La gentilezza di Gadda

La prima lettera dell’epistolario di Gadda con Lucia Rodocanachi, scritta il 21 settembre 1935, comincia: «Cara e Gentile Signora». L’ultima, scritta ventinove anni dopo, il 29 maggio 1964, comincia: «Cara, gentile Signora Lucia».

L’aspetto più rassicurante della gentilezza epistolare, come di ogni rito, è la ripetizione. Niente ci angoscia come il mutamento. Esile passerella tra i due mondi è la variazione: mutamento apparente, che elude la ripetizione, ma per ribadire la continuità.

Tra la prima lettera e l’ultima la variazione è una virgola, che sostituisce una e, e un nome proprio.

«Cara e Gentile Signora» ha una disinvoltura affabile, una discorsività quasi mondana. «Cara, gentile Signora Lucia» incalza con un pathos dimesso, gli aggettivi conservano ciascuno la propria intensità, senza essere indeboliti da una congiunzione che ne faccia una coppia riuscita: ossia una coppia fatalmente euforica e incline a una rettorica prevedibile.

Quanto al nome Lucia, forma con Signora una sorta di endiadi, di figura in cui vicinanza e lontananza si fondono nella distanza che è la più difficile da raggiungere: quella giusta.

La variazione adombra anche l’evoluzione del rapporto umano, il mutamento di una gentilezza convenzionale, che eredita l’uso delle parole, in una gentilezza personale, che le riscopre nei loro significati: passaggio dal formale alla forma.

Nell’ultima lettera Gadda trova forse gli accenti più diretti, drammatici e sommessi per parlare di se stesso e del proprio destino:

«Sono già al di là, vivo notti di incubo: cuore, fegato, sistema nervoso e circolazione sono in dissesto.

«E avrei tanto bisogno non dico di una assistenza, ma almeno di una vicinanza che non fosse il mero soccorso fisico di un’infermiera analfabeta, di un tassista, e dei bravi spazzini tuttavia necessarî e soccorrevoli.

«Creda, Signora, io sono solo: nessuno può più sopportarmi: amici che mi hanno aiutato nel lavoro, si negano al telefono, quando chiedo loro una semplice vicinanza umana fatta di 15 minuti di conversazione “nel nostro linguaggio”.»

Nei commiati, altro punto chiave dell’epistolario – proprio perché la tradizione vi esercita la suggestione maggiore e il ricalco o lo scarto acquista la massima evidenza – Gadda è affezionato e devoto, l’affmo e il devmo. Spesso è «riconoscente». Arriva anche al «mi creda», dove l’appello alla fede non si capisce se voglia vincere le resistenze di chi legge o di chi scrive.

Altre volte la composizione del dessert rimescola gli ingredienti, passando da una sobrietà classica a una ridondanza barocca: «Le porge i suoi più devoti ossequi l’affmo».

Questa cerimoniosità sembra l’incrocio tra l’ampollosità degli spagnoli, contraffatta dal Manzoni, e l’ironia sorniona dei francesi, in terra di conquista lombarda.

Delle formule tradizionali Gadda si veste come i sacerdoti fanno con i loro paramenti: aiutandosi, disinvoltamente, con un colpo lieve dell’omero. Talvolta avverte qualche impaccio e non manca di sottolinearlo, con quella goffaggine compiaciuta, anche questa alquanto lombarda, che ostenta il disagio e occulta l’indifferenza:

«Montale e la Mosca, con cui abbiamo parlato di Lei, mi hanno tanto lodato la sua casa e la sua gentilezza di ospite (ho già conosciuto tutta l’altra sua gentilezza) che ora mi sento imbarazzato e impensierito.

«Io sono un rustico lombardo, un po’ malato per giunta, e non vorrei incontrare un ambiente troppo superiore alla mia rusticità» (16 febbraio 1936).

All’alibi regionale aggiungerà altre volte l’alibi professionale: «dalla vita ingegneresca e lombarda ho contratto la mala abitudine di una certa sbrigativa rozzezza, che corre come verso la stazione e la banca, senza indugiarsi a riflettere, a percepire» (3 luglio 1936).

