Appunti su Solmi
Vorrei, in questi appunti su Sergio Solmi, non tanto delineare il suo percorso, quanto avvicinare il significato della sua presenza misteriosa.
Si sentiva, in sua compagnia, che l’essenziale non era ciò che diceva e faceva, ma ciò che era. Parole e gesti lo esprimevano in modo indiretto, allusivo, metaforico. Ci affascinava in lui non il mutamento, ma la continuità. Per usare una espressione di Nietzsche, “la costanza di fronte al problema”.
Il problema, per Solmi, era la convergenza tra vivere e conoscere. Non c’era polarità tra i due termini né contrapposizione. La sua classicità era questa. La salute di Montaigne era anche la sua.
È stato “figlio del suo tempo”, ma non pateticamente aggrappato a questa paternità, come la maggior parte dei suoi simili (ironia delle parole), che teme solamente di restare orfana. Non lo attirava il vitalismo, che scopre nell’esperienza solo quello che sa già, né il classicismo, che sa già quello che c’è da scoprire. E non cercava continuamente di “delimitare il campo”, espressione che, mentre suggerisce un atteggiamento difensivo, ne occulta uno aggressivo, altrettanto inadeguato. Cercava semmai di ampliarlo.
Seguiva, con una curiosità vigile e una partecipazione intensa, quello che accadeva agli altri. Ma il suo interesse per sé era altrettanto generoso. Siamo in genere poveri di questo egoismo salutare. Abbondiamo invece di letterati che scambiano i loro piccoli dolori per i mali della società o si occupano dei secondi per dimenticare i primi e finiscono per non capire né gli uni né gli altri. Solmi cercava la massima trasparenza con se stesso, sapendo che era il modo più serio di parlare agli altri. Ma, quando si occupava degli altri, lo faceva con un duplice movimento, di identificazione e di distacco, che rimane esemplare.
Si è spesso parlato, al suo riguardo, di “razionalità”, ma il chiarimento preliminare e aleatorio del termine esigerebbe tanto tempo da pregiudicare quello del suo impiego. «L’unica cosa necessaria è rettificare i nomi», risponde Confucio quando gli chiedono il primo provvedimento che adotterà nell’amministrare lo Stato di Wei: ma da allora non si è finito. Il termine può dunque essere accettato, purché vi si includa una inclinazione profonda alla rêverie, al sogno a occhi aperti, nel senso che è stato illustrato da Bachelard, quando ha scritto che «per avere qualche idea bisogna amare molto le chimere». Basti pensare al Sogno dell’antico Egitto e alla prefazione del Milione, in cui il viaggio nel passato diventa un ritorno onirico alla biblioteca-paradiso dell’infanzia.
La razionalità di Solmi includeva inoltre una attrazione per il fantastico che lo portò a studiare, con straordinaria finezza, un genere di letteratura “popolare” (ma non ancora tale da noi) come la fantascienza: evento abbastanza insolito in Italia, dove la resa all’evidenza è il contributo profetico più diffuso tra gli intellettuali. Attraverso continue, meditate distinzioni, Solmi tesseva una rete fittissima di relazioni tra romanzo poliziesco e Roussel, tra feuilleton e mito della scienza, tra utopia e surrealismo.
Infine la sua razionalità non escludeva una consonanza enigmatica con l’orizzonte trascendente. Se già nella fantascienza coglieva, sotto la superficie razionalistica, «una inquietudine di natura mistico-religiosa», la sua capacità di percepire la dimensione metafisica si manifesta nella predilezione per il Daumal del Monte Analogo: dove romanzo di avventure e percorso mistico, verifica sperimentale ed esperienza incomunicabile trovano il loro punto di incontro.
Dalle Meditazioni sullo Scorpione:
«Spesso l’antica simpatia mi risospinge allo stagno delle germinazioni buie e felici. Amo gli esseri sepolti e mezzo increati del mare, i mostri ciechi, gli orridi abitatori delle paludi, gli organismi in cui la vita appena trasale e s’iscrive nella materia in scatti leggeri, in silenziose contorsioni, in coloriti smaglianti e funebri. Amo le bisce acquaiole, il loro moto agile e stanco, dietro la vetrina dell’acquario, dove riaffiora, incerto come l’ombra del palombaro nella campana sottomarina, il volto attonito della mia infanzia.»
