La Fanfarlo e il congedo dalla giovinezza

C’è un momento in cui si prende congedo dalla giovinezza: non appartiene a una età precisa e le condizioni che lo preparano variano secondo le persone.

La sua percezione è però, in quasi tutti i casi, inconfondibile ed è una percezione dolorosa, anche se priva di reazioni vistose, di commenti verbali.

La accettiamo solo quando la esperienza la rinnova, la replica con una evidenza cui la nevrosi soltanto potrebbe sottrarsi, pagandone in seguito uno scotto più pesante.

Di solito temporeggiamo prima di prenderne coscienza, sia per paura, sia per rafforzare nel frattempo le difese; e quando finalmente lo confessiamo, a noi stessi o agli altri, fingiamo di scoprirlo proprio allora, per consolarci almeno con il coraggio della nostra lucidità.

Ma il peggio è ormai passato.

Le modificazioni più profonde della nostra interiorità si manifestano sempre in forme dissimulate, quasi impercettibili: una accelerazione dei battiti, un improvviso disorientamento, uno sguardo esitante, una incrinatura della voce. Bisogna diffidare, nella vita e nella poesia, dei gridi. E anche nell’opera di Ungaretti Un grido e paesaggi, l’evocazione di questi ultimi ha come il potere di stemperare il grido, di ridurlo alla sua eco più vera e più tragica, che è quella interiore.

Leopardi collocava il distacco dalla giovinezza tra i venticinque e i trent’anni. Se tale precisione ci appare arbitraria – o meglio influenzata dai pregiudizi dell’epoca intorno alla età, nozione come si sa mobilissima e relativa a tempi e luoghi – resta invece attuale e penetrante la sua analisi delle reazioni associate a questa svolta.

Scrive infatti Leopardi nello Zibaldone (8 ottobre 1825) che quando un uomo, abituato a trattare con persone di età maggiore o almeno uguale alla sua, tratta improvvisamente con persone più giovani, «si trova quasi cangiato il mondo dattorno» e non senza sorpresa si accorge di essere considerato da gran parte dei suoi compagni come più anziano di loro:

«Cosa tanto contraria alla sua abitudine che spesso accade che per un certo tempo egli non si avveda ancora di questa cosa, e séguiti a stimarsi generalmente o più giovane o coetaneo dei suoi compagni, come egli soleva, e con verità, per l’addietro.»

Un metaforico, allusivo e ironico congedo dalla giovinezza mi sembra la Fanfarlo, la novella, prima e unica della sua vita, che Baudelaire pubblicò nel 1847, quando aveva ventisei anni. A parte la sua attività di saggista e di critico d’arte, si era prima di allora limitato a firmare poche, ma già riconoscibili poesie con uno pseudonimo oppure con il cognome della madre, a volte unito al proprio: quasi alludendo a un legame che aveva un significato decisivo, e direttamente operante, nella sua esistenza.

Anche la Fanfarlo verrà firmata Charles Defays, ma sarà l’ultima volta che questo cognome apparirà in calce ai suoi testi creativi: quasi l’opera segnasse il passaggio a una nuova consapevolezza della propria autonomia e del proprio valore.

La trama, nella Fanfarlo, direi che conserva i significati originari di tessitura, di ordito, ma insieme di manovra occulta che tende a uno scopo non proprio lecito: in realtà qui lo scopo è legittimato dalla morale comune e dalla congiura delle circostanze patetiche.

Si tratta infatti di ricondurre all’amore coniugale un nobile di provincia, che a Parigi si è invaghito della Fanfarlo, una ballerina «tanto stupida quanto bella»; ed è la moglie, tanto virtuosa quanto mesta, ad affidare il delicato incarico a un dandy incontrato casualmente ai giardini, Samuel Cramer, poeta raffinato e solitario e suo innamorato di gioventù: se Cramer, corteggiando la Fanfarlo, riuscirà ad allontanarla dal marito, la moglie forse saprà come ricompensarlo.

Tutto questo naturalmente non viene detto, viene soltanto suggerito tra lacrime, sospiri, frasi soffocate, sguardi sfuggenti. Linguaggio di sapiente ipocrisia e di incomparabile chiarezza, rispetto al quale il dialogo, verbale ed esplicito, oggi prediletto, appare piuttosto fonte di monumentali equivoci e di continui fraintendimenti.

Cramer riesce solo nel primo dei due intenti. Conquisterà la Fanfarlo, grazie a una tattica che i millenni hanno dimostrato infallibile: esercitare dapprima l’aggressività contro la persona amata (in questo caso con giudizi impietosi pubblicati su un settimanale) e poi rivelarle, nel rapporto diretto, la schiavitù della passione, insomma l’altra faccia della luna (che per altro sembra non sia molto diversa da quella che vediamo).

Quanto alla moglie consolata, e ripristinata nelle sue funzioni, Cramer non avrà neanche il tempo di rimpiangerla, travolto dal ménage con la Fanfarlo: lei partorirà due gemelli, lui quattro libri di scienza, l’una e l’altro irrimediabilmente lontani dalle rispettive ambizioni.

