L'aerodromo abbandonato
Cercando una risposta a tale quesito, Jim scese dalla terrazza e attraversò di corsa il prato pilotando l'aereo sopra le teste delle sarchiatrici. Queste lo ignorarono, seguitando a manovrare i coltelli da erbacce. Jim provava sempre un lieve brivido d'orrore quando passava loro troppo vicino: immaginava infatti la fine che gli sarebbe toccata, se fosse svenuto tra quei coltelli in movimento.
All'angolo sud-occidentale della proprietà si ergeva l'antenna-radio del dottor Lockwood. Una parte di steccato era stata spostata dai tiranti, e Jim s'infilò nel varco per passare in un campo incolto. Dalla canna da zucchero che cresceva selvatica al suo centro si levava un tumulo funerario, e dalla terra smossa spuntavano, come cassetti di un coma, delle bare marce. Jim si avviò per il campo. Giunto al tumulo, si fermò per guardare nelle bare scoperchiate. Gli scheletri ingialliti giacevano nel fango prodotto dalla pioggia, sì che pareva che i poveri contadini fossero stati deposti su giacigli di seta. Una volta di più, Jim fu colpito dal contrasto fra i cadaveri impersonali dei morti di recente, quali vedeva ogni giorno a Shanghai, e quegli scheletri scaldati dal sole, ciascuno con la sua caratteristica individuale. A interessarlo erano i teschi, con quelle loro orbite malevole e quei loro strani denti. Per molti aspetti, quegli scheletri erano più vivi dei contadini che ne avevano per breve tempo avuto in affitto le ossa. Jim si toccò le guance e la mascella, sforzandosi di immaginare il proprio scheletro al sole, steso in quel tranquillo campo poco distante dall'aerodromo abbandonato. Lasciato il tumulo e la sua famiglia d'ossa, puntò, attraverso il campo, in direzione di una fila di pioppi nani. Una scaletta di legno lo condusse in una risaia asciutta sopraelevata.
Nell'ombra, sotto la barriera di protezione, giaceva la carogna disseccata di un bufalo indiano: unica presenza, nel paesaggio vuoto, come se tutti i cinesi del bacino dello Yangtze avessero abbandonato la campagna per il rifugio di Shanghai. Tenendo l'aereo di balsa alto sopra la testa, Jim corse lungo la risaia verso un edificio di ferro che si ergeva al margine di un terreno più elevato un centinaio di iarde a ovest. I resti di una strada di cemento, coperta di ortiche e canna da zucchero, passavano attraverso un edificio d'ingresso e si perdevano in un mare aperto di erba inselvatichita. Era l'aerodromo di Hungjao, un luogo magico per Jim, dall'atmosfera intrisa di sogni ed eccitanti sorprese.
Di questo aeroporto militare, dal quale i caccia cinesi erano decollati all'attacco delle colonne giapponesi di fanteria in avanzata su Shanghai nel '37, restava l'aviorimessa zincata e poc'altro. Jim entrò nell'erba che gli arrivava alla vita. come nell'acqua del mare di Tsingtao, sotto la superficie calda c'era un mondo freddo, toccato da correnti misteriose. Il vivace vento decembrino schiaffeggiava l'erba, e Jim si sentiva cinto di correnti simili ai flussi d'elica di aerei invisibili. Drizzando l'orecchio, poteva quasi udire il ronzìo dei motori in movimento. Lanciò il modellino di balsa nel vento, e lo riprese quando gli tornò in mano. Di quel suo aliante, si era già stancato. Nel punto in cui stava giocando, i piloti cinesi e giapponesi avevano sostato in tuta di volo, prima di decollare all'attacco, per sistemarsi gli occhiali di protezione. Avanzò nell'erba ancora più alta, che gli arrivava alle spalle. Le migliaia di fili d'erba gli sfioravano frementi i pantaloni di velluto e la camicia di seta, come se si sforzassero di identificare l'aviatore in miniatura che li attraversava. Un fosso poco profondo costituiva il margine meridionale del campo d'aviazione. Nel folto delle ortiche giaceva la fusoliera di un caccia giapponese monomotore, forse abbattuto in fase d'atterraggio sulla pista erbosa.
