Il sogno di Plutarco
La spiegazione forse più convincente dell’interesse che il lettore moderno prova per le biografie l’ha data nel 1934 uno studioso dell’argomento, Mark Longaker: «perché si interessa di se stesso».
Rivivere infatti, attraverso l’immedesimazione fantastica, l’esistenza di un altro significa riacquistare il senso del proprio futuro, come campo di possibilità e di decisioni.
La biografia come destino che si è già compiuto ci rimanda al nostro destino che si sta compiendo: e la storia diventa quel “ritorno del possibile”, quella coincidenza ideale di passato e di presente che si svela nell’attimo, quando la scelta fatta da un altro può reincarnarsi in quella che stiamo facendo.
Questo coinvolgimento personale affiora anche nel più grande biografo dell’antichità classica, in Plutarco, solo che in lui si arricchisce di quel pathos morale, che è una delle sue note dominanti.
Scrive Plutarco nel proemio della vita di Emilio Paolo:
«Quando ho cominciato a scrivere queste Vite, l’ho fatto per essere utile agli altri; ma ormai mi accade di continuarle e di perseverare in questo lavoro per essere utile a me, perché, guardando nella storia come in uno specchio, cerco di migliorare e di uniformare in qualche modo la mia vita alle virtù dei grandi uomini.»
Alla biografia Plutarco approdò tardi, quando la sua esistenza trascorreva nella piccola città di Cheronea, in Beozia, nel cuore della Grecia, dove era nato verso la metà del primo secolo dopo Cristo.
Aveva viaggiato a lungo entro i confini dell’impero: il soggiorno ad Alessandria gli aveva schiuso l’accesso ai misteri di Iside e di Osiride, mentre le conferenze filosofiche a Roma gli avevano conciliato l’ammirazione del pubblico colto. Ma neppure le onorificenze politiche riuscirono a tenerlo lontano dalla sua città natale, che egli scrisse di non volere abbandonare «perché non diventasse ancora più piccola».
Era distante appena un giorno di viaggio a piedi dal santuario di Apollo a Delfi, di cui era sacerdote. Greco dunque Plutarco continuò a sentirsi anche sotto il dominio di Roma, benché, con il pacato realismo che lo distingueva, riconoscesse la liberalità dei vincitori e la inutilità di ogni ribellione.
E greca fu la forma delle sue Vite parallele, la forma della synkrisis, del confronto binario, che a un personaggio illustre della storia greca ne contrapponeva uno di quella romana.
Tale forma si prestava a quell’incontro ideale di Grecia e Roma nella unità del mondo “classico” che era l’aspirazione degli spiriti chiaroveggenti dell’epoca; però al tempo stesso conservava, sotto la struttura rettorica ereditata dalle scuole di sofistica, quello spirito che caratterizza in modo misterioso e inconfondibile i Greci e li differenzia dai popoli del vicino Oriente: lo spirito agonistico.
Questo spirito anima la loro visione dei rapporti tra gli dèi e gli uomini, balena nei loro enigmi, orienta la loro educazione, trionfa nelle gare di Olimpia e nei concorsi di danza, di teatro e di poesia, si incarna nei loro eroi, in quelli della astuzia come in quelli del coraggio, in Ulisse e in Achille.
E direi che esso riappare, inafferrabile anche se percettibile, nelle loro figurazioni: nelle scene erotiche, dove la contiguità sembra aumentare, anziché annullare, la distanza, e nelle scene di guerra, dove la crudeltà elegante del linearismo sottolinea la solitudine degli individui.
Naturalmente lo spirito agonistico, che negli enigmi della sapienza arcaica aveva raggiunto il grado più alto di sfida, si impoverì progressivamente nelle dispute scolastiche. Però non perse mai totalmente il suo significato ideale, che traspare anche nei confronti di Plutarco: dove la lealtà del suddito non arrivava a estinguere l’orgoglio di una tradizione, anzi lo alimentava, sia pure in forme caute e dissimulate.
Lo si avverte anche nelle Vite di Licurgo e di Numa, in cui i due leggendari legislatori di Sparta e di Roma vengono accostati come uomini di saggezza, di pietà, di capacità politica; ma tra le molteplici e variegate differenze Plutarco non manca di ricordare che la costituzione di Licurgo durò cinquecento anni, mentre la pace di Numa non durò oltre la sua vita.