I disegni del Settecento libertino e i colori della fantasticheria romantica non sempre trovano, sulle pagine della Fanfarlo, un accordo persuasivo. Da un lato si ha l’impressione che Baudelaire creda poco a quello che racconta, dall’altro che tema di credervi troppo, e perciò accentui il grottesco ed esasperi la caricatura.

Questa oscillazione tra geometria e passione, tra Laclos e Balzac per scegliere alla fine la parodia, è uno degli aspetti più curiosi del testo e certo una ragione del suo fascino giovanile. Ma al tempo stesso l’amabile sarcasmo con cui l’autore prende le distanze da Samuel Cramer coincide con il superamento di un dandismo evasivo e prelude a quello superiore della maturità: un dandismo che avrà connotazioni originali, in apparenza inconciliabili, ma in realtà convergenti; vi confluiranno l’imperturbabilità stoica, un satanismo insieme blasfemo e devoto e il bisogno, sempre contraddetto, di solitudine. A quale solitudine aspirasse è chiarito in Razzi:

«Quando avrò ispirato il disgusto e l’orrore universali, avrò conquistato la solitudine.»

E nell’Arte romantica descriverà il piacere di stupire e l’orgoglio di non essere mai stupito.

Lontano dall’estetismo dei parnassiani, con tale atteggiamento Baudelaire tendeva piuttosto a rifiutare il ruolo di “artista” al servizio della società borghese. Non avendo però il coraggio di una solitudine totale, come l’avrà Rimbaud, la sua scelta presenterà semmai punti di contatto con quella di Flaubert: sommerso dalla stupidità dei suoi contemporanei, anche quest’ultimo cercherà di recidere le sue radici sociali attraverso la satira inesausta, l’ascetismo del linguaggio e il sacerdozio dello stile: e si trasformerà in un “martire delle lettere”.

Per questa via il lavoro, rifiutato come superstizione dell’utile, si muterà in religione del dovere. L’eroe sarà per Baudelaire «colui che è immutabilmente concentrato». Cercherà in Razzi di convincersi:

«Il gusto della concentrazione produttiva deve sostituire, in un uomo maturo, il gusto della dispersione.»

E insisterà in Igiene:

«Più si lavora, meglio si lavora e più si vuole lavorare. Più si produce, più si diventa fecondi.»

E sperando di sapere decidere:

«A ogni minuto siamo schiacciati dalla idea e dalla sensazione del tempo. E non ci sono che due mezzi per sfuggire a questo incubo, per dimenticarlo: il piacere e il lavoro. Il piacere ci logora. Il lavoro ci fortifica. Scegliamo.»

Per altri temi invece la bifronte Fanfarlo, anziché sottolineare con la satira i limiti del passato, prospetta già con piena consapevolezza la poetica futura: l’amore per la maschera e il travestimento, l’odio per la natura, e quindi da un lato il rifiuto della donna, in quanto essere naturale, dall’altro la adorazione per il mundus muliebris, mondo della cosmesi e della adulterazione.

«In fondo a questa incantevole tana, tra la casa malfamata e il santuario, Samuel vide venire verso di lui la nuova dea del suo cuore, nello splendore radioso e sacro della sua nudità.»

Come non pensare, leggendo la Fanfarlo, a quel mutamento di prospettiva che dalla profanazione del sacro voluta da Sade porta alla santificazione del profano nei Fiori del male?

E come non cogliere, nell’attrazione di Cramer per la Fanfarlo, in quell’amore «terribile, desolante e vergognoso», una incarnazione di quanto enuncerà più volte nei Diari intimi?

«L’amore è il gusto della prostituzione.»

«Ciò che infastidisce nell’amore è che si tratta di un crimine dove non si può fare a meno di un complice.»

E infine:

«Per conto mio, dico: la voluttà unica e suprema nell’amore sta nella certezza di fare il male. E l’uomo e la donna sanno dalla nascita che nel male si trova ogni voluttà.»

E quanto alla metamorfosi di Cramer, che da dandy ozioso e meditativo si muta in un commerciante del proprio talento, come non ricordare la condanna che Baudelaire pronuncerà contro il commercio?

«Il commercio è naturale, dunque è infame.»

C’è un punto che alla critica, per quanto mi risulta, è sfuggito e che riguarda il simbolo della ascesa borghese di Cramer: quella Legion d’onore che nel finale la Fanfarlo gli fa avere dal ministero. È la medesima decorazione che in un altro finale, quello di Madame Bovary, scritta nel decennio successivo, sancisce il trionfo piccolo borghese del farmacista Homais e chiude il romanzo come una epigrafe amara:

«Ha una clientela coi fiocchi; l’autorità lo rispetta e l’opinione pubblica lo protegge. Ha ricevuto da poco la Legion d’onore.»

Nati nello stesso anno, il 1821, ammiratori ciascuno del genio dell’altro, Baudelaire e Flaubert vennero processati nello stesso anno, il 1857, l’uno per i Fiori del male, l’altro per Madame Bovary: il primo fu condannato, il secondo assolto.

[1980]