L’altro Morselli

Guido Morselli, per la maggior parte dei lettori, è stato, prima che un autore, un caso.

Vorrei muovere da questa parola, che segna l’inizio del suo percorso postumo e ne orienta la direzione.

Caso è una parola dai due volti. Da un lato evoca l’evento eccezionale, dall’altro quello fortuito. È il contesto a decidere il senso. E per il contesto – ossia per la società letteraria italiana – l’immagine di Morselli si è sempre sovrapposta, come in controluce, con un volto solo della parola.

Apro una piccola parentesi, attratto da un fatale interesse per il linguaggio. “Società letteraria italiana” è una espressione che non ha bisogno di aggettivi. Li ha già, per così dire, incorporati. Basta ripetere queste tre parole, “società” “letteraria” “italiana” per constatare come il senso sia ogni volta imbarazzante.

Sulle vicende editoriali che hanno trasformato il caso di Morselli nel caso Morselli, preferisco non indugiare: non perché non meritino attenzione, ma perché l’hanno avuta. E la prospettiva spesso unilaterale in cui si è affrontato il problema non ha favorito il suo approfondimento.

Morselli è diventato una proiezione esemplare dello Scrittore Postumo, respinto in vita dalla incomprensione dei giudici. Come tale è diventato il centro di quella geografia immaginaria in cui avvengono, o meglio non avvengono, gli incontri tra editori e autori: minaccia incombente per i primi e alibi consolatorio per i secondi, anche se questo non ha purtroppo migliorato negli uni la professionalità e negli altri lo stile.

Non mi sembra però che, aggirandosi nell’angusto spazio dell’errore occasionale, si possa sperare di uscirne.

L’errore va affrontato nel suo aspetto ricorrente, ciclico, permanente. Solo così perderà i suoi connotati circoscritti, per acquistare un significato più importante, che può riguardarci da vicino.

Se si riflette infatti sull’altro volto, quello fortuito, della parola caso, la domanda che dovremmo porci è se la sorte di Morselli sia stata casuale. Penso di no. Io credo che, anziché parlare di caso Morselli, bisognerebbe parlare di regola Morselli.

Non si tratta solo della resistenza al nuovo, che forma la barriera naturale, e talora proficua, di chi lo persegue: questo sarebbe fenomeno generale. “Voglio conoscere solo quello che so già” è la frase in cui temo che molti, se fossero sinceri e soprattutto lucidi, si riconoscerebbero. La sordità soddisfatta di quello che sembrava il pubblico elettivo ha generato l’infelicità di molti artisti, «les pauvres enfants», come li ha compianti Apollinaire, in un momento di solidarietà con loro e con se stesso.

Che i giovani preferiscano il nuovo non contraddice la regola, anzi la conferma. Non possono difendere quello che non posseggono. Ma è questione di anni.

Ricordo le mie prime reazioni alla lettura di Morselli in manoscritto, nel 1973 (si trattava di Contro-passato prossimo): non erano state particolari, ma questa era già una reazione significativa. In genere si percepiscono errori e dissonanze.

Procedendo nella lettura ero sempre più attratto da quella precisione visionaria che distingue un talento narrativo. Non che provassi entusiasmo, come sarebbe facile dire, ma tradendo la verità di quella esperienza; provavo invece un interesse strano, come se il racconto in qualche modo mi riguardasse: che è poi la meta più ambiziosa che perseguono i narratori.

Del resto, di fronte a un autore totalmente sconosciuto – e l’ho osservato in altri – l’adesione si manifesta generalmente in modi attenuati, quando non reticenti. Ed è fatale che sia così, anche perché l’attrazione, quanto più è forte e imprevista, tanto più mette in moto resistenze.

Questi meccanismi complicano ulteriormente le cose nei rapporti letterari, perché sia la sordità naturale di taluni sia l’orecchio finissimo di altri possono concorrere alla medesima riluttanza.

C’è da sperare, a parte qualche altro ingrediente, in un malinconico connubio di pazienza e di passività, che non a caso nascono dalla stessa radice.

Nel caso di Morselli sono per altro subentrati alcuni pregiudizi, tenaci quanto occulti, sulla narrativa. Le resistenze che hanno ritardato il suo riconoscimento – e che spiegano la sua maggiore diffusione in culture straniere – risalgono probabilmente anche a un’altra causa: la deviazione di Morselli dalla linea del romanzo italiano.

Ma c’è un altro particolare che rende ancora più singolare il suo reato: che questa linea non esiste.

Considerare infatti linea tradizionale il romanzo verista, con la coda del neorealismo, sarebbe forse riduttivo: e dopo avere tardato a riconoscere la grandezza di Verga, trasformarlo in modello rischierebbe di essere un risarcimento sproporzionato.

