoltre, lui non era obbligato ad aiutare alla carriola per il cibo, né lo era, volendo, il signor Máxted. Come aveva avuto modo di notare, i disposti ad aiutare i compagni di prigionia tendevano a farlo, ma ciò non distoglieva dal lamentarsi in continuazione i troppo pigri per lavorare. I britannici erano maestri nel lamentarsi: olandesi e americani, invece, non si lamentavano mai. Presto, rifletté, con una punta di feroce soddisfazione, sarebbero stati troppo malati anche per lamentarsi... Fissando le scarpe, imitò consapevolmente il sorriso fanciullesco del soldato Kimura. La cuccetta di legno riempiva il cubicolo, ma in quell'universo in miniatura Jim viveva i suoi momenti più felici. Alle pareti aveva fissato diverse pagine di una vecchia Life regalatagli da Basie: foto di piloti della Battaglia d'Inghilterra seduti in poltrona accanto ai loro Spitfire, di un relitto schiantato di bombardiere Heinkel, della cattedrale di San Paolo galleggiante come una corazzata in un mare di fuoco. Accanto, un annuncio a colori a tutta pagina di una Packard: bella, ai suoi occhi, come i caccia Mustang che venivano a mitragliare il campo d'aviazione di Lunghua. Gli americani tiravano fuori un nuovo modello di Mustang all'anno, o al mese? Forse ci sarebbe stata un'incursione aerea, quel pomeriggio, e così avrebbe potuto verificare le ultime modifiche tecniche apportate ai Mustang e alle Superfortezze. Sì, le incursioni aeree erano la sua passione. Accanto alla Packard c'era il ritaglio di una foto più grande che aveva ritratto una folla davanti ai cancelli di palazzo Buckingham nel '40. L'immagine sfocata di un uomo e una donna a braccetto gli ricordava i genitori. Quella sconosciuta coppia inglese, magari già morta sotto un'incursione, era quasi diventata l'immagine di sua madre e suo padre. Oh, lui lo sapeva che si trattava di estranei, però amava fingere il contrario, in modo da tener viva la perduta memoria dei genitori. Il mondo di prima della guerra, la sua infanzia in Amherst Avenue, la sua classe alla Scuola della cattedrale, facevano parte di quell'invisibile film che la signora Vincent guardava dal suo letto. Lasciò che la tartaruga strisciasse sul materasso di paglia. Se la portava con sé, c'era caso che il soldato Kimura o una delle guardie si rendessero conto della sua uscita dal campo. Ora che la guerra stava finendo, le guardie giapponesi erano convinte che i prigionieri britannici e americani non pensassero ad altro che a tentativi di evasione: ciò a cui, invece, essi non pensavano manco lontanamente. Nel '43, in effetti, qualche britannico era scappato, nella speranza di venir nascosto a Shanghai da amici di nazionalità neutrale, ma era stato ben presto snidato dall'esercito degl'informatori. Nell'estate del '44, diversi gruppi di americani avevano puntato su Chungking, la capitale cino-nazionalista 900 miglia a ovest di Shanghai, ma tutti, traditi dai contadini cinesi per timore di rappresaglie, erano stati consegnati ai giapponesi e giustiziati. Da allora, i tentativi d'evasione erano cessati completamente. Nel giugno del '45, la zona attorno a Lunghua si era fatta tanto ostile, fra banditi, contadini affamati e disertori delle armate-fantoccio, che l'unica sicurezza era diventata proprio quella offerta dal campo e dalle sue guardie giapponesi. Jim solleticò col dito l'antica testa della tartaruga. Era un peccato farla finire in padella: che bello, quel carapace massiccio, fortezza privata contro il mondo... Tirò fuori da sotto il letto una cassetta di legno che aveva fabbricato con l'aiuto del dottor Ransome. Dentro c'erano tutti i suoi beni: una mostrina giapponese da berretto, regalatagli dal soldato Kimura; 3 trottole da combattimento con borchie in acciaio; un gioco di scacchi e un Latin Primere del Kennedy, in prestito a tempo indeterminato dal dottor Ransome; la giacca della Scuola della cattedrale, memoria accuratamente ripiegata del suo più giovane io; e il paio di zoccoli che aveva portato negli ultimi 3 anni. Mise la tartaruga nella cassetta e la coprì con la giacca. Quando sollevò lo straccio del cubicolo, la signora Vincent osservò ogni sua mossa. Lei lo trattava come il suo coolie Numero 2, e Jim era perfettamente consapevole di tollerare un simile trattamento per motivi che stentava a comprendere. Come tutti gli uomini e i ragazzi più grandi del Blocco G, egli si sentiva attratto da lei, ma per ragioni fondamentalmente diverse. Quelle sue lunghe ore davanti alla parete bianca, il suo distacco anche dal figlio ammalato di dissenteria, che lei nutriva e cambiava, ma, a volte, con lo sguardo assente per minuti e minuti, gliela facevano vedere come un essere perennemente librato sopra il campo, al di là del mondo di guardie, di fame e di attacchi aerei americani al quale egli era appassionatamente legato. Aveva voglia di toccarla, ma più per semplice curiosità che per desiderio d'adolescente.
- Se vuol riposare, può usare il mio letto signora Vincent.
Lei gli scostò bruscamente la mano che stava per sfiorarle la spalla. I suoi occhi assenti erano capaci, a volte, di un'acutezza di fuoco notevolissima.
- Il signor Maxted sta sempre aspettando, Jim. Forse è tempo che tu torni alle baracche...
- Alle baracche no, signora Vincent - finse di gemere lui.
Alle baracche no, si ripeté fieramente mentre usciva dalla stanza. Le baracche erano fredde, e, se la guerra durava oltre l'inverno del '45, chissà quante persone ci sarebbero morte di gelo. Comunque, per la signora Vincent, poteva magari tornarci anche, alle baracche...