L'incursione aerea

 

Durante il tragitto verso l'ospedale, Jim si fermò per fare i compiti nello scheletro dell'aula magna. Dalla balconata dell'emiciclo superiore poteva non solo tenere d'occhio le trappole per fagiani oltre il reticolato, ma anche aggiornarsi sulle attività in corso nel campo d'aviazione di Lunghua. La scala che portava all'emiciclo era parzialmente ostruita da calcinacci caduti dal soffitto, ma lui s'infilò in 1 stretto crepaccio reso liscio dal passaggio dei bambini del campo, e, giunto in cima, prese posto sulla gradinata di cemento che costituiva la fila anteriore della balconata. Il Kennedy sulle ginocchia alzate, fece un pasto tranquillo della seconda patata. Sotto di lui, l'arco di proscenio dell'aula era stato ridotto dalle bombe a un ammasso di macerie e travi d'acciaio, ma il paesaggio così esposto somigliava per molti aspetti a una veduta panoramica da schermo cinematografico. A nord c'erano le case d'appartamenti della Concessione francese, le facciate riflesse dalle risaie allagate; a destra, emergendo dal sobborgo shanghaiano di Nantao, il fiume Whangpoo, che piegava il suo immenso corso attraverso la campagna abbandonata.

Di fronte, il campo d'aviazione di Lunghua, la cui pista di cemento attraversava diagonalmente la superficie erbosa fino ai piedi della pagoda. Dal suo punto d'osservazione, Jim poteva vedere le canne dei cannoni antiaerei montati sugli antichi tetti di pietra, così come i potenti fari d'atterraggio e le antenne radio sul tetto superiore di tegole. Sotto la pagoda c'erano le aviorimesse e le officine di riparazione, ciascuna protetta da piazzuole di sacchetti di sabbia.

Nell'area di stazionamento si vedeva ciò che restava della già invincibile aereobrigata di base a Lunghua: qualche ricognitore vecchiotto e qualche bombardiere convertito.