Si coglie in queste righe una nostalgia ironica della gentilezza in senso etimologico: come appannaggio della nobiltà (gentilicia), aliena dagli affari e dalla fretta. La gentilezza nobiliare che si concede all’inferiore con la stessa elegante, irreale naturalezza del trotto nei cavalli: specchio in cui i nobili non si stancano di riflettersi e i parvenus di imitarli.

La gentilezza però può avere altre motivazioni che ribadire la propria orgogliosa rarità.

Essa è tipica, ad esempio, dei collerici repressi e degli ipocondriaci cupi.

Le persone più iraconde sorridono facilmente, spesso in anticipo su quanto dicono o ascoltano, quasi a disarmare l’aggressività degli interlocutori ed esercitare più occultamente la propria. E anche i pigri sono cinicamente cortesi, per evitare qualunque attrito possa rallentare la loro caduta in un vuoto torricelliano.

Le tre componenti – illeggiadrimento di una barbaricità longobarda, rimozione dell’insofferenza e disponibilità intermittente – convergono nella gentilezza di Gadda.

L’imperativo economico del massimo risultato con il minimo sforzo gli addita i luoghi comuni della devozione verbale e della semplificazione conciliante.

Questo repertorio di profferte e di scuse, di rendimenti di grazie e di promesse aleatorie è un inventario di buone maniere che Gadda rispetta sulla pagina, perché così può eluderle nella realtà. Come tutti i grandi roditori del mondo borghese, se ne nutre mentre continua a scavarlo e cerca di non essere coinvolto nei cedimenti che provoca.

Il conformismo che si scopre nella esistenza degli eversori e che delude le anime pie della rivoluzione non ricalca solo quella educazione contro cui lottiamo – almeno nei casi migliori – tutta la vita: ma cela anche l’aspirazione legittima a risparmiare le energie per una gerarchia di scopi, a lavorare in pace alla guerra.

Le buone maniere del classicismo saranno invece per Gadda l’avversario con cui misurarsi, il cosmo che deve ritornare caos per poi ricomporsi, l’ordine che si odia perché non lo si può rimpiangere. L’amore per la tradizione rettorica passa attraverso il suo svuotamento. E l’arte di Gadda è una sfida amara alla gentilezza della forma, che resta però il paradiso lasciato alle spalle.

Arrossisce spesso.

«La sua bellissima lettera mi fa… arrossire della mia scandalosa condotta», scrive nella prima cartolina, del 31 luglio 1935.

Due anni dopo, il 12 settembre 1937, potrà già dire:

«Con la solita porpora sul viso ho dunque ricevuto la Sua graditissima del 6 corrente.»

Generalmente chi si accinge a mentire ricorre ad avverbi esorcizzanti – quali “sinceramente”, “onestamente” e simili – nel vano tentativo di convincere anzitutto se stesso. Gadda, nella lettera del 16 novembre 1936, sceglie “veramente”:

«Ora le scriverò tre lettere, perché Lei mi possa perdonare, perché Lei sappia che veramente ho attraversato dei giorni di vergogna: arrossivo da solo, in camera mia.»

Non si può negare che l’immagine di un uomo che arrossisce da solo nella sua camera abbia un pathos accattivante. Del resto anche le menzogne più ingenue non conoscono mai la figura dell’attenuazione, ma solo quella dell’accrescimento. E il loro destino rettorico è sempre l’iperbole. Gadda ci arriva già dopo quattro anni:

«Dal 16 giugno, data della sua gentilissima, a oggi, 3 luglio, corrono 18 giorni, per i quali devo a lei 12 x 18 scuse e per cui le gote mi si coprono di 12 x 18 successivi strati di ontosa porpora.»

Questa colorazione della pelle è, come il suo contrario, il pallore, una di quelle reazioni che non si possono simulare. Possiamo ridere per calcolo, restando malinconici; e per calcolo possiamo anche piangere, considerato che ne avremmo comunque le ragioni. Ma per calcolo non possiamo provocare quell’afflusso di sangue al viso che riempie di imbarazzo noi e di diletto gli altri. Infatti, nella rettorica degli effetti, il rossore raggiunge il massimo di persuasività e non a caso i narratori dell’Ottocento vi attingono senza parsimonia, sacrificando la qualità alla quantità: così che, per reazione, i narratori del Novecento sembrano ignorarlo, tranne che nella vita privata. Hemingway arrossiva spesso. «Come una ragazza», aggiungono testimoni maliziosi.