Ali, elica e coda erano state asportate, ma restava, intatta, la carlinga, il metallo arrugginito del sedile e del cruscotto slavato dalla pioggia. Attraverso gli sportelli aperti del radiatore Jim poteva vedere i cilindri del motore che aveva spinto per il cielo l'aereo e il suo pilota. Il metallo, una volta brunito, era ormai ruvido come pomice bruna, come gli scafi rugginosi degli U-Boot arenati sulla spiaggia della baia sottostante i forti tedeschi di Tsingtao. A dispetto della sua ruggine, quel caccia giapponese seguitava però ad appartenere al cielo. E lui, Jim, da mesi pensava al modo di persuadere suo padre a portarlo in Amherst Avenue, dove, la notte, avrebbe potuto giacere accanto al suo letto, e venire illuminato dai cinegiornali che gli giravano in testa. Posato il modello di balsa sulla cappottatura, Jim scavalcò il parabrezza per calarsi nel sedile di metallo. Senza il paracadute che fungeva da cuscino per il pilota, egli sedeva in pratica sul pavimento della carlinga, in una caverna di metallo arrugginito. Lasciò correre lo sguardo sui quadranti di strumentazione coi loro ideogrammi giapponesi, sui comandi d'assetto, sulla leva del carrello. Sotto il pannello di strumentazione poteva vedere le culatte delle mitragliatrici montate nella cappottatura del parabrezza, e l'interruttore di sincronizzazione inserito nell'albero portaelica. La carlinga era pervasa da una potente atmosfera. Quella era l'unica nostalgia che lui avesse mai provato: la memoria intatta del pilota che un giorno era stato seduto a quei comandi.
Dov'era, ora? Jim finse di azionare i comandi, come se il suo atto potesse, per simpatia, evocare lo spirito del morto aviatore. Sul basso di un quadrante annebbiato c'era, affisso al cruscotto, un nastro metallico con una serie di caratteri giapponesi: una lista delle pressioni o dei passi di riferimento. Jim lo staccò dai chiodi da ribaditura, che ormai non tenevano più, e lo infilò nella tasca dei pantaloni di velluto. Poi si sollevò dalla carlinga e montò sulla cappottatura del motore. Le confuse emozioni che il relitto invariabilmente gli provocava, gli fecero tremare le braccia e le spalle, ed egli diede libero sfogo all'eccitazione lanciando in aria il suo aliante modello. Afferrato dal vento, questo virò in picchiata e, volando a velocità vertiginosa sopra il perimetro del campo, derapò lungo il tetto di una vecchia casamatta di cemento e cadde nell'erba poco oltre. Colpito dalla velocità dell'aliante, Jim balzò dalla cappottatura e si lanciò di corsa verso la casamatta, a braccia allargate, mitragliando gl'insetti in volo.