D’altro lato, quando Plutarco incontra, nella legislazione di Licurgo, istituzioni di innegabile violenza e ferocia, sembra ritrarsi, quasi voglia scagionarlo da una accusa inconciliabile con la propria ammirazione.
È significativa la sua reazione nei confronti di una usanza spartana, la krypteia: essa prevedeva che alcuni giovani, scelti per la loro destrezza, si nascondessero durante il giorno in luoghi occulti (donde la parola krypteia) e di notte avessero licenza di sgozzare al buio gli iloti che incontrassero sulle strade.
Di fronte a questo diritto di omicidio, che è stato interpretato anche come rito iniziatico, Plutarco confessa:
«Non mi sento di attribuire a Licurgo una pratica tanto scellerata, se giudico il suo carattere dalla mitezza e dalla equità che egli mostrò in tutto il resto della sua vita.»
Questa ammirazione apprensiva è meno rara e anche meno remota di quanto si potrebbe supporre: basti pensare che Burckhardt, nel suo memorabile corso sulla civiltà greca, mostra dopo 1800 anni, nei confronti di Sparta, una ambivalenza analoga. Tuttavia l’atteggiamento di Plutarco deriva anche da altre radici, che ci riconducono agli aspetti più importanti, per noi, della sua figura.
Anzitutto al suo amore per l’uomo, alla sua philanthropia, che lo rendeva riluttante non ad ammettere il male, ma a immaginarlo connaturato ai personaggi eroici: considerava il buio una assenza di luce e dava spazio a quanto vi era di meglio in loro.
Questo non era idealismo ingenuo né ipocrisia di retore, ma nasceva da un sentimento che oggi va scomparendo, quello della grandezza. Siamo pronti a riconoscerci, con solidarietà patetica, nel piccolo, ma dimentichiamo che questa non è l’unica dimensione dell’uomo. Melville non negava che uno scrittore potesse dedicarsi alle pulci, ma aggiungeva che, quanto a lui, preferiva occuparsi di balene. E Jaspers ha scritto che «attraverso i grandi noi ampliamo i confini della nostra possibile umanità».
Le elusività e le omissioni di Plutarco nascevano inoltre dal suo senso dell’arte, che significa gerarchia e scelta di fatti, rinuncia a “dire tutto” per dire invece ciò che è essenziale; e questo ideale estetico coincideva con il suo ideale etico, che tendeva a cogliere nei personaggi non le banalità o le miserie che li accomunavano agli altri, ma i tratti che li distinguevano e ne facevano un destino.
Narratore di straordinarie doti evocative e drammatiche, Plutarco eludeva le figure “comiche”, che tendono fatalmente a diventare tipiche, e mirava alla unicità irripetibile del personaggio “tragico”.
Non per altro è l’autore che ha esercitato su Shakespeare l’influenza maggiore. I suoi ideali sembrano rivivere nell’elogio di Bruto, che chiude il Giulio Cesare:
«Visse una vita magnanima e gli elementi erano così bene temperati in lui che la Natura potrebbe ergersi e dire a tutto il mondo: Questo fu un uomo.»
La venerazione infine con cui Plutarco avvicina, attraverso Licurgo e Numa, la storia arcaica mi ricorda una frase di Quintiliano:
«Si adorano per antichità i sacri boschi, nei quali le querce grandi e vetuste non hanno tanto bellezza quanto religiosità.»
Questo sentimento di fronte all’arcano delle origini è lo stesso che Plutarco rivela di fronte ai misteri egiziani, dove scopriva una verità silenziosa cui la sua filosofia non riusciva a dare una voce. E forse il dono più bello che ricevette da questa sua pietas fu un sogno, l’ultimo, che precedette la sua morte e che ci viene raccontato da Artemidoro:
«Sognò di salire al cielo condotto da Hermes; e nella notte seguente un uomo gli interpretò il sogno, dicendogli che sarebbe stato beato e che appunto ciò significava il fatto di salire al cielo, la sua straordinaria felicità.»
[1981]