Secondo il clinico Marañon, il rossore in un uomo, se frequente, è indice di omosessualità.

Può essere. Sono talmente numerosi i sintomi della omosessualità, che uno più o uno meno non cambia nulla.

In ogni caso Gadda ricorre al rossore (scritto) con una impudenza tale, che è l’unica cosa di cui potrebbe ragionevolmente arrossire.

Non mancherebbero per altro motivazioni più oggettive. Il capitolo della collaborazione di Lucia Rodocanachi alle traduzioni di Gadda è un romanzo nel romanzo: acquista un suo spazio invadente e irresistibile e forse merita una attenzione particolare.

Comincia con una lettera del 24 agosto 1938, quando Gadda, assillato dal bisogno, scrive:

«Mi deciderò ad andare da Rusca e a sentire se vi è la possibilità di qualche traduzione dall’inglese o dal tedesco: ma non mi faccio troppe illusioni.»

Una settimana dopo comunica:

«Dunque: parlato con Rusca (il direttore di Mondadori e padrone di Vittorini, mio amico). Risposta: […] “vedrò se [l’editore] potrà darti qualche libro scientifico, tipo quelli degli astronomi e fisici divulgatori, che hanno avuto tanto successo”.»

A questo punto la richiesta di Gadda:

«Lei sarebbe disposta ad aiutarmi anche nelle stelle doppie e la via Lattea? E poi quanto pagherà? Mi dica anche, cara signora Lucia, come dobbiamo dividere il magro compenso: sarà un osso di 1.500/2.000 lire, in tutto. Non vorrei che la fatica d’entrambi fosse retribuita troppo poco, cioè che il gioco non valesse la candela. Se fosse un libro non letterario e se lei potesse farmi la traduzione quasi definitiva e io avessi davvero poco lavoro, potrei lasciare a lei il maggior utile e contentarmi di un quasi parassitario prelievo, dovuto alla mia qualità di grand’uomo (semi-fesso). Del resto, scrive meglio Lei di me.»

Mirabile, a parte il razzo finale, la collocazione simmetrica, a chiasmo, di «traduzione quasi definitiva» e di «quasi parassitario prelievo», nonché quel «se […] davvero» sottolineato, che sembra fare da ponte tra il periodo ipotetico della realtà e quello della irrealtà.

Il 5 novembre ritorna sull’argomento:

«Mi han dato in lettura un libro tedesco di divulgazione scientifica: Flechtner - die Welt in der Retorte (credo il Mondo nella storta, strumento dei chimici). Si tratta probabilmente d’un libro un po’ pacchiano di divulgazione scientifica e industriale tecnologica: chimica industriale.

«Per ora devo solo dire se va o no: e scrivere il parere. Credo che potrò dare questo parere da me, con quel po’ di tedesco che mastico: non so se lo darò favorevole, perché voglio essere assolutamente onesto.»

Ora, dopo quel «credo» perplesso e quell’«onesto» rafforzato da «assolutamente» – a conferma che le virtù vengono evocate quando i fatti stanno per smentirle, come la moglie evoca il fantasma del coniuge quando sta per tradirlo – ecco lo sviluppo della lettera: «La prego […] di dirmi anche se (eventualmente) potrei mandarle il libro per la lettura-giudizio, che dovrebbe esser fatta in 7/8 giorni». E, nell’ipotesi di un giudizio favorevole, ecco altri periodi di sapienti metafore e di calibrati eufemismi:

«Potrei contare sulla sua collaborazione piena per la traduzione? Si tratta di una chimica facilissima spiegata alle balie (scusi, era per dire che è facile): e comunque lei non dovrebbe preoccuparsi delle poche formule, che sbrigherò da me: l’importante per me è che, se accetto di tradurlo, ho assolutamente bisogno dell’opera Sua, essendo già molto impegnato – e con minacce ingegneresche all’orizzonte.

