Verne speleologo della psiche
Vi sono scrittori che, per congiura di circostanze, si amano prematuramente e poi non si ha più il tempo di riscoprire; e altri invece che non si leggono nell’adolescenza, quando potrebbero destare gli echi più profondi: tra questi metterei Verne, al quale, in Italia, la maggior parte dei ragazzi ha preferito Salgari, con il suo gusto inebriante dell’azione e i recessi dell’anima sempre in piena luce.
Verne ci appariva, almeno nei nostri fuggevoli, insufficienti sondaggi, più scientifico e opaco.
Non molti, credo, avrebbero potuto dire, come Gozzano scrisse alla sua morte:
quanti sogni avventurosi
sognammo sulle trame dei tuoi libri!
Ed è stato un peccato.
Perché, senza nulla togliere a Salgari, Verne era scrittore più ricco e stratificato e si capisce che i francesi abbiano addirittura attribuito ai suoi Viaggi straordinari la stessa funzione che poté avere, per la gioventù greca, l’ascolto dell’Odissea.
Ignorato dalle storie letterarie del suo paese (il Lanson gli dedica una sola parola: “volgarizzatore”), l’autore francese più tradotto nel mondo è stato profondamente amato da scrittori quali Tolstoj e Kipling, Apollinaire e Roussel («la mia ammirazione per lui è infinita») e la critica, soprattutto negli ultimi vent’anni, lo va riscoprendo: allestisce alla sua memoria mostre ed esposizioni – come quella alla Bibliothèque Nationale di Parigi nel 1966 –, intitola a suo nome società e clubs, gli dedica numeri di riviste e volumi monografici.
Il contributo più interessante mi sembra Jouvences sur Jules Verne di Michel Serres, studioso di teoria della conoscenza, di Leibniz e di Zola, il quale fa confluire in un unico corso, talora alluvionale, le diverse correnti critiche che hanno attraversato il continente Verne: quella psicanalitica di Bachelard, quella semiologica di Barthes, quella strutturalistica di Todorov (a parte le suggestioni della mitologia comparata di Dumézil e quelle non dichiarate, ma altrettanto operanti, delle prospettive aperte da Propp, da Lotman, da Frye).
I viaggi di Verne al centro della terra, intorno al mondo, nel cosmo, diventano qui iniziazione, discesa alle Madri, Eterno Ritorno; Michele Strogoff fonde in sé le figure di Edipo e di Orazio Coclite, l’Esodo si sovrappone alle peregrinazioni nell’Africa Australe e il nome del finlandese Palander finisce per significare, all’insaputa ovviamente di Verne, «non esserci» (Pala-nder: «n’être pas là»).
Questa critica, che afferma una cosa e il suo contrario, che moltiplica i viaggi iniziatici e i cerchi nei cerchi, genera alla fine sazietà.
È vero che essa nasce da mutamenti della nostra visione, che vanno ben oltre i suoi puntigliosi rendiconti. E alla sua base c’è la certezza mistica che Tutto è Analogia.
Ma il pericolo è la facilità, la ripetizione. E molti degli azzardati connubi che essa promuove richiederebbero, se non un divorzio, almeno un periodo di meditativa separazione.
Eppure, nonostante queste riserve, il libro di Serres è una chiave per riappropriarci di un mondo.
Dietro il suo stimolo ho riletto, come si dice – ossia ho letto per la prima volta – due opere di Verne e mi hanno fatto un effetto strano.
La ricchezza dei suoi significati emerge non dalla qualità della scrittura, che è spesso carente, ma dalla qualità della sua fantasia, che è invece portentosa.
È quest’ultima, con la sua potenza visionaria, che ha fatto di Verne un creatore di personaggi e itinerari mitici e che l’ha trasformato non solo in un anticipatore del futuro, ma in qualcosa di molto più importante: uno speleologo della nostra psiche e dei sogni indecifrabili che giacciono sul suo fondo.
[1979]