Attorno ai margini del campo, nell'erba folta a lato della strada perimetrale, giacevano le carcasse di quella che a Jim pareva essere l'intera Aviazione giapponese. Gruppi di aerei arrugginiti pesavano fra gli alberi sui carrelli sgonfi, o giacevano fra i banchi di ortiche nei punti in cui erano slittati dopo gli atterraggi di pancia con gli equipaggi feriti. Per mesi, s'erano visti apparecchi giapponesi mutilati piombare dal cielo sul cimitero del campo d'aviazione, quasi che, in alto in alto, sopra le nubi, fosse in corso una battaglia aerea di titani. Squadre di mercanti cinesi di rottami erano già al lavoro fra i relitti. Con la loro instancabile capacità di trasformare una serie di rottami in un'altra, costoro spogliavano le ali delle coperture metalliche e recuperavano pneumatici e serbatoi. Nel giro di qualche giorno, tutta quella roba sarebbe stata in vendita a Shanghai, trasformata in pannelli di copertura, cisterne e sandali dalla suola di gomma. Se le operazioni di recupero avvenissero con l'autorizzazione del comandante giapponese della base, Jim non aveva mai potuto decidere. Ogni poche ore si vedeva uscire un camion con un plotone di soldati, e veniva scacciato qualche cinese. Mentre i cinesi scappavano fra le risaie allagate a ovest del campo d'aviazione, i giapponesi scagliavano dalle loro carrette pneumatici e lastre metalliche. Ma quando i cinesi tornavano, come sempre, al lavoro, i serventi giapponesi dei pezzi antiaerei disposti nelle piazzuole di sacchetti di sabbia lungo la strada perimetrale, li ignoravano. Jim si succhiò le dita, aspirando l'ultimo sapore della patata dolce dalle unghie consumate. Il calore della patata gli attutiva il dolore costante dei denti. Osservando i cinesi al lavoro, fu tentato di varcare il reticolato per unirsi a loro. Quante nuove marche di aerei giapponesi non c'erano mai, laggiù! A sole 400 iarde dalle trappole per fagiani giaceva la carcassa abbattuta di un Hayate, 1 dei potenti caccia d'alta quota che i giapponesi impiegavano contro le Superfortezze mandate a bombardare Tokyo. La striscia d'erba alta fra il campo e il margine meridionale dell'aerodromo veniva raramente pattugliata. Il suo occhio esercitato scrutava gli avvallamenti e i fossi tra i banchi d'ortiche e di canna da zucchero selvatica, seguendo il corso di un canale dimenticato. Una seconda squadra di coolies cinesi stava riparando, al centro del campo d'aviazione, la pista di cemento. Mentre la squadra era occupata a trasportare ceste di pietre dai camion fermi tra i crateri delle bombe, un soldato giapponese manovrava, avanti e indietro, un compressore stradale a vapore. Il fischio acuto del suo meccanismo di distribuzione teneva Jim inchiodato al suo posto. La squadra di coolies gli ricordò i giorni in cui, a quella pista, aveva lavorato anche lui. Negli ultimi 3 anni, quando aveva potuto osservare i decolli degli apparecchi giapponesi da Lunghua, aveva ogni volta provato una sorta di scomodo orgoglio nel momento in cui essi si staccavano dalla superficie di cemento. Come quei prigionieri cinesi sfruttati a morte, anche lui e Basie e il dottor Ransome avevano contribuito a costruire la pista di decollo per gli 0 e gli Hayate lanciati contro gli americani. Ed egli si rendeva conto che il suo legame con l'Aviazione giapponese derivava dalla sempre tremenda coscienza di aver dato quasi la vita per la costruzione della pista, non diversamente dai soldati cinesi che giacevano sepolti senza traccia nel pozzo di calce sotto la distesa ondulata delle canne da zucchero. Se fosse morto anche lui, le sue ossa, e quelle di Basie e del dottor Ransome, avrebbero portato il peso dei piloti giapponesi di Lunghua: di quei piloti che decollavano per andare a lanciarsi contro i guardacoste americani attorno a Iwo Jima e Okinawa. Se i giapponesi trionfavano, la piccola parte del suo spirito che giaceva mescolata per sempre nella pista, sarebbe stata placata. Se invece venivano sconfitti, tutti i suoi timori sarebbero stati invano. Oh, come ricordava quei piloti del crepuscolo che l'avevano tolto d'imperio dalla squadra di lavoro! Ogni volta che osservava dei giapponesi muoversi attorno ai loro aerei, riandava col pensiero ai 3 giovani piloti col personale di terra che erano venuti, nella luce della sera, a controllare la pista. Non fosse stato per lui, che s'era diretto verso gli apparecchi in stazionamento, loro, la squadra di lavoro, non l'avrebbero nemmeno notata. Gli aviatori l'affascinavano: l'affascinavano ben più del soldato Kimura e della sua armatura da kendo. Ogni giorno, sedesse sulla balconata dell'aula magna o fosse occupato ad aiutare il dottor Ransome nell'orto dell'ospedale, egli osservava i piloti, nelle ampie tute di volo, eseguire i controlli esterni prima della salita nell'abitacolo. E, sopra tutti i piloti, ammirava i kamikaze. Il mese precedente, al campo d'aviazione era arrivata oltre una dozzina di unità speciali d'attacco, perché Lunghua era la base delle missioni suicide contro le portaerei americane del Mar Cinese orientale. Il soldato Kimura e le altre guardie del campo non degnavano i piloti suicidi della minima attenzione, e Basie e i marinai americani del Blocco E li chiamavano "fabbricapolpette" o "suonati". Ma lui s'identificava coi kamikaze, ed era ogni volta commosso dalle semplici cerimonie che avevano luogo a lato della pista. La mattina precedente, mentre era occupato a lavorare nell'orto dell'ospedale, aveva lasciato il secchio delle immondizie ed era corso al reticolato per vederli partire. Quei 3 piloti col nastro bianco attorno al capo erano poco più anziani di lui, e avevano guance fanciullesche e nasi molli.

Ritti accanto agli aerei nella torrida luce del sole, facendo gesti nervosi per allontanare le mosche dalla bocca, avevano assistito, col viso teso, al saluto del caposquadriglia. E quando avevano inneggiato all'imperatore, con un rauco grido al pubblico di mosche, non 1 degli artiglieri contraerei li aveva notati: e il soldato Kimura, che aveva solcato a grandi passi i filari di pomodori per richiamarlo dal reticolato, era rimasto sbalordito dal suo interesse... Jim aprì la grammatica latina e si applicò al compito assegnatogli dal dottor Ransome: il paradigma passivo del verbo amare. Il latino gli piaceva proprio: con quella rigidità formale e quelle famiglie di nomi e verbi, somigliava, per molti versi, alla chimica, il campo prediletto di suo padre. I giapponesi avevano chiuso la scuola del campo come astuta rappresaglia contro i genitori, che in tal modo venivano a trovarsi intrappolati per la giornata intera con la prole, ma il dottor Ransome aveva continuato ad assegnargli una varietà di compiti: poesie da imparare a memoria, soluzione di sistemi d'equazioni, scienze in genere (un campo nel quale, grazie a suo padre, lui gli serbava spesso qualche sorpresa), e francese, che lui detestava. Insomma, rifletteva Jim, una bella mole di lavoro, considerato che la fine della guerra era vicina. Chissà, dunque, che non fosse un modo escogitato dal dottor Ransome per tenerlo tranquillo un'oretta al giorno... In un certo senso, però, quei suoi compiti aiutavano il dottore a mantenere l'illusione della sopravvivenza, anche nel campo di Lunghua, dei valori di un'Inghilterra svanita: ciò che poteva magari essere sbagliato, ma che induceva lui, Jim, ad aiutarlo in tutti i modi.