«Credo che dovrò “rivedere” (per modo di dire) il suo testo, sia per fare onore alla firma, sia per quel po’ di magra scienza o industria che vi fosse. Ma penso che se Lei mi prepara già una traduzione spigliata, la mia revisione si ridurrà a una semplice lettura. La divisione del magro bottino si avvantaggerà a suo favore: e sarò onestissimo nella valutazione della reciproca fatica: se la mia fosse nulla o quasi, mi considererò un volgare sub-appaltatore anche nel premio.

«Occorre però che del sub-appalto, nel quale non vedo nulla di male di fronte alla legge divina, sia rigorosamente taciuto: anche per ragioni di mondana, editoriale opportunità.»

Nelle settimane successive la gentilezza di Gadda diventa sempre più propiziatoria: e il linguaggio, nella sua trasparenza infallibile, non manca di registrare questo passaggio dalla effusione spontanea alla proiezione sul «giro di posta». Infatti, a proposito di due libri di un chirurgo inglese, inviati in lettura dalla Mondadori, Gadda chiede alla sua corrispondente, il 18 novembre 1938:

«La prego scrivermi, a cortese giro di posta, se posso mandarglieli per la lettura e se lei li può leggere in una settimana e mandarmi un breve riassunto e un Suo parere scritto.»

Il 7 dicembre, senza avere nel frattempo ricevuto risposta, glieli spedisce, confessando di avere affrontato una lotta interiore («dopo aver perso un po’ di giorni nella indecisione, mi sono deciso a mandarglieli»). E, chiedendo due giudizi, di quattro e di sei cartelle, aggiunge:

«Superfluo raccomandarle di tener riserbata la cosa: non è bene, di fronte all’editore, che sia detto che io sub-appalto il lavoro.»

Quanto all’esame del testo, precisa:

«Non c’è bisogno che proprio lo veda sillaba per sillaba.»

Dove la sostituzione di «parola» con «sillaba» segna anche i limiti concessi dalla liberalità del committente alla libertà del lettore.

Seguono settimane di indugi inquieti e di solleciti discreti, finché finalmente, il 10 gennaio 1939:

«La sua relazione è perfetta, chiarissima e io la presenterò con le penne del pavone al mio principale: solo attenuerò la nota negativa, sperando in una eventuale commessa.»

La ringrazia, il 27 gennaio, per un secondo giudizio e intanto la informa di avere in lettura, per un responso, The Way of All Flesh di Samuel Butler. Glielo dice con un certo distacco, come per inciso, quasi ricordandosene a un tratto (sia detto tra queste parentesi, il modo generalmente usato dai letterati per proporre riluttanti un loro manoscritto di versi, magari al termine di una piacevole cena). Ma subito dopo:

«Devo dare responso. Lei lo ha letto? Che ne dice?»

Non passa un mese e l’amo si trasforma in una rete:

«Se lei ha presente la trama o se ha il libro costì mi mandi o s’il Vous plaît una 1/2 pagina manoscritta con la trama o per meglio dire schema: p.e. X sposa Y e divorzia da Z, ecc. Intanto io proseguo a leggere in ragione di 1/10 del volume al giorno» (ma nella traduzione francese di Larbaud).

«Un piccolo trauma» interrompe però la committenza: la scoperta che Einaudi sta per pubblicare una traduzione del Butler.

Gadda avvisa subito Bompiani e, il 26 aprile, anche lei, pregandola di sospendere:

«Quante pagine, eventualmente, ha già tradotto? Ora vorrei che non ne avesse tradotto alcuna!»

Preannuncia in una lettera del 22 maggio:

«Rimborserò spese incontrate, cercherò di rimediare in qualche modo.»

E nella successiva:

«Mi permetterò rifonderle al vivo le spese vive (di carta, posta, ecc.).»

Il poema eroicomico della traduzione Gadda-Rodocanachi non è però finito. Il 28 agosto di quel 1939, Gadda le scrive:

«Stamane mi telefona Bompiani se voglio tradurre un libro (credo romanzo) dello Steinbek (si scrive così?) – pagine 360 tempo 3 mesi e 1/2. Posso nuovamente ricorrere a Lei?»

Ma, quando in un rapporto sussiste una disparità di piani, i tentativi di attenuarla ottengono l’unico effetto possibile, anche se il meno desiderato: quello di accentuarla. Gadda infatti chiarisce:

«Certo la nostra meditata collaborazione offre sempre qualche punto debole, specialmente questo: che io non posso rendermi garante dei vari casi che possono interrompere il lavoro, non dovuti a mia colpa.»

