La riscoperta dell’antico
«La fondazione delle colonie elleniche d’Occidente è uno dei fatti più salienti della storia umana», scriveva con accenti alati Ettore Pais nella sua Storia della Sicilia; ma subito, calando a terra, aggiungeva che tale fatto non si poteva né dimostrare né raccontare: e che, se anche le testimonianze più antiche ci fossero pervenute, «molto di ciò che ci fu detto essere storia, dovremmo reputare leggenda, molto di ciò che desidereremmo sapere non troveremmo ricordato.»
L’ipercritica, come fu chiamato questo scetticismo radicale, avrebbe dovuto rinunciare a generare opere di storia: «quando i documenti non ci sono» ha scritto Piero Treves, «perché non ci sono; e quando i documenti ci sono, perché ci sono».
Invece queste opere vennero alla luce, in contrasto con le proprie premesse: caso non nuovo nella storia della cultura e forse meno paradossale di quello, ad esempio, di un Prantl, insigne studioso tedesco della seconda metà dell’Ottocento, che compose una monumentale Storia della logica in Occidente per dimostrare che la logica, dopo Aristotele, non ha avuto storia. Oggi questo attributo della non-esistenza viene riservato a lui, come leggiamo in un altro studioso insigne, Joseph Boche–ski:
«È meglio ignorarlo completamente. Egli deve essere trattato come inesistente da un moderno storico della logica.»
Questi studiosi hanno in comune, nei confronti della loro materia, un tipo particolare di logica: quella dell’annientamento. E mi ricordano il comportamento di altri studiosi di fronte a un fenomeno che si va manifestando in Italia e che, per brevità, si può racchiudere in una espressione: la riscoperta dell’antico.
Essi cominciano, per l’appunto, con il negare il fenomeno.
Non è vero che l’interesse per l’archeologia sia oggi più diffuso e produca, insieme a qualche guasto, qualche scoperta di rilievo.
Non è vero che mostre e musei siano più frequentati.
Non è vero che i classici, sia pure tradotti e in edizione economica, vengano letti da un pubblico più ampio e soprattutto più vario e imprevedibile.
Poi, davanti all’evidenza di qualche cifra, hanno una seconda reazione: di stupore. Non c’è nessuno come i filologi – parlo, si intende, dei più, non dei migliori – a stupirsi che si mostri curiosità per l’oggetto dei loro studi. Se ne dedurrebbe che hanno o una opinione modesta dei loro studi o una opinione modesta degli interlocutori.
L’ultima ipotesi è la più probabile, ma non basta a spiegare la loro terza reazione, che è ancora negativa, però questa volta irreversibile: non si può riscoprire l’antico, perché l’antico non c’è. È scomparso. Non possiamo più passeggiare con Fidia sull’Acropoli né conversare con Orazio nella sua villa della Sabina, non crediamo più negli dèi e, se scampiamo a un naufragio, non dedichiamo una tavola votiva a Posidone.
Possiamo sì decifrare il latino e il greco, ma restano lingue morte e non è di tutti imitare l’eroismo filologico suggerito da Leo Longanesi:
«Il professore di lingue morte si uccise per parlare le lingue che sapeva.»
Insomma il sogno ultimo del filologismo è di sacrificare, nel proprio rogo, tutti gli altri sogni: si postula la totalità non per avvicinarla, ma per renderla irraggiungibile.
I suoi adepti presentano qualche oscura analogia con i cultori dell’alta fedeltà: protesi nello sforzo di percepire suoni o interferenze, non ascoltano più la musica. Scambiano l’eco strumentale per la nota originaria. E la qualità della ricezione diventa più importante della qualità dell’opera.
Posti di fronte a quest’ultimo problema, si riparano gli occhi come gli speleologi quando escono dalle grotte. Se sollecitati, possono reagire con brutalità. Ho letto l’intervista di uno studioso che, indignato per la popolarità dei Bronzi di Riace, ha anzitutto negato che fossero eccezionali e poi, a suffragio di questa tesi, ha aggiunto che la Grecia ce ne ha lasciato almeno una dozzina di pari valore: già troppi, sembrava dire. Non ha concluso che i musei dovrebbero essere chiusi al pubblico, perché questo significherebbe chiudere anche i musei: ma tale era il senso occulto delle sue parole.
Eppure qualche beneficio potrebbero trarne gli stessi archeologi, cui non è mai sfuggita una certa relazione tra la scarsità del pubblico e quella dei fondi. E anche il turismo culturale, con le sue folle itineranti, se può indurre qualche viaggiatore impaziente a differire all’inverno una visita in Grecia, può al contempo incrementare gli scavi e salvare qualche paesaggio.
E poi, non solo in questo senso strumentale, ma in un senso più importante: perché sacrificare a una perfezione impossibile un miglioramento possibile? Perché volere il Tutto, solo per negarsi la Parte e accontentarsi del Niente?
La stessa storia della cultura è fatta di approssimazioni inevitabili e di fraintendimenti fecondi. I vangeli hanno esercitato una azione non del tutto illegittima anche prima della revisione di Erasmo. Né possiamo, per avvicinarci al buddhismo, aspettare una edizione “esaustiva” del Canone pali.
Si intende che ammettere la parzialità non significa avallarla né tanto meno incoraggiarla: ma significa non negare la sua importanza nella vita di ognuno.
E infine, anziché chiedersi perché al pubblico interessa il mondo antico, certi studiosi dovrebbero chiedersi perché interessa anche a loro: e così potrebbero trovare, o magari non trovare, una risposta.
[1982]