Borges contro «Borges»

Secondo il suo amico Emil Rodriguez Monegal, che gli ha dedicato nel 1978 una interessante biografia, è stato dopo i cinquant’anni che Borges è diventato Borges: è diventato cioè una figura letteraria, una maschera semplificata e riconoscibile.

Rivedendolo nel 1969, a distanza di anni, in una università dell’Oklahoma, oggetto di culto da parte delle nuove generazioni, il suo biografo stenta a ritrovare in lui il maestro “quasi segreto” che lo accompagnava al tramonto nei suburbi di Buenos Aires e gli mostrava lo sfondo, ormai mutato, della sua infanzia e delle sue storie mitiche.

Borges però, a questa confessione dell’amico alla mensa dell’università, risponde che in fondo non stanno facendo niente di molto diverso: seduti in un caffè parlano di letteratura in mezzo a un deserto.

Borges continua dunque a essere vivo dentro Borges, ma deve lottare contro di lui.

Lo confessa in una pagina dell’Artefice:

«A poco a poco vado cedendogli tutto, benché conosca la sua perversa abitudine di falsificare e di ingigantire. Spinoza capì che tutte le cose vogliono perseverare nel loro essere; la pietra vuole essere eternamente pietra e la tigre, tigre. Io resterò in Borges, non in me (anche se io sono qualcuno), ma mi riconosco meno nei suoi libri che in molti altri o nell’arpeggio elaborato di una chitarra. Anni fa cercai di liberarmi di lui e passai dalle mitologie dei sobborghi ai giochi con il tempo e con l’infinito, ma questi giochi ormai sono di Borges e dovrò ideare altre cose. Così la mia vita è una fuga e io perdo ogni cosa e ogni cosa appartiene all’oblio, o all’altro. Non so chi dei due scriva questa pagina.»

Questa sensazione di sdoppiamento la provano anche i lettori di Borges, soprattutto quanti l’hanno avvicinato quando era ancora un enigma da decifrare e non un luogo comune da ripensare in solitudine.

Ma lo sdoppiamento è vero solo in parte. Lo prova anche La cifra, l’ultima sua raccolta di poesie, curata da Domenico Porzio per lo Specchio, in una versione di rara finezza e aderenza espressiva.

Certo Borges sembra più spesso riconoscere che scoprire le pareti del labirinto dentro cui si addentra: procede a tentoni, con il suo occhio cieco, ma seguendo il filo di una Arianna invisibile, che è la memoria del suo mondo.

Eppure in questo ritorno a se stesso, in questo misurarsi non solo con il Minotauro, ma con Teseo che cerca di raggiungerlo, ovvero con l’altro io ormai remoto nel tempo, Borges trova nuove coincidenze segrete, nuove deformazioni nel gioco dei suoi specchi. E se si vuole ricorrere al termine di manierismo, allora bisogna intenderlo nella accezione “forte”, di un rapporto ambiguo e vitale con una forma che è diventata sì contenuto, ma che appaga soltanto se la si modifica: una totalità illusoria, una felicità retrospettiva, una sofferenza intermittente.

Il linguaggio naturalmente tradisce, sotto lo smalto della superficie, queste incrinature. Ne sono indizio alcune figure rettoriche che Borges ha sempre usato, ma che qui trovano una intensificazione significativa.

Alludo ad esempio al procedimento della “enumerazione caotica”, l’unico che il disordine della nostra visione sembra consentire all’ordine della poesia: punto di incontro tra la fuga paranoica delle idee e il gusto delle simmetrie e dei parallelismi. Le enumerazioni ricorrenti nella Cifra appaiono come una sorta di indice finale, di ricapitolazione generale non solo della sterminata Biblioteca di Babele, ma di quell’opera che aspira a contenerla, l’enciclopedia, la cui etimologia suggerisce appunto la circolarità, perfetta e irreale, del sapere.

L’attrazione di Borges per le enciclopedie nasce infatti dal loro tentativo maniacale di dare ordine al disordine, di trasformare il caos in cosmo.

Quando da ragazzo andava alla sera alla Biblioteca Nazionale di Buenos Aires, di cui probabilmente non immaginava sarebbe diventato, quarant’anni dopo, il direttore, era, come ha confessato in una intervista a Ronald Christ, «troppo timido per chiedere un libro»: così sceglieva un volume della Enciclopedia Britannica.