È singolare che un uomo assediato, come Gadda, da oscuri sensi di colpa, usi proprio questo termine, colpa, per attribuirne la responsabilità a chi non ne ha alcuna.

Eppure è meno strano di quanto sembri: perché, se si è schiacciati da colpe immaginarie, può essere insopportabile aggiungervi una colpa reale; e quel rovesciamento delle parti che ripugna alla logica diventa l’unico alibi per illudersi di crederle.

Il via a questa nuova avventura editoriale – emblema non tanto della diversità delle epoche, quanto della loro somiglianza – viene preannunciato in una lettera del 31 agosto 1939, insieme con una preghiera:

«Data la mia situazione di ignaro, le sarei grato se potesse leggere nel frattempo il romanzo e mandarmene un sunto di 1 o 2 pagine: perché io possa fingere di averlo letto con B[ompiani].»

Lo scoppio della guerra scompagina però, insieme con milioni di altri piani, anche quelli editoriali. E Gadda-Rodocanachi è costretto, ancora una volta, a rinunciare.

Di un’altra colpa evidentemente più lieve – quella di rispondere con ritardi cronici alla sua corrispondente – Gadda mostra invece di non sapersi consolare: tutto l’epistolario ruota intorno a tale tema. Ma anche questo imbarazzo ciclico, che potrebbe apparire una eccentricità, mantiene una distanza costante dal suo centro. Niente è più solidale e coerente di un universo maniacale. E in quello di Gadda il senso di colpa è come il cielo delle stelle fisse sopra il movimento dei pianeti.

Non stupisce allora che i suoi rimorsi svaniscano per il lavoro dato in subappalto, forse minimo e indiretto risarcimento, ai suoi occhi, delle frustrazioni più gravi che subisce dall’ambiente editoriale e letterario. Mentre sul piano del rapporto umano la paura di dare meno di quanto riceva esacerba la sua pena segreta.

Del resto, in ogni rapporto affettivo il senso di colpa è ancora più funesto che la colpa. Si perdona più facilmente la trasgressione della fedeltà che il dubbio sulla sua consistenza. E non c’è nulla che incrini la fiducia dell’altro quanto il timore di incrinarla.

Forse per questo gli psicanalisti, nella loro delicata funzione di lenitivi sociali, cercano di liberare il cliente dal senso di colpa, soprattutto se fondato: non solo nell’interesse dell’individuo, ma della coppia.

Nella pratica della terapia sperimentano infatti che il rimorso è improduttivo. Ma negli oscuri anfratti della teoria hanno verosimilmente scoperto che esso è comunque sbagliato.

Il loro ideale di comportamento non deve essere il coniuge che, dopo avere tradito, offre all’altro doni riparatori, ma quello che continua a trattarlo male, come faceva prima. E il loro modello di distacco si avvicina probabilmente a quel personaggio di Ambrose Bierce, che comincia così un suo racconto:

«Una mattina di buon’ora del giugno 1872 uccisi mio padre – un atto che, a quel tempo, mi fece una profonda impressione.»

Gadda invece procede per accumulazione.

Lascia che i rimorsi lo prendano alla gola, finché riesca a liberarsene con ciò che più paventa: una lettera! Scrive mosso da quella spinta che gli esperti dell’autenticità non si stancano di evocare: la necessità! E, anche se questa volta il termine va inteso non nel senso della esigenza, ma della costrizione, non si può neanche in questa accezione negare la sua efficacia. È una sfortuna che si dia il meglio quando si è in difficoltà. Non si sa se augurarselo. L’ex campione mondiale degli scacchi, Boris Spasskij, confessava di sentirsi attratto meno dalla vittoria, perché dalla sconfitta imparava di più. E, quando si scrive, l’unica salvezza è forse una forma sommessa, ma tenace, di disperazione.

Gadda in colpa ritrova la felicità della scrittura. Già nel 1936, definendo il disagio per i propri ritardi, scopre una parola: panico. E poiché, come osservava Oscar Wilde, l’arte dice la verità solo esagerandola, nel 1938 (27 giugno) i suoi rimorsi diventano «infiniti». Ma anche la sua prosa diventa immaginosa: «al solito si è venuto accumulando in me, dopo le sue amichevoli, fraterne lettere, il nembo dei rimorsi, sospinto dalla bufera ciclonica della vergogna».