Quanto al romanzo storico dopo Manzoni, è oggetto di visite periodiche a orari fissi.

E la prosa agrolirica di Tommaseo e di lungo (a volte troppo) respiro di Nievo e araldica e dispendiosa di d’Annunzio riaffiorano a tratti nel romanzo realistico-borghese, che però trae il suo corso da fonti d’oltralpe.

Morselli è andato ad aggiungersi a quegli scrittori, definiti irregolari, che hanno trasgredito la linea fantasma del romanzo italiano: Svevo, Pea, Tozzi, Delfini, Gadda, Landolfi, Savinio.

Come si vede, se esiste una tradizione del romanzo italiano, è fatta soprattutto di quelli che l’hanno trasgredita.

Anche gli esempi cui Morselli può essere accostato sono più stranieri che italiani: Gide della Sinfonia pastorale, dei Falsari e dei Sotterranei del Vaticano, Broch, Musil, Huxley, anche per l’abilità di proiettare nei dialoghi una intelligenza ora analitica e discorsiva, ora caustica ed epigrammatica.

Anziché inseguire una tradizione inafferrabile, è dunque preferibile circoscrivere l’antitradizione di Morselli.

Anzitutto il suo atteggiamento di fronte al problema. Il romanzo viene concepito come rischio calcolato.

Nel calcolo direi che rientrano la documentazione minuziosa (basta pensare alla teologia, ortodossa o avveniristica, di Roma senza Papa o ai menu di Corte in Divertimento 1889 o alla topografia romana del Comunista); la ricostruzione precisa di un contesto storico, di uno sfondo ambientale, del colore di un’epoca; il calco illusionistico degli stili di vita e dei loro riflessi nel linguaggio, espresso o interiore (basta pensare alla secchezza allusivamente militare di Contro-passato prossimo o alla euforica effiorescenza di Dramma borghese).

Morselli dissemina perciò la narrazione di notazioni ambientali, di dettagli pittoreschi, di segnali orientativi.

A volte, come accade quando uno scrittore si entusiasma per i suoi procedimenti, cade nel manierismo.

Certe citazioni ostentate in Roma senza Papa o alcune civetterie nei cerimoniali di Divertimento 1889 non appaiono sempre spontanee nei personaggi: chi è abituato a vivere in un ambiente non è il più indicato a coglierne gli aspetti singolari, proprio perché scoloriti dall’abitudine. Ma sono cedimenti poi compensati da una immaginazione più corposa e realistica.

Tutto questo rientra, secondo me, nel calcolo. Rischio è tutto il resto.

Un’altra breve parentesi sulla parola calcolo, che in Italia ha una sola connotazione, sfortunatamente negativa.

Questa singolarità può insegnare qualcosa sul nostro passato e anche, temo, sul nostro futuro, ma non è linguisticamente inevitabile.

Senza calcoli non si può costruire quasi niente, neanche un romanzo.

Che poi i calcoli uno scrittore li faccia a un tavolo, anzi a tavolino, come si precisa con un’altra connotazione maliziosa, è abbastanza naturale, dato che è la superficie su cui generalmente lavora.

«Le migliori idee sono quelle che vengono a tavolino», ha scritto una volta Joyce, senza immaginare che una affermazione simile in Italia sarebbe suonata allusiva.

Anche la costruzione del racconto, calibrata, sapiente, è una qualità di Morselli destinata a non attirargli consenso. La si giudica frutto dell’intelligenza, altra parola considerata con sospetto, come una colpa o un limite: alcuni non la pensano infatti compatibile con quella inconsapevolezza un po’ ottusa che amano attribuire agli artisti. Altri sembrano accettarla con stupore, come la precisione di linguaggio: ed è come ci si stupisse che un concertista usi uno strumento accordato.

Morselli era isolato anche per una scelta espressiva che eludeva sia i modelli privilegiati in quegli anni sia l’eversione linguistica dell’avanguardia: ed eludeva le tacite convenzioni tipiche di quel circuito ripetitivo in cui finisce per trasformarsi il rapporto autori-critica-pubblico.

È possibile, e forse probabile, che, pubblicato dieci anni fa, non avrebbe ottenuto l’attenzione di oggi, perché allora mancavano certe condizioni e decantazioni che sono nel frattempo venute a compimento.

È questo l’aspetto più significativo e doloroso del suo destino, che è stato letterario prima che editoriale. Ed è quello su cui è più costruttivo riflettere, perché tende a ripetersi continuamente, in forme diverse, ma con analoghe conseguenze di emarginazione: ogni volta che la polemica faziosa o la pigrizia distratta si scontrano con il diverso.

