Scacchi e paranoia

Tra i pensieri che turbarono il martire boemo Jan Hus, poco prima che le sue ceneri, sottratte al rogo, venissero disperse nella corrente del Reno, ci fu quello di avere dedicato agli scacchi troppo tempo.

È probabile però che i suoi rimorsi riguardassero non la quantità, ma la qualità di quel tempo. È questo infatti un pensiero ricorrente, anche se a volte in forme reticenti, negli scacchisti. Né c’è bisogno di occasioni così drammatiche (ma anche così privilegiate) come l’attesa della morte, perché tale inquietudine si manifesti. Si direbbe anzi che gli scacchisti la provino in continuità e che il loro equilibrio interiore ne sia condizionato.

Il problema è quello fondamentale della distanza, cioè della relazione con il gioco: mobile e inafferrabile, esso elude tutti i tentativi di chiuderlo in quella gabbia, in cui invece si aggira il giocatore. E le risposte degli interessati orientano solo se le si capovolge.

I dilettanti dei circoli, quelli che gli anglosassoni chiamano woodpushers, gli spingilegno, si rifugiano in sorrisi deboli di difesa: «È un divertimento».

Ma anche la voracità aggressiva di alcuni campioni, come Fischer, che ostentano una concentrazione esclusiva sugli scacchi e ne fanno anzi un segno di superiorità sugli avversari, non è del tutto attendibile.

Tra questi due poli si muovono, in una miriade di posizioni intermedie, gli altri giocatori, che cercano tutti di delimitare, con un rigore pari all’apprensione, lo spazio che gli scacchi occupano nella loro vita.

Questa complicazione è tipica degli scacchi e non trova riscontro nelle teorie classiche del gioco, inteso come attività “artistica”, disinteressata e libera, da Kant a Schiller a Froebel. E se nell’Ottocento Herder e nel Novecento Huizinga si opposero alla contaminazione del gioco con l’arte, rivendicando a quest’ultima la serietà, essi trovarono inconsapevoli e imprevedibili alleati proprio nel campo degli scacchi: in campioni cioè che negavano la serietà del gioco, temendone l’invadenza tirannica e per così dire ideologica.

Morphy, ad esempio, il più geniale tra i giocatori dell’Ottocento, aveva fobia per il professionismo. E la sua rivendicazione del dilettantismo, e anche dei limiti del gioco, ha l’inflessibilità di una paranoia in penombra:

«Gli scacchi non sono mai stati né possono essere che uno svago. Non si dovrebbe indulgere in esso a detrimento di altre e più serie occupazioni, né dovrebbe assorbire o accaparrarsi i pensieri dei suoi adoratori: al contrario, dovrebbe essere tenuto in secondo piano, confinato entro i limiti che gli sono propri. Come puro gioco, come distensione nei duri impegni della vita è degno del massimo elogio.»

E Howard Staunton, l’avversario che in Europa, con atteggiamento sprezzante quanto vile, evitò sempre di incontrarlo, adduceva un pretesto illuminante per occultare la sua paura del gioco (la paura di ciò che avrebbe significato per lui un insuccesso con Morphy): i suoi studi seri su Shakespeare, che gli impedivano di allenarsi.

Un campione singolare, sotto questo aspetto, è il sovietico Boris Spasskij, cui Fischer ha tolto, nel 1972, il titolo mondiale: dotato di una inconsueta civiltà, misurato e umano, ha sempre cercato di circoscrivere l’influenza degli scacchi, così che nell’incontro di Reykjavik è parso difendere, più che il titolo, il distacco dal titolo. In patria è stato accusato di scarso spirito combattivo. E mentre tutti scrivono libri sulle partite vinte, lui ne sta scrivendo uno su quelle perse.

Spasskij appartiene dunque a quelli che Fine, nel suo saggio psicanalitico sugli scacchisti, definisce gli «anti-eroi»: i campioni che, anziché assecondare le fantasie di onnipotenza scatenate dal gioco, cercano di resistervi, sviluppando in senso armonico se stessi. Ma la sua ansia, celata sotto l’impassibilità, testimonia la difficoltà di un simile tentativo.

A chiedersi le ragioni di un fascino così catturante e rischioso si finirebbe con il cadere negli elogia dei vecchi manuali, dove la scienza convolava a mistiche quanto imbarazzanti nozze con l’arte.

Ma è certo che gli scacchi, pur conservando del gioco la sorpresa, sono quasi riusciti a eliderne la casualità. L’incidenza di quest’ultima, in una competizione, è generalmente minima, anche se i campioni, quando perdono, l’hanno sempre resa smisurata: il clima cubano per Lasker, quando soccombette a Capablanca, la salute per quasi tutti.

Smisurato è invece, alle spalle, il retroterra della teoria.

Nessun gioco può vantare altrettanti secoli di critica, con migliaia di testi e milioni di analisi, con varianti elaborate nel Cinquecento e riscoperte magari in una notte insonne, nel corso di un torneo.

Gli scacchi sono l’unico gioco in cui una tradizione secolare si configura nel senso indicato da Eliot per la letteratura: immenso patrimonio che riprende a rivivere, riattualizzato ogni volta dai grandi giocatori, che vi attingono esempi, riflessioni, stimoli.

Non stupisce perciò che all’immenso sviluppo della critica letteraria negli ultimi tre secoli abbia corrisposto un dilatarsi altrettanto stupefacente dell’analisi scacchistica: tanto che anche qui si parla non solo di classico e romantico, di tradizione e avanguardia, ma anche di stile capitalistico e di scuola sovietica, di stile individualistico e di paura del deviazionismo.

Né sorprendono le sensazioni illusorie di avere ormai esplorato tutto il territorio ed esaurito ogni combinazione e variante, con conseguente «morte del romanzo» ovvero paralisi del gioco.

Nonostante che le prime dieci mosse possano arrivare a una cifra di trentatré numeri, l’affermazione che «tutto è già stato detto» – che si siano lus tous les livres – ricorre periodica, sempre destinata a essere smentita dall’esperienza: uomini di coraggio e di fantasia come Nimzovitch, Alechin, Tal o Fischer riscoprono inaspettatamente varianti superate o dilatano le dimensioni psicologiche del gioco, disorientando l’avversario con sacrifici eretici o riuscendo, nella tensione di una partita, a sfondare il muro delle abitudini mentali.

Lottare con il gioco, oltre che con gli avversari, è un compito a volte troppo logorante per gli stessi campioni: e il saggio di Fine ne offre una documentazione impressionante. La parte più avvincente del suo testo è infatti la descrizione drammatica dei loro conflitti. Meno convincente quella in cui l’aggressività, che gli scacchi esasperano e insieme incanalano, viene ricondotta a cause esplicative.

Se è giusto infatti il principio enunciato da Horkheimer, che la psicanalisi è vera solo quando esagera, gli epigoni di Freud l’hanno applicato alla lettera, trasformando ipotesi di lavoro in dogmi e catalogando l’inconscio come un museo.

E quanto alla loro pretesa neutralità, si analizzi l’atteggiamento dello stesso Fine verso Fischer, per vedere come l’aggressività, anche al di fuori degli scacchi, trovi modi ingegnosi e imparziali per esprimersi.

Ma questo in fondo è un segno rassicurante e giustifica che la loro scienza si chiami umana.

[1976]