- Ta-ta-ta-ta-ta... Vera-Vera-Vera...! Oltre le erbacce del fossato perimetrale dell'aeroporto si stendeva un vecchio campo di battaglia del '37, nel quale le armate cinesi avevano compiuto 1 dei tanti vani tentativi di arrestare l'avanzata giapponese su Shanghai. Trincee rovinate formavano dei zigzag; un terrapieno smottato collegava un gruppo di tumuli sepolcrali eretti sull'alzaia di un canale disusato. Jim ricordava di avere visitato Hungjao coi genitori nel '37, pochi giorni dopo la battaglia. Gruppi di europei e di americani erano venuti da Shanghai, e avevano parcheggiato le loro berline in strade campestri coperte di bossoli. Le signore in abiti di seta, i loro mariti in vestito grigio, avevano passeggiato attraverso i detriti di una guerra che una squadra volante di demolitori aveva sistemati per loro. A Jim il campo di battaglia era sembrato più una pericolosa discarica: casse di munizioni e granate a bastone disseminate sui bordi della strada, fucili abbandonati raccolti a mucchio come legna da ardere, pezzi d'artiglieria ancora attaccati a carcasse di cavalli. I nastri di mitragliatrice rimasti fra l'erba assomigliavano a pelli di serpenti velenosi. Tutt'intorno, cadaveri dì soldati cinesi: cadaveri allineati lungo i margini delle strade, galleggianti, nei canali, ammonticchiati attorno ai piloni dei ponti. Nelle trincee fra i tumuli sepolcrali, centinaia di soldati morti sedevano gli uni accanto agli altri con le teste recline contro la terra sconvolta, come addormentati insieme in un profondo sogno di guerra. Jim raggiunse la casamatta, un fortino di cemento le cui feritoie lasciavano filtrare un filo di luce nell'umido interno. Salito sul tetto, si aggirò per lo spazio aperto, alla ricerca, fra le ortiche, del suo aereo. L'aereo stava in basso, a poche iarde di distanza, su un reticolato arrugginito di un vecchio trinceramento: la carta delle ali appariva strappata, ma la struttura in balsa era intatta. Mentre si accingeva a saltare dalla casamatta, notò una faccia che lo guardava dalla trincea: un soldato giapponese armato di tutto punto, seduto contro il terrapieno smottato, con accanto, come pronto all'ispezione, fucile, cinturone di corda e telo impermeabile. Non più che diciottenne, con una faccia passiva da luna piena, questi lo fissava come se l'apparizione di un ragazzino europeo in pantaloni di velluto azzurro e camicia di seta non lo sorprendesse minimamente. Muovendo lo sguardo lungo la trincea, Jim vide 2 altri soldati giapponesi che stavano seduti, fucile tra le ginocchia, su una trave che spuntava dal terreno. La trincea era piena di uomini armati. 50 iarde più in là, un secondo plotone stava accosciato contro il parapetto di un bunker di terra, intento a fumare e a leggere della corrispondenza. Oltre questo plotone, altri gruppi di soldati, dalle teste a stento visibili tra le ortiche e la canna da zucchero selvatica. Un'intera compagnia di fanti giapponesi stava insomma riposando in quel vecchio campo di battaglia, come volesse riequipaggiarsi coi morti d'una guerra precedente, come fosse costituita di fantasmi dei compagni caduti, fantasmi resuscitati, e muniti di nuove uniformi e razioni. E fumando le loro sigarette, e strizzando gli occhi contro la luce di un sole non familiare; quei soldati guardavano verso i grattacieli della città bassa di Shanghai, di cui si scorgeva, attraverso le risaie vuote, il lampeggiare delle insegne al neon. Jim si voltò a guardare la fusoliera del caccia, aspettandosi di vedere il pilota morto nella carlinga. Un sergente giapponese stava attraversando l'erba folta tra la casamatta e l'aereo, e le sue forti gambe si lasciavano dietro come un canale giallastro. Finì il mozzicone, inalando l'ultima boccata. Fingeva di non accorgersi di lui, ma Jim sapeva che cosa aveva deciso di fare a quel ragazzino che egli era. -Jamie...! Ti stiamo aspettando tutti... c'è una sorpresa per te! Era la voce di suo padre. Stava al centro del campo d'aviazione, e poteva vedere le centinaia di soldati giapponesi nei trinceramenti. Portava gli occhiali, e si era tolte la benda da occhio e la giacca da pirata. Sebbene avesse il fiato mozzo per la corsa dalla casa del dottor Lockwood, si era costretto a rimanere immobile, nell'atteggiamento che meno disturbava i giapponesi. I cinesi, che nei momenti di tensione usavano piangere e agitare le braccia, questo atteggiamento non riuscivano assolutamente a capirlo. Nondimeno, Jim fu sorpreso che questo piccolo segno di deferenza sembrasse soddisfare il sergente. Senza degnarlo di 1 sguardo, questi gettò la sigaretta e, saltato il fosso perimetrale staccò l'aereo di balsa dal filo spinato e lo buttò fra le ortiche.
