Gara ed enigma
C’è in greco antico una parola fatta di due vocali, eu, che significava “bene” e che veniva usata per comporne innumerevoli altre: ben costruito, bene intrecciato, ben fatto, dalle belle torri, di bell’eloquio ecc. L’elenco, in quelle miniere del fantastico che sono i vocabolari, occupa pagine e pagine e sorprende riconoscere questo prefisso in composti che non sono più sentiti come tali, ad esempio caccia (“buona preda”) o cospicuo (“ben visibile”) o amichevole (“che spira a favore”). Effetto analogo lo producono certi composti italiani di origine greca, come euforia, eufemismo, evangelo.
È vero che il prefisso, in greco, veniva ad assumere varie connotazioni, di abbondanza, di riuscita, di feracità. Ma dominava sempre un’idea di compitezza, di grazia, di armonia.
La singolare diffusione di una parola come eu credo non abbia riscontro in nessun’altra lingua, antica e moderna, e mi è sempre sembrato un segno della capacità che i Greci avevano acquisito di attribuire significati estetici all’esistenza: scoprendoli nei paesaggi, nelle rocce, negli animali, nelle piante, oppure creandoli con il linguaggio dei suoni, del corpo, delle parole, delle forme. Amore dell’armonia, dell’oggetto “lavorato bene”, dapprima in senso artigianale, poi sempre più conscio di quella misteriosa connessione tra scelta individuale e validità universale che avrà la sua prima enunciazione in Saffo.
La convergenza di poesia, di valore e di bellezza troverà in Pindaro l’espressione forse più consapevole. La luce che essa irradia sui vincitori degli agoni è un premio che dilata per l’eternità lo splendore di una gara. Il successo di un atleta non è mai infatti per Pindaro un evento occasionale: esso è sempre il frutto di una preparazione accurata, di una tradizione nobile, di una benevolenza divina.
A queste qualità, che rinviano all’idea di perfezione, nel senso etimologico di portare a compimento, la poesia aggiunge la sua bellezza perenne e la totalità del suo orizzonte, che include passato e presente, divino e umano, mito e storia.
Degli epinici di Pindaro, delle sue odi di vittoria, sono state pubblicate, dalla Fondazione Valla Mondadori, le Istmiche, dove vengono celebrati i giochi biennali sull’Istmo di Corinto, nell’area del santuario di Posidone. Tra i meriti del curatore, Aurelio Privitera, metterei non soltanto la persuasività delle interpretazioni, ma soprattutto la sottigliezza del commento, che fa trasparire controluce la straordinaria unità compositiva delle odi e le loro simmetrie interne, spesso dissimulate e sfuggenti.
Si potrebbe temere che ne esca in qualche modo diminuita la vertigine del «volo pindarico», che, come scrisse Orazio, nessuno può emulare, sotto pena di cadere nelle onde come Icaro e di «dare il nome al mare cristallino».
Accade invece il contrario. L’analisi non fa che accentuare l’enigma della sintesi. Gli sottrae solo il superfluo: non il mistero, ma il suo alone, la suggestione labile del “misterioso”.
Un processo analogo si manifesta nel dominio della scienza: quanto più essa si addentra nella semplicità apparente del disegno originario, negli elementi primi della energia e della vita, tanto più dilata l’area dell’ignoto.
Così l’analisi strutturale della poesia, anziché decifrarne il segreto, come pure vorrebbero certi suoi cultori impazienti, ne mette solo in luce aspetti ulteriori. E l’arte di Pindaro svela una costruzione di sapienza mirabile, una amplificazione fino al sublime di quell’amore per l’oggetto ben lavorato di cui si diceva all’inizio.
L’onnipresenza, fluida e luminosa, della bellezza rende l’opera di Pindaro quanto di più remoto si possa immaginare dalla poesia contemporanea, attratta più tenacemente dal polo opposto: Venere Anadiomene che emerge dalla spuma del mare è diventata, nella lirica omonima di Rimbaud, una donna laida che emerge da una vasca. E lo stesso Rimbaud ricorderà, nell’apertura di Una stagione all’inferno, di avere preso una sera sulle ginocchia la Bellezza e di averla trovata amara e di averla ingiuriata.
Il ripudio della Bellezza quale valore e il suo paradossale rovesciamento nella estetica del brutto, non va però considerato solo come perdita, ma anche come acquisto di altri territori, come acquisizione alla poesia di nuovi spazi fantastici. Il problema semmai è di approfondire se proprio il punto che sembra segnare il discrimine tra le due prospettive possa diventare invece di contatto.
La poesia di Pindaro, in questo senso, è particolarmente illuminante. Si suole infatti ripetere, non senza fondamento, che alla pienezza estetica delle odi concorra la convergenza dei valori etici e religiosi, che vanno dal culto degli eroi al significato divino dei giochi, dalla concezione della poesia come ricompensa della grandezza alla trasparenza dell’invisibile nel visibile. E per questa via il senso di tale bellezza ci sarebbe inaccessibile, dato che all’antica fusione dei valori corrisponde oggi la loro disgregazione e ogni tentativo di ignorare o eludere questa crisi è destinato al fallimento: lo provano sia la fragilità dell’estetismo, che subordina alla bellezza gli altri valori, sia l’esteriorità del classicismo, quando si illude di avere decifrato il segreto delle forme e di poterle trasporre da un linguaggio a un altro.
C’è però un aspetto della bellezza che ancora ci coinvolge: ed è il suo carattere enigmatico.
Certo quella strana assenza di espressività, che Berenson notava nell’arte «non eloquente», oggi viene posposta all’espressione di sentimenti riconoscibili. Molti pensano che Il grido di Munch sia un quadro più vicino a noi dello Sposalizio di Raffaello: ed è anche vero, ma solo in un senso immediato; perché a una lettura più attenta si scopre che il primo può essere contenuto nel secondo, mentre la complessità inesauribile del secondo non può che essere sacrificata dai significati più circoscritti del primo.
Come ha scritto Auden nella poesia intitolata Musée des Beaux Arts, la sapevano lunga gli antichi maestri, come Bruegel, quando rappresentavano Icaro che precipitava in mare e contemporaneamente il contadino che continuava ad arare la sua terra, indifferente al grido remoto, e la nave che, pur avendo visto qualcosa di sorprendente, un ragazzo cadere dal cielo, «aveva una meta da raggiungere e proseguiva calma la sua rotta».
Questa luce pacificata, questa quiete insieme naturale e irreale splende nelle gare istmiche di Pindaro, dove la bellezza enigmatica è ancora più vicina alla sua radice arcaica: gara ed enigma rispondevano infatti a quell’amore per la sfida, per il confronto con se stessi e con gli altri, che Burckhardt e Nietzsche hanno posto alle origini della civiltà greca e del suo spirito «agonale» e che Colli ha visto balenare in Apollo, dio della luce, della divinazione e della poesia, ma anche dio della lotta, della crudeltà, dell’estasi.
Questo spirito si riverbera ancora nella poesia di Pindaro e contribuisce a rendercela più trasparente e vicina: purché consideriamo la bellezza non come una risposta da cui siamo esclusi, ma come un interrogativo che ci riguarda.
[1983]