L’ebbrezza della sopravvivenza

Tra i progetti architettonici che, nei piani di Hitler, avrebbero dovuto mutare entro il 1950 il volto di Berlino, vi erano un gigantesco edificio a cupola per le adunate, ampio 17 volte la cattedrale di San Pietro e capace di contenere 180.000 persone, e un arco di trionfo alto 120 metri, più del doppio di quello di Napoleone a Parigi.

Il materiale di costruzione doveva essere quello «eterno» della pietra, lo stesso che gli egiziani avevano usato per le piramidi. Ma se analoga era la sfida al tempo, diverso era il significato della verticalità, cioè di quella dimensione che, secondo Giedion, è una acquisizione relativamente tarda del pensiero mitico: «sguardo verso l’alto pietrificato».

Le piramidi infatti, come le ziggurat mesopotamiche, scale degli dèi, cercavano un contatto con le forze invisibili e sovrumane, mentre l’architettura di Hitler sostituiva al sacro la mistica della nazione e della potenza e proiettava la volontà di sopravvivere in un monumentalismo paranoico.

L’arretrare del trascendente di fronte a un gigantismo laico si era del resto già manifestato, anche se in forme diverse, nella storia della civiltà egiziana, in coincidenza con l’espansione del Nuovo Regno. Ce lo mostra, tra altri interessanti scorci, un libro di Sabatino Moscati, Il volto del potere, dedicato ai modi figurativi in cui l’imperialismo antico celebra le sue vittorie. La prospettiva geniale di Bianchi Bandinelli, introdotta soprattutto con Roma. L’arte romana nel centro del potere, del 1969, viene qui estesa alle maggiori civiltà del Mediterraneo e del Medio Oriente.

Ne traspare una serie di immagini che, pur nella varietà degli stili, presentano una sinistra uniformità. Nell’arte di propaganda il potere svela il suo volto terrificante, essenzialmente distruttivo, carico di intimidazione e di angoscia: montagne di nemici decapitati, sproporzione agghiacciante tra la statua gigantesca del monarca e quella minuscola dei suoi avversari.

Solo la fantasia dei Greci seppe quasi sempre sottrarre l’evento storico alla labilità della celebrazione, assimilandolo alla durata non peritura del mito; mentre nell’arte realistica romana, negli archi di trionfo e nelle colonne istoriate, l’autorità afferma se stessa in forme che ricalcano, al di là dei contributi originali degli artisti – ma non è casuale che la maggior parte di loro resti anonima – la propaganda orientale del terrore.

Il genio politico romano sapeva infatti sfruttare, dopo la sottomissione dei vinti, il ricatto del perdono. Ma le loro pitture trionfali, nei cortei della vittoria, erano quelle descritte da Flavio Giuseppe nella Guerra giudaica:

«La guerra […] vi era rappresentata con la massima efficacia: si poteva vedere una ricca regione desolata dalle devastazioni, intere schiere di nemici sterminate […] città gremite di difensori espugnate senza scampo, un luogo tutto pieno di sangue.»

E l’ebbrezza del vincitore davanti al nemico ucciso tendeva fatalmente a rinnovarsi: perché, come ha scritto Canetti in Massa e potere, «l’istante del sopravvivere è l’istante della potenza».

[1978]