- Jamie, è arrivato il momento dei fuochi artificiali... - disse suo padre, incamminandosi senza fretta fra l'erba. - Sarà bene andare. Jim si calò dal tetto della casamatta. - Il mio aereo è laggiù.
Potrei prenderlo, credo. - Suo padre osservò il sergente giapponese avanzare lungo il parapetto del trinceramento. Jim notò che parlare gli costava fatica. Il suo viso era teso ed esangue come il giorno in cui i sindacalisti del cotonificio avevano minacciato di ucciderlo. Eppure, stava pensando a una soluzione. - Lasciamolo ai soldati. Così faranno a chi lo trova è suo.
- Come gli aquiloni?
- Sì, appunto.
- Però, quello non era molto arrabbiato. Sembrano in attesa che succeda qualcosa.
- La prossima guerra?
- Non credo.
Mano nella mano, attraversarono il campo d'aviazione. Non un movimento: solo l'incresparsi incessante dell'erba, che si preparava alla carezza di flussi d'elica a venire.
Quando furono all'aviorimessa, suo padre lo abbracciò stretto, quasi volesse fargli male, quasi l'avesse perduto per sempre. Non era in collera con lui; anzi, sembrava lieto di essere stato costretto a visitare il vecchio aerodromo.
Jim, però, si sentiva vagamente colpevole e a disagio con se stesso. Aveva perso il suo aereo di balsa e attirato suo padre a un pericoloso incontro coi giapponesi. Gli europei solitari che finivano sul cammino dei giapponesi, di solito restavano cadaveri sul bordo della strada. Quando furono alla casa del dottor Lockwood, gli invitati se ne stavano ormai andando. Recuperati bambini e amah, s'infilavano in fretta nelle macchine, per tornare in convoglio al Quartiere internazionale. Il dottor Lockwood, in pantaloni da Babbo Natale e barba di cotone idrofilo, salutava con cenni della mano, mentre il signor Maxted beveva il suo whisky accanto alla piscina asciutta, e gli acrobati cinesi salivano le loro scale e si trasformavano in uccelli immaginari. Sempre angustiato per la perdita dell'aereo, Jim sedette fra i genitori sul sedile posteriore della Packard. Temevano potesse commettere qualche nuova monelleria, se sedeva davanti con Yang? Era riuscito a guastare il ricevimento del dottor Lockwood e a rendere improbabile una nuova visita all'aerodromo di Hungjao. Ah, quel caccia abbattuto in cui aveva investito tanta fantasia, e quel pilota morto di cui aveva avvertito la presenza nella carlinga arrugginita... Questi rovesci non gli impedirono di rallegrarsi quando sua madre gli disse che avrebbero lasciato la casa di Amherst Avenue, per qualche giorno, e si sarebbero trasferiti nell'appartamento della compagnia al Palace Hotel. Gli esami di fine trimestre alla scuola della cattedrale cominciavano il giorno dopo, con geometria e sacra scrittura, e, dato che la cattedrale stava a breve distanza dall'albergo, l'indomani mattina avrebbe avuto un bel po' di tempo per il ripasso. Lui era appassionato di sacra scrittura, specialmente ora che aveva abbracciato l'ateismo, e pregustava come sempre l'accoglienza tradizionale del reverendo Matthews (Il primo e maggior miscredente di tutta la brigata è...).
Aspettò davanti, nella Packard, che i suoi genitori si cambiassero e facessero caricare le valigie nel portabagagli. Quando uscirono dal cancello, guardò per terra, alla figura immobile del mendicante sulla stuoia sfilacciata. Sul piede sinistro si distingueva l'impronta dei copertoni della Packard. Foglie e brandelli di giornali gli coprivano la testa, tanto che pareva già far parte del pattume informe da cui era emerso. Jim provò dispiacere. per lui, ma, chissà come, riusciva a pensare unicamente all'impronta del pneumatico sul suo piede.