- Amatus sum, amatus es, amatus est... - Recitando il perfetto, Jim notò che i cinesi stavano allontanandosi di corsa dai relitti degli aerei, dopo che già s'era dispersa, gettate a terra le ceste di pietre, la squadra di coolies addetta alla colmatura. Il soldato giapponese del compressore smontò anch'egli d'un balzo e si mise a correre, a torso nudo, verso le postazioni antiaeree, i cui cannoni stavano esplorando il cielo. Dalla Pagoda di Lunghua venne un bagliore, quasi che i giapponesi avessero acceso la miccia di una castagnola votiva: poi arrivò, attraverso il campo d'aviazione, il crepitio della mitragliera solitaria, presto soffocato dall'ululio di una sirena d'allarme antiaereo. Il segnale della sirena venne ripreso dal clacson montato sopra il corpo di guardia del campo di Lunghua: e fu 1 strepito secco, che martellava il cervello. Eccitato dalla prospettiva di un'incursione aerea, Jim scrutò il cielo attraverso il tetto squarciato dell'aula magna. Nel campo, gl'internati correvano qua e là lungo i sentieri di cenere battuta. Uomini e donne che prima sonnecchiavano sui gradini delle baracche come ricoverati d'un ospizio, si precipitavano ora attraverso le porte, e si vedevano madri sporgersi dalle finestre di pianterreno per afferrare e portare al coperto i figli. Nel giro di un minuto, il campo rimase deserto, lasciando Jim a dirigere solo, dalla balconata dell'aula magna, l'incursione aerea. L'orecchio teso, Jim cominciava già a pensare che si fosse trattato di un falso allarme. A misura che gli americani spostavano le loro basi sempre più avanti nel Pacifico e in Cina continentale, le incursioni giungevano ogni giorno più in anticipo. I giapponesi erano ormai tanto nervosi, da sobbalzare a ogni nuvola avvistata. Sopra le risaie passò un bimotore da trasporto, i suoi piloti inconsapevoli del panico sottostante. Jim tornò alla grammatica latina. In quell'istante, l'aula magna venne attraversata da un'ombra gigantesca, che schizzò a filo di terreno verso il reticolato perimetrale. Dal rombo immenso che invase l'aria spuntò quindi un caccia monomotore, con la fusoliera d'argento e le Stelle-e-strisce dell'Aviazione americana. Le ali del Mustang, alte solo 30 piedi sopra la testa di Jim, apparivano più larghe dell'aula magna; la fusoliera era macchiata di ruggine e d'olio, ma il possente motore aveva il pulsare uniforme della Packard di Amherst Avenue. Sorvolato il reticolato perimetrale, il Mustang sfrecciò, ad altezza d'uomo, lungo la pista del campo d'aviazione, sollevando un turbinio di foglie e polvere al passaggio. A questo punto, le mitragliere delle postazioni difensive circostanti si rivolsero verso il campo di prigionia. I tetti sovrapposti della Pagoda di Lunghua scintillarono di luci, come l'abete natalizio davanti all'emporio shanghaiano della Sincere Company. Per nulla intimorito, il Mustang puntò dritto sulla torre antiaerea, il ritmo delle sue mitragliere soffocato da quello di un secondo Mustang in virata sulle risaie a ovest del campo. In coda a questo spuntò un terzo apparecchio, così basso che Jim poté vedere, sotto di sé, l'abitacolo coi piloti, e le insegne della fusoliera annerite dagli schizzi di scappamento. 2 altri Mustang sorvolarono il campo, e la scia dei loro motori strappò via le lamiere ondulate che costituivano il tetto della baracca vicina al Blocco G. Mezzo miglio a est, fra il campo di Lunghua e il fiume, schizzò dal mare una seconda squadriglia di caccia americani, tanto sovrapposti alle ombre proiettate sulle risaie vuote da rimanere nascosti dietro le file di tumuli funerari. Varcato il perimetro del campo, i caccia s'alzarono, poi scesero in picchiata a mitragliare gli apparecchi giapponesi fermi accanto alle aviorimesse. Sopra il campo era tutto un esplodere di proietti antiaerei dalle ombre pulsanti come battiti cardiaci sopra la terra bianca. Un proietto venne a esplodere, con una vampa assordante, sopra l'aula magna, provocando la caduta, dal tetto di cemento, di una valanga di polvere sulle spalle di Jim. Scuotendo la sua grammatica latina, Jim si mise a contare le dozzine di esplosioni. Ma lo sapevano, i piloti dei Mustang, che Basie e i marinai americani erano internati nel campo di Lunghua? Perché, ad ogni incursione, loro si tenevano nascosti fino all'ultimo dietro i blocchi a 3 piani dei dormitori, anche se ciò poi attirava il