Solmi non si è mai atteggiato a maestro, appunto perché lo era. Lo era in un suo modo elusivo e discreto, sommesso e ironico. Sapeva che una certa «lentezza maldestra» è connaturata alla riflessione e non ambiva alla eloquenza di quelli che chiamava «i discettatori implacabili». Non però che fosse modesto, almeno in quella accezione, di mansuetudine ottusa, che molti attribuiscono al termine. Non c’è uomo che sia più alto della media, ha scritto una volta Schopenhauer, e che, se non altro quando cammina su un marciapiede affollato, non se ne accorga. Il punto è l’importanza che vi si attribuisce. In questo senso Solmi era modesto: più che a paragonarsi con gli altri, tendeva a confrontarsi con l’esperienza.
È stato uno dei pochi che ha saputo invecchiare. Molti colgono nella vecchiaia l’occasione – l’ultima – di essere finalmente se stessi: e svelano allora trivialità e cinismo, magari davanti a spettatori rapiti per esservi stati ammessi. Credo che per invecchiare nel senso non della perdita, ma dell’accrescimento occorra una grazia nativa, una attesa e uno stupore infantili, una curiosità per il gioco. Dovessi fare altri nomi, da accostare in questo senso a Solmi, direi Palazzeschi, Savinio.
Il modo per evitare, parlando di uno scrittore scomparso, di cadere nell’agiografia, è quello di pensare non a lui, ma a noi. A quello che veramente di lui ci riguarda. Fa un effetto curioso, leggendo le commemorazioni dei letterati, vederle trasformate in elogi di virtù impervie o di qualità che non si desidera emulare: medaglioni moralistici, dove la letteratura diventa la palestra, gelida e malinconica, di uomini probi.
Solmi ha pagato, con una posizione appartata, le sue scelte. È probabile che del suo dorato isolamento non abbia molto sofferto. Ed è vero che si può vivere in altri modi un rapporto vitale con la letteratura. Il problema è se il suo modo di vivere tale rapporto possa riguardarci. Io credo che mai come in questo periodo possa riguardarci.
L’esercizio della critica ha sempre avuto per Solmi il significato di una esperienza personale, lontana sia da un professionalismo neutrale, che poi tale non è mai, sia da una immediatezza arbitraria, che scambia gli umori per valutazioni. La sua critica era il viaggio in mondi possibili che riconosceva come familiari.
Certo la sua vocazione non avrebbe saputo accordarsi con le costrizioni della comune recensione, né assolvere abitualmente tale compito, che pure è prezioso. Ma il suo modo di fare la critica misurandola ogni volta con la propria necessità interiore è l’unico che, sottraendola alla vanità, alla adulazione, alla menzogna, possa restituirle oggi un significato essenziale.
C’era, nella prosa critica di Solmi, una sorta di arrendevolezza, delicata e inimitabile, alla trasparenza delle proprie reazioni e alle scelte del proprio gusto, che era indifferente alle mode e capace di percepire l’autonomia e il timbro di una voce nella rete dei nessi culturali che la presuppongono.
A distanza di tempo si rileggeva e spesso apportava ritocchi ai propri giudizi, conservando un’intima fedeltà a se stesso proprio nell’aderire al continuo mutamento delle prospettive personali e storiche. E la semplicità luminosa del suo linguaggio portava a compimento la definizione di Daumal:
«Lo stile è l’impronta di ciò che si è in ciò che si fa.»
Rileggendo Solmi si ripensano le domande elementari sulla letteratura, quelle che ci assediano silenziose e che vengono posposte a quelle, banali, ma rumorose, che le soverchiano.
Oggi si usano spesso le virgolette non, come un tempo, per indicare l’uso eccentrico di una parola, ma quello letterale, che l’abuso ha tradito. Autentico, ad esempio, non lo si può ormai usare senza virgolette. Nel caso di Solmi le virgolette dovrebbero essere continue: ricerca, silenzio, stile, trasparenza, ombra.
Uno dei compiti che la critica dovrà affrontare è il posto che Solmi occupa nella poesia del Novecento. Non nella prospettiva cimiteriale, dei loculi disposti gerarchicamente dentro il colombario, ma per accedere al luogo dove essa abita, dove essa è il genius loci: luogo solitario, strano, enigmatico. Si è voluto ancorarla ai nomi di Leopardi, di Montale: accostamenti leciti, se non fossero stati al contempo riduttivi. C’è in Solmi un nitore misterioso, una evidenza sfuggente, una mobilità inafferrabile, che ne fanno una delle figure più originali di cui ci si possa ricordare.
[1982]