Nell’assillo di trovare una scusa ragionevole per un comportamento che stenta a sembrarlo, Gadda ricorre al mezzo più sicuro, anche se non universalmente apprezzato: l’invenzione. Il termine andrebbe però riscoperto nella sua cangiante etimologia, di rinvenire: nella finzione sì, ma anche nella realtà.

Gadda mente, è probabile, quando paragona il rapporto con l’amica al rapporto con la pagina. Ma intanto, come spesso avviene quando si mente, scopre una verità possibile, ed estensibile ad altri casi, anziché una verità circoscritta, e forse neppure applicabile al caso particolare:

«Ho verso di Lei rimorsi infiniti; il senso d’una inciviltà che non mi è abituale, e che si spiega solo con quel corso di oscure angosce e di traumi che neppure avvertiamo, quasi, ma che ci privano d’una persuasione necessaria a compiere gli atti più sostanziali. Vivacchiamo così tra noie ed espedienti, respingendo la verità e la necessità. Perché? Non sono passati forse degli anni senza una pagina? E perché se la pagina è la cosa più urgente, più mia? Perché andavo ad ogni inezia, a pagar la tassa, a ordinare il vestito, a far risuolare le scarpe, trascurando il “compito”, l’unico e il più gradito? Se anche angoscioso. Ho vergogna di me. Il tempo si è dissolto. Quanto dico è schema, ma verità. Se ho trascurato la pagina, le sembrerà meno brutto che abbia taciuto con Lei.»

E poiché la risposta di Lucia Rodocanachi non doveva mostrare troppa condiscendenza, Gadda nella lettera successiva si avvicina ancora di più a se stesso, con pagine, e non ce n’è poche in questo epistolario, di cupa grandezza:

«Io non so che dire: ho tentato di giustificare (non dirò scusare) psicologicamente il mio torpido silenzio: e sulla sincerità dei motivi, come del resto sulla loro stranezza, la pregherei di non aver dubbi. La realtà è: che sotto apparenze normali, consuete, bonarie, insomma passabili, la mia vita si svolge nella disperazione e nella stanchezza: un certo pudore estetico mi vieta di far pompa della mia croce: e il prossimo, alla stregua della mia faccia, mi giudica un volgare turista.»

Le varianti sono talora manieristiche, tra sofferenze e delizie. E, dopo lustri di «inadempienze d’inchiostro» e di «lettere espiatorie», si arriva, nella lettera del 29 maggio 1946, alla consapevolezza del genere:

«È ormai un “cànone” letterario, per me, che le mie… lettere si aprano con delle scuse.»

Ma non mancano, nel corso degli anni, illuminazioni tetre, come nella lettera del 30 novembre 1942:

«Mi sento sopraffatto da tutta quella carta, e da tutto quello scrivere che dovrei, e a cui non arrivo. Amici anche cari attendono mie risposte da mesi: solo la luce e il gas e l’esattoria civica non attendono.»

Dove l’involontaria crudezza dell’associazione tra gli amici e l’esattoria non è attenuata dalla loro maggiore pazienza.

A ventidue anni dalla prima domanda di perdono, Gadda, il 12 maggio 1957, dopo «un mese di afasia», chiede, con quella terribile, fatale continuità di carattere che ci fa intravvedere nel bambino l’adulto e nell’adulto il bambino «un “forfait” per le molte e troppe sue […] colpe».

Solo nell’ultima lettera non è in ritardo.

Lucia Rodocanachi gli ha scritto giovedì 21 maggio 1964 e lui le risponde sabato 29. Non riesce però a non giustificarsi:

«Solo oggi ho modo e possibilità di rispondere.»

Verso la fine della lettera dice:

«Se non morirò, Le riscriverò.»

Il suo commiato mi ricorda Svevo, nella Coscienza di Zeno, quando Ada sta per salpare e il protagonista la guarda dal molo:

«Io ebbi gli occhi offuscati dalle lacrime. Ecco ch’essa ci abbandonava e che mai più avrei potuto provarle la mia innocenza.»

[1983]