Come ho perso la mia partita con gli scacchi

Da ragazzo ho sognato di diventare un campione di scacchi.

I sogni notturni pare che durino pochi minuti, mentre quelli diurni, a occhi aperti e mente sveglia, possono durare di più, a volte una vita.

Il mio è durato due anni, tra i quattordici e i sedici, ed era cominciato quando avevo battuto il mio maestro.

Tristo è il discepolo che non lo avanza, ha scritto Leonardo.

Si trattava, nel caso particolare, di un amico, di cui non avevo valutato i limiti scacchistici.

Avevo poi affrontato mio fratello, che durante la partita chiedeva ancora schiarimenti sulle regole, ed ero riuscito a batterlo alla cieca, ossia con gli occhi bendati. Mio fratello era stupefatto che si potesse giocare su una scacchiera mentale e – facile, almeno allora, all’entusiasmo – si era lasciato dare, come affascinato, lo scacco matto.

Non conoscevo ancora l’aurea regola degli scacchi, che per migliorare bisogna giocare con avversari superiori, ma solo di poco: se lo sono troppo si è annientati senza capire perché, se sono inferiori non si impara.

Io invece, frequentando avversari deboli, li vincevo, ma perdevo il senso della realtà. Leggendo inoltre le biografie dei campioni, scoprivo coincidenze sorprendenti con la mia, almeno per gli esordi.

Vedevo meno bene le divergenze, che invece erano essenziali. Ma è miopia frequente.

Una differenza decisiva, ad esempio, era che un campione non placa mai la sua fame di vittorie, mentre la mia si saziava troppo presto.

Solo una voracità smisurata può spiegare il record delle partite simultanee, stabilito l’anno scorso a Reykjavik dal cecoslovacco Hort: un uomo solo contro 550 scacchiere, 20 chilometri percorsi in 25 ore, passando da un tavolo all’altro, e dietro a ogni tavolo un giocatore che pensava ad una cosa sola: batterlo.

Del resto basta girare le sale di un circolo scacchistico per avvertirvi, debitamente mascherato da sorrisi e silenzi, un agonismo esasperato.

La prima volta che ci sono andato, sempre da ragazzo, è stata una esperienza che non dimentico.

Mi siedo a una scacchiera, ansioso e insieme timoroso di verificare la mia preparazione, teorica e solitaria, e subito si siede di fronte a me un signore anziano, con gli occhi vividi, che mi chiede: «Sai giocare?». «Sì.» Mi addita i pezzi: «Bianchi o neri?». «Neri» rispondo, lasciandogli il vantaggio della prima mossa, con quella generosità che la gioventù sceglie e la inesperienza alimenta.

Dire come io gioco è difficile, perché non sono solo io a perdere, ma un gruppo di spettatori alle mie spalle, che seguono, con consigli e deprecazioni, le mie mosse.

Sono disorientati e soprattutto irritati dal mio gioco, che alterna mosse corrette a sviste e ingenuità.

Privi della indulgenza dei maestri e soggetti probabilmente, anche se un po’ meno, alle mie stesse distrazioni, me le imputano come se fossero volontarie, mi urlano nelle orecchie: «Ma che cosa fai?».

Io sono sudato, perdere dispiace, ma perdere anche per conto degli altri è una esperienza più dura.

Quando abbandono, mi sento infinitamente sollevato e anche loro, credo.

Eppure quella prova non era bastata, forse era stata così violenta, che avevo sperato subito di cancellarla, come quei pugili che, quando vengono sorpresi da un colpo, fanno cenno che non è niente, reazione che denuncia il contrario.

Così telefonai, per avere un consiglio, al maestro Ferrantes, che dirigeva e dirige tuttora «L’Italia scacchistica», e gli chiesi un incontro.

Una mattina di luglio, afosa, umida, entrai nell’anticamera freschissima di casa sua.

Credo di avergli domandato che cosa bisognava fare per diventare un campione e lui mi rispose: «Studiare e giocare molte ore al giorno».

Mi citò una frase di Rubinstein, che se un pianista dà concerti senza allenarsi, il primo giorno se ne accorge solo lui, il secondo qualche competente, il terzo tutti.

Poi mi mostrò la sua biblioteca scacchistica.

Un titolo mi fece impressione: Strategia di avamposti.

«Di che cosa parla?» gli chiesi.

«Parla dell’avanzamento dei pedoni nel gioco moderno.»

Sentii confusamente, a quel punto, che per me la partita era chiusa.

Da allora gli scacchi sono diventati una passione indiretta, come un amore che si può rimpiangere, ma non riprovare.

È sempre difficile avere con il gioco un rapporto equilibrato.

L’atteggiamento ideale forse l’ha definito, nelle sue Lettere spirituali, quella singolare figura di scettico credente che è stato Giuseppe Rensi:

«Bisogna per tutta la vita aver qualcosa di analogo a quel ch’è giuoco per i ragazzi; qualcosa che ci interessi come una cosa seria a cui dedicare una seria attività, e che nell’istesso tempo ci lasci l’avvertimento che non è nulla di essenzialmente importante.»

Ma come tutti gli ideali, vale soprattutto a farci misurare quanto ce ne scostiamo.

[1978]