Fosse stata la Studebaker del signor Maxted, l'impronta sarebbe stata diversa: il vecchio, ora, sarebbe stato marchiato Goodyear Company..., Per distrarsi da questi pensieri, accese la radio. Le uscite serali in macchina per il centro di Shanghai, la città elettrica e sinistra più eccitante di qualunque altra al mondo, erano sempre attese da lui con felice anticipazione. Quando furono in Bubbling Well Road, premette la faccia contro il finestrino per ammirare i marciapiedi bordati di locali notturni e bische, dove s'affollavano entraineuse, delinquenti e ricchi accattoni con le loro guardie del corpo. A 6000 miglia di distanza, oltre la Linea internazionale del cambiamento di data, gli americani di Honolulu vivevano, nel sonno, le prime ore della domenica mattina, ma qui, un giorno avanti nel tempo come in ogni altra cosa, Shanghai già s'accingeva a cominciare una settimana nuova. Folle di scommettitori si ammassavano alle entrate degli stadi di jai alai, bloccando il traffico della Bubbling Well Road.
Un furgone blindato della polizia, con 2 mitragliatrici Thompson montate sulla torretta d'acciaio, sterzò davanti alla Packard e sgombrò il marciapiede. Un gruppo di ragazze cinesi in abito a lustrini inciampò in una bara di bimbo coperta di fiori di carta. L'una a braccetto dell'altra, barcollarono fin contro il radiatore della Packard; poi sfilarono, sempre barcollando, lungo il finestrino di Jim, battendo il parabrezza con le loro manine e gridando oscenità. Centinaia di entraineuse, eurasiatiche, in pellicce lunghe alla caviglia, sedevano nelle file di risciò allineati davanti al Park Hotel, fischiando tra i denti agli ospiti in uscita dalle porte girevoli. I loro protettori, intanto, discutevano con le coppie di mezz'età ceche e polacche, in eleganti vestiti rattoppati, che tentavano di vendere i loro ultimi gioielli.
Poco più in là, lungo le vetrine dell'emporio Sun Sun in Nanking Road, un gruppo di giovani ebrei europei si stava battendo, ora mescolandosi ora staccandosi dalla folla a passeggio, con una banda di giovani tedeschi di qualche anno più anziani, che ostentavano il bracciale con la svastica del Graf Zeppelin Club.
Inseguiti dalle sirene della polizia, i contendenti s'infilarono di corsa nell'entrata del Cathay Theatre, il cinema più grande del mondo, dove una folla di commesse e dattilografe cinesi, di accattoni e borsaioli, rivoleggiava nella strada per assistere all'arrivo del pubblico per lo spettacolo serale. Scendendo dalle berline, le donne passavano, reggendo le gonne a strascico, in mezzo a una guardia d'onore di 50 gobbi in costume medievale. 3 mesi prima, quando i genitori si giovavano della protezione, avevano portato Jim alla prima del Gobbo di Notre-Dame, la direzione del Teatro, battendo ogni vicolo di Shanghai, era riuscita a reclutarne 200. Come sempre, lo spettacolo all'esterno del locale era di gran lunga superiore a qualunque pellicola, e Jim non vedeva l'ora di tornare ai marciapiedi della città, lontano dai cinegiornali e dal loro incessante parlare di guerra. Dopo cena, nella sua camera al decimo piano del Palace, Jim si sforzò di non dormire. Ascoltò il ronzìo di un idrovolante giapponese in ammaraggio sul fiume alla Base aeronavale di Nantao; pensò al caccia abbattuto dell'aerodromo di Hungjao, e al pilota giapponese di cui aveva occupato il sedile nel pomeriggio. Chissà che lo spirito dell'aviatore morto non fosse entrato in lui e che i giapponesi non entrassero in guerra dalla parte dei britannici... Il sognò della guerra in arrivo, di un cinegiornale in cui lui stava, in tuta di volo, sul ponte di una portaerei silenziosa, pronto a prendere il suo posto accanto agli uomini solitari della nazione isolana del Mar Cinese, trasportato con loro in volo, oltre il Pacifico, dallo spirito del vento divino.