Non direi comunque che la costruzione del racconto rientri nell’area del calcolo, quanto in quella del rischio. Essa accompagna la stesura del materiale, anziché precederla: ed è un processo di selezione, di aggregazione e di sintesi che partecipa della natura avventurosa del viaggio.

Un narratore spera sempre che il testo ne sappia alla fine più di lui. E la costruzione – che va intesa come presentimento di un ordine – collabora al conseguimento di questo risultato.

I mutamenti continui del punto di vista narrativo, in Roma senza Papa, svelano lo smarrimento della Chiesa attraverso l’uso discreto di scelte tecniche, senza interventi o commenti dell’autore.

Questa struttura è ricca di significazione indiretta e la sua articolazione comunica altrettanto che le parole.

Quello che Gerolamo disse delle Scritture, che «l’ordine stesso delle parole è un mistero», vale anche per la sintassi profana del romanzo.

L’occultamento dell’autore, realizzato con una malleabilità metamorfica cui si è dato il nome di mimetismo, è un’altra caratteristica strutturale di Morselli.

Esso si manifesta come una capacità insolitamente duttile di immaginare esperienze molteplici, di penetrare in universi storici e fantastici che presentano una coesione interna ed esteriore: da quello politico e militare della Grande Guerra – il cui esito, in Contro-passato prossimo, è paradossalmente capovolto da una “logica delle cose” che prevale sulla logica dei fatti – a quello del futuro, in Dissipatio H.G., dove l’apocalisse fa scoprire al protagonista, sopravvissuto a un suicidio individuale e a uno collettivo, la propria voce nel silenzio del pianeta; dalla Corte umbertina di Divertimento 1889, cosmo di avventure galanti e di malinconie quotidiane, ingrandite e insieme miniaturizzate, alla Roma senza Papa del Duemila, babele teologica che assiste alla agonia di una Chiesa in attesa della fede; dalla crisi di un’altra fede, quella del Comunista, che coglie nel suo progressivo isolamento, politico e umano, il significato segreto del suo destino, al Dramma borghese dell’attrazione di una figlia per il padre, che diventa un conflitto fatale fra natura e ambiguità.

Neanche questa generosità mimetica ha mancato di provocare riserve. La si è letta come una sfida narrativa, anche se Morselli avrebbe potuto esserne orgoglioso, in un paese dove le sfide si preferisce lanciarle anziché raccoglierle. E sarebbe stata una sfida ironica di “professionalismo” in uno scrittore che in vita non è mai stato riconosciuto tale e in una cultura dove il luogo comune che si scrive sempre lo stesso romanzo è spesso interpretato e applicato alla lettera.

Il suo dono mimetico non sembra, al contrario, conoscere limiti. Ma, come ogni mimetismo, è, nel suo impianto, elusivo e inafferrabile. La sua natura duplice mostra da un lato una ipnotica flessibilità, una ingannevole identificazione con le apparenze che vuole assumere, mentre d’altro lato conserva inviolata la propria essenza, occulta ed enigmatica.

Scrittore introverso, Morselli si nasconde dietro una estroversione totale, una completa e illusoria immedesimazione con il proprio oggetto.

Ma quanto più si proietta nei propri fantasmi, tanto più lascia scoperta alle spalle la parte più debole e più vulnerabile di sé.

Scriveva Zamjatin in Tecnica della prosa:

«Vi sono due modi per superare la tragedia della vita: la religione e l’ironia.»

Morselli li ha cercati entrambi e sul piano espressivo ha tentato a volte la loro fusione. La religiosità di Fede e critica è resa problematica dal contrappunto narrativo, mentre talune pagine di Roma senza Papa evocano l’idea di un saggismo indiretto, calato nei personaggi da un credente in crisi.

Riempire lo spazio fuori di sé significa svuotare, dentro di sé, il senso del tempo. E non stupisce, in questa prospettiva, il suicidio di Morselli: non nella immediatezza psicologica, che in questi casi è sempre arbitraria e fuorviante, ma in un significato originario.

Per questo Dissipatio H.G. è stata interpretata come una confessione.

Ma anche negli altri romanzi traspare una tensione ansiosa, che cerca di modificare il passato e di anticipare il futuro, senza trovare requie nel presente.

Leggendo Divertimento 1889 si prova una sensazione curiosa: si avanza in un presente pieno di imprevisti, ma intanto l’immagine si allontana velocemente, come in un cannocchiale alla rovescia, diventa un dagherrotipo, una acquaforte di fine secolo.

Fuga dal presente e fuga dall’io convergono sulla sua pagina in una angoscia che sembra vetrificare anche le immagini.

Questa malinconia dissimulata, questo pathos sotterraneo sono la forza segreta della sua narrazione.

Ed è forse in questa direzione di morte che va ricercato l’altro volto, quello notturno e celato, del suo mimetismo.

[1978-1983]