Il dio ignoto della letteratura fantastica
Due sono, ogni anno, i premi Nobel della letteratura: uno è quello che viene assegnato al vincitore, l’altro è quello che non viene assegnato a Borges.
La tenacia dell’Accademia di Svezia è pari alla coralità delle deplorazioni: ma confesso che mi stupisce più quest’ultima, considerando che la solidarietà dei letterati suole manifestarsi, nella sua forma più genuina, dopo le esequie.
Per vincere la riluttanza dell’invidia e il fastidio per la popolarità altrui bisogna dunque ammettere che l’opera di Borges appaghi in modo insolito le aspirazioni dei letterati e si faccia così perdonare di non essere stata scritta da loro.
La qualità non basta.
Essa occupa, nelle valutazioni correnti, uno spazio infinitamente minore di quanto si preferisca attribuirle. Certo nella lunga durata finisce per imporre i suoi diritti, se è vero quello che ha scritto Jules Renard, che «i posteri hanno un debole per lo stile»: ma con questo stabiliva la differenza rispetto ai contemporanei.
Nel caso di Borges credo che la qualità sia, una volta tanto, innegabile; ma credo anche che la ragione della sua attuale, incontrastata fortuna – dopo decenni di stima solo da parte di pochi – sia soprattutto un’altra: quella di avere dato un senso fantastico alla tragedia del nostro tempo, che è la perdita del senso.
In un mondo di segni siamo diventati esperti nel decifrarli, ma non sappiamo più il loro valore.
La frase che apparve in visione a Costantino, «In questo segno vincerai», oggi verrebbe accettata in tutti i significati, tranne che in quello letterale. Si penserebbe subito a ricondurre quel segno a un sistema di segni e al codice secondo cui decodificarlo.
Ma qual è il nostro codice?
I Greci credevano agli dèi perché li vedevano. Quando si credette alla vista interiore la si chiamò fede. Ma, tra i moderni, i “veggenti” sono soprattutto quelli che vedono il vuoto. E nella civiltà dell’immagine al vedere si è sostituito il rivedere: l’imprevedibile, in cui dovrebbe condensarsi l’esperienza, viene ridotto a una immagine da aggiungere alle altre, in una collezione la cui caratteristica sembra essere la varietà, mentre è solo la ripetizione.
E se Stazio, abbracciando Virgilio in Purgatorio, si accorge di sbagliare «trattando l’ombra come cosa salda», noi coltiviamo l’illusione contraria e cerchiamo di trasformare la «cosa salda» in ombra, in riflesso, in registrazione.
Questa vita indiretta, questo orizzonte di immagini che finisce per diventare immaginario, questo universo in cui le tesi si sono mutate in ipotesi e i fatti sono le interpretazioni, hanno trovato in Borges un rispecchiamento fantastico. E se la cultura dubita di tutto tranne che della propria crisi, non può meravigliare che trovi nella sua opera una gratificazione insperata: anzitutto perché la fantasia, come è implicito nella sua accezione originaria, rende manifesta la scomparsa del senso nella infinità dei significati (mentre la speculazione non può che definirla in termini astratti). E poi perché essa produce, in pari tempo, un effetto vivificante: la nozione di accrescimento di vitalità, che Giuliani ha proposto per la poesia contemporanea, vale anche per la letteratura fantastica.
C’è come una dilatazione dei sensi nella capacità di vedere l’invisibile; e lo sgomento che suscita il volto nascosto della realtà è superato dal piacere di scoprirlo in condizioni di relativa sicurezza – quelle della lettura – e alla fine concorre anzi a intensificarlo.
Forse Borges è il caso più esemplare in cui la negatività della crisi viene rivissuta con una fascinazione liberatoria e in cui i vicoli ciechi del pensiero vengono ripercorsi non con il terrore della fine, ma con il presentimento di un inizio.
L’enigma, insolubile per il protagonista, non lo è più per noi e la sorpresa, fatale per la vittima, attira lo spettatore.
Naturalmente la specularità tra Borges e la cultura contemporanea non manca di produrre qualche distorsione di visuale, qualche sovrapposizione di prospettiva, qualche effetto di saturazione. Non siamo mai stati assediati, come in questo periodo, da specchi e labirinti.
Questi due emblemi, che potrebbero simboleggiare l’universo di Borges, hanno oggi una straordinaria reviviscenza, anche se la loro suggestione è millenaria.
«Geroglifico della verità» ha scritto Baltrušaitis in un libro dedicato a questo tema, «lo specchio è anche il geroglifico della falsità.» E il labirinto evoca nelle sue volute, fin dalla preistoria, il rapporto tra l’uomo e il suo destino.
Avere ritrovato in questi temi mitici nuove consonanze figurative e interiori è merito non secondario di Borges. Non altrettanto si può dire dei suoi imitatori, sempre più numerosi, che, non avendo il talento di determinare una moda, coltivano però l’inquieto piacere di accodarvisi.
Già si riconosce, nella stampa, uno stile Borges: ellittico, folgorante, oracolare, fatto di paradossi impavidi e di contraddizioni imposte con la forza. E dopo una invasione, silenziosa e capillare, di specchi e di doppi, si moltiplicano le guide che insegnano non a entrare nel labirinto, ma a uscirne.
La stessa area del fantastico, che Borges ha contribuito a esplorare e ad ampliare, rischia, se si sopravvaluta il suo apporto, di risultarne circoscritta.
Niente è meno misterioso che la soluzione del mistero: punto di forza del romanzo poliziesco, è anche la sua debolezza.
Una conferma è l’Antologia della letteratura fantastica, di Borges, Bioy Casares e Silvina Ocampo: libro affascinante, dove l’ignoto e il noto producono, sovrapponendosi, trasalimenti, lievi angosce, allucinazioni; ma soprattutto libro che è una proiezione, nell’universo letterario, dell’interiorità di Borges.
Se lo si interpretasse come un inventario apprensivo, una ricapitolazione ansiosa, allora sarebbe lecito osservare che le omissioni sono considerevoli almeno quanto le inclusioni: e, per limitarci al Novecento italiano, notare, accanto alla presenza di Papini e di Wilcock, l’assenza di Savinio, Bontempelli e Buzzati.
Ma la completezza non era nelle intenzioni dei curatori e sono loro i primi ad accennarvi, con elegante ironia.
Il problema resta dunque un altro: la delimitazione del fantastico, l’identificazione della parte con la totalità, l’accettazione acritica, da parte del lettore, di una scelta che è stata, prima di tutto, personale e allusiva.
È forse inevitabile che, non Borges, ma i suoi seguaci cerchino di dare un nome al dio ignoto della letteratura fantastica: ma sarebbe solo un nuovo aspetto di quel mondo illusorio in cui siamo, con lui, avanzati.
[1982]