E quando vinse a trent’anni il secondo premio in un concorso letterario municipale del 1929, usò il denaro per comperarne una copia di seconda mano. In una intervista del 1967 ha dichiarato:

«Se l’avessi letta tutta, credo che saprei veramente molto. Davvero non credo che nessuno al mondo abbia una conoscenza pari a quella di una enciclopedia. La maggior parte dei collaboratori non sanno quello che hanno scritto gli altri, perciò, nel complesso, le enciclopedie sono più sapienti degli individui.»

C’è qualcosa in queste affermazioni, a parte la debita, dissimulata ironia, che merita di essere approfondito: ed è la visione suicida del sapere, inteso come una quantità che si estende all’infinito e non come una qualità che si riduce alla persona.

L’essenziale non è quello che si sa, ma quello che si è. Invece l’aspirazione a inghiottire l’universo attraverso i libri, che non ho difficoltà a capire anche perché la sento anch’io, ha in sé qualcosa di vagamente demenziale, come di un quieto delirio. Mi ricorda un epitaffio nella Antologia di Spoon River:

La mia lingua non poteva dire

quello che mi tumultuava dentro

e il mio villaggio mi scambiò per scemo.

Eppure all’inizio c’era una visione chiara,

un proposito alto e incalzante nella mia anima,

che mi spinse a cercare di imparare a memoria

l’Enciclopedia Britannica!

Potrebbe apparire singolare che proprio Borges, viaggiatore nei paesi del fantastico, faccia della enciclopedia, cioè del mausoleo della ragione illuministica, il principio e la fine del suo percorso.

Ma la cosa appare meno paradossale se si riflette che la sua enciclopedia è sì l’edificazione del sapere, ma insieme la sua dissoluzione.

Questa percezione sia del valore della cultura sia della sua impotenza a modificare chi la possiede e di dare un significato alla sua vita, non alimenta solo lo sfacelo immaginoso di Borges, ma la crisi della civiltà contemporanea: e non stupisce che questa si riconosca in lui.

Anche a un’altra ragione si deve, forse, se la tecnica dell’enumerazione occupa tanto spazio nella Cifra: la cecità del suo autore.

L’inventario è un alveo in cui si incanala più agevolmente la corrente dei versi.

Auden consigliava, come apprendistato poetico, la recitazione delle genealogie della Bibbia e il Catalogo delle Navi dell’Iliade. E la dettatura dei versi favorisce in Borges la riscoperta della loro originaria oralità.

I suoi elenchi formulari, oracolari, ipnotici sembrano rinviare alla parola poetica dei primordi, pronunciata in un silenzio che ignorava la scrittura.

Ma oltre alle varianti manieristiche dei propri temi, spesso in chiave autoironica e dissonante, si avverte, in alcune delle sue ultime poesie, un pathos nuovo, cupo, quasi una sfida estrema alla indecifrabilità del mondo.

Nella lirica intitolata La trama, quest’ultima si configura come il grande albero delle cause e degli effetti:

L’universo è uno dei suoi nomi.

Nessuno lo ha mai visto

e nessun uomo può vedere altro.

Raramente, come in questi versi, il divario tra conoscere e sapere, tra analisi e sintesi viene proiettato su uno sfondo metafisico insieme certo e aleatorio, visibile e invisibile.

La morte, in questo orizzonte, viene affrontata con un coraggio che non è il proprio, ma è degli altri, di quelli che l’hanno già sfidata a viso aperto, come Juan Muraña,

l’uomo che seppe affrontare

la morte con un coltello.

Borges rifrange il coraggio di Juan Muraña nello specchio di Evaristo Carriego, per rifletterlo infine nel proprio:

Lo ricordava Carriego

e io lo ricordo ora.

È meglio pensare agli altri

quando si avvicina l’ora.

Ma in un’altra poesia, intitolata L’apice, affiora la verità opposta:

Non ti potrà salvare ciò che scrissero

coloro che la tua paura implora;

tu non sei gli altri.

In questa verità molteplice, Borges continua a vincere Borges.

[1983]