fuoco giapponese sul campo e provocava, come aveva provocato, numerose vittime fra i prigionieri... Però, che bello averli così vicini, quei Mustang! I suoi occhi godevano d'ogni rivetto delle fusoliere, dei portelli alari delle mitragliere, degli enormi radiatori ventrali che, ne era certo, stavano là solo per motivi estetici. Oh, lui ammirava gli Hayate e gli 0 giapponesi: ma i caccia Mustang erano le Cadillac del combattimento aereo! Il fiato mozzo gl'impedì di gridare ai piloti: ma, quando gli sfrecciarono davanti, sotto il baldacchino formato dalle esplosioni dei proietti antiaerei, li salutò sventolando la grammatica. Le prime squadriglie d'attacco s'erano ormai allontanate. Chiaramente stagliate contro le case d'appartamenti della Concessione francese, volavano ora verso Shanghai, pronte a mitragliare i cantieri navali e la base d'idrovolanti di Nantao. Le batterie antiaeree attorno alla pista seguitavano però a sparare, e i traccianti, fili di fosforo d'un intreccio senza fine, trasformavano il cielo in un gioco di ripiglino. Al centro dell'intreccio, la grande Pagoda di Lunghua si ergeva dal fumo che si levava dalle aviorimesse in fiamme, sotto un fuoco ininterrotto di sbarramento. Jim non aveva mai assistito a un attacco aereo di tali proporzioni. Una seconda ondata di Mustang attraversò le risaie fra il campo di Lunghua e il fiume, seguita da una squadriglia di bimotori cacciabombardieri. 300 jarde a ovest del campo, un Mustang picchiò di tribordo verso terra. Privo di controllo, scivolò per l'aria, e, raschiata con la punta dell'ala la proda di un canale in disuso, fece la ruota sopra le risaie e si schiantò prima di toccar terra. Al momento dell'esplosione, Jim poté vedere, attraverso la parete di benzina in fiamme, la figura, anch'essa in fiamme, del pilota, ancora legato al posto di comando. Schizzato dal relitto incandescente dell'aereo, questi si lanciò fra gli alberi oltre il perimetro del campo, frammento di quel sole la cui luce continuava a fiammeggiare per la campagna circostante. Un secondo Mustang malconcio si staccò dal resto della squadriglia, e, trascinandosi dietro una scia di fumo oleoso, puntò, attraverso le raffiche contraeree, verso il sommo del cielo. Il pilota voleva sottrarsi al fuoco del campo, ma, quando il suo apparecchio cominciò a perder quota, fece un pancia-sopra e si lasciò cadere dall'abitacolo. Il paracadute si aprì, ed egli prese a calar dritto verso terra. L'aereo in fiamme, invece, si raddrizzò, e, trascinando la scia nera in un arco errabondo sopra la campagna vuota, andò a precipitare nel fiume. Il pilota pendeva ora solo, nel cielo silenzioso. I suoi compagni saettarono via verso Shanghai, le fusoliere d'argento ormai perse nelle assolate finestre della Concessione francese. Il martellio dei motori non s'udiva più, ed era cessato anche il fuoco antiaereo. Un secondo paracadute stava scendendo fra i canali a ovest del campo d'aviazione. L'aria sconvolta era pregna del puzzo di olio bruciato e di refrigerante. Su tutto il campo, i piccoli uragani di foglie e insetti morti facevano come placarsi, poi riprendevano a turbinare lungo i sentieri, all'inseguimento dei flussi d'elica dei Mustang ormai svaniti. I 2 paracadute caddero nei pressi dei tumuli funerari. Un camion dal radiatore tutto in fumo già s'affrettava a gran velocità lungo la strada perimetrale, con una squadra di soldati giapponesi mandati a uccidere i piloti. Jim spolverò la grammatica latina e rimase in attesa delle fucilate. L'alone luminoso che s'era levato dal Mustang in fiamme aleggiava ancora sopra fossi e risaie. Per pochi minuti, il sole s'era accostato più del solito alla terra, come a riarderne la morte dai campi. Jim provò dolore per la fine dei piloti americani, costretti a morire nell'intrico delle imbracature sotto gli occhi di un caporale giapponese armato di una Mauser e di un ragazzo inglese tutto solo sulla balconata d'un edificio in rovina. Ma questa fine gli ricordò la sua, alla quale pensava segretamente fin dall'arrivo a Lunghua. Le incursioni aeree, il rombo dei Mustang in picchiata sul campo, l'odore d'olio e cordite, la morte dei piloti, la sua stessa morte, gli giungevano come cose gradite. E, malgrado tutto, sapeva di non valere nulla. E, arrotolando fra le mani la grammatica latina, tremò d'una segreta fame, che la guerra sapeva così bene soddisfare.