Seduzione e travestimento
Anfitrione, Sosia, Ganimede, Tartufo… Sono molti i nomi propri che, scendendo dal loro palcoscenico mitologico o letterario, si sono mescolati alla folla dei nomi comuni, a definire funzioni e comportamenti.
Pochi per altro si sono imposti al di fuori della platea colta, per diventare di uso corrente: tra questi “gradasso”, eroe generoso dei poemi cavallereschi, che però non è riuscito a vincere la malignità dei posteri, e “travet”, che da protagonista dimesso della commedia di Bersezio si moltiplica nelle aggressive comparse della moderna burocrazia.
Ce n’è uno comunque che quanto a popolarità non ha rivali, com’era del resto nella natura del personaggio: Don Giovanni.
Creato per la scena, nel 1630, da un frate spagnolo dell’ordine della Mercede, conosciuto sotto lo pseudonimo di Tirso de Molina, El Burlador de Sevilla fu divulgato dai comici dell’Arte, da drammaturghi e librettisti d’opera: il successo fu tale che egli perdette, insieme con la maiuscola, i suoi connotati storici e individuali, per diventare l’anonimo “dongiovanni”, fantasma che si può reincarnare in tante persone.
Questa metamorfosi corrispondeva evidentemente a un bisogno dei parlanti, riempiva un vuoto. E, in effetti, quanta distanza lo divideva da “donnaiolo”, in cui il suffisso spregiativo non evoca il piacere di una conquista, ma una assiduità banale.
Anche i Romani non avevano trovato di meglio che mulierarius e femellarius, e li si può capire. Impegnati a difendersi almeno su tre fronti, l’impero, la virtù militare e la virtù delle matrone, associarono sempre all’appellativo di seduttore connotazioni di effeminato, come si può dedurre da Plauto e da Catullo, e anticiparono, con lucidità repressiva, le teorie del Novecento: Marañon, ad esempio, vede nella disponibilità illimitata di Don Giovanni, nella sua mancanza di qualsiasi principio selettivo, il gradino più basso della maturazione sessuale e pone il culmine della virilità in Amiel, vagheggiatore di un ideale femminile tanto personale che, nelle 17.000 pagine del suo diario, accenna a un unico, deludente contatto, mai più replicato, con una delle tante donne innamorate di lui.
Don Giovanni emerse probabilmente, come intuì Kierkegaard, dal cristianesimo medioevale, per acquistare la massima vitalità nella Controriforma: l’attrazione viene esercitata, più che dalla donna, dall’abisso dell’eternità e la sfida di ogni legge divina e umana spiega il carattere demonico del personaggio, la sua temerarietà beffarda e irridente.
In questa prospettiva non stupisce il suo declino, oggi che la seduzione, anziché un rischio, si rivela spesso, conformemente ai tempi, un investimento. Ma già nella accezione corrente il “dongiovanni” semplificava e impoveriva il modello, secondo quel principio dei vasi comunicanti che Adorno ha adattato alla sociologia:
«Anche nella cerchia più ristretta, il livello si conforma al più subalterno dei suoi membri.»
Una sorte ben più complessa e strana è toccata a Don Giovanni nel mondo dell’arte. E il libro di Giovanni Macchia, Vita avventure e morte di Don Giovanni, uscito per la prima volta da Einaudi nel 1966 e ora ampliato, ce ne offre un quadro magistrale.
Seguendo le variazioni artistiche del personaggio, avanziamo in un universo di suggestioni magiche, di verità cangianti e illusorie; ci aggiriamo in prospettive deformanti, come in quei giochi ottici rinascimentali, le anamorfosi, che alteravano, con le loro proiezioni, una immagine, fino a renderla irriconoscibile.
Ecco apparire, tra i primi, il Don Giovanni di Molière, che anticipa, con un cinismo appassionato, le strategie dei libertini. Gli dobbiamo, in materia, almeno una battuta definitiva, per quanto possa valere l’aggettivo («Le inclinazioni nascenti, dopo tutto, hanno un fascino inesplicabile e tutto il piacere dell’amore è nel cambiamento»), cui si potrebbe opporre solo l’affermazione, altrettanto definitiva, di Spinoza («Tutte le cose tendono a permanere»).
Ecco Goldoni, a disagio con un personaggio così eccessivo, ed è fatale che affossi lui e la commedia (una delle sue più deboli) in una mesta ragionevolezza.
Si passa dalla prodigiosa, inafferrabile vitalità del Don Giovanni di Da Ponte e Mozart, mirabilmente librato tra commedia e tragedia, all’angelo decaduto di Hoffmann, che apre la serie delle interpretazioni romantiche, spesso volte a riscattarlo, a schiudergli, anche se con qualche comprensibile difficoltà, le porte del cielo, per arrivare infine all’amaro tramonto novecentesco, in cui il personaggio viene rinchiuso da Shaw nella felicità coniugale e da Auden in un manicomio.
Al termine della parabola il punto che nel percorso resta il più enigmatico non mi sembra sia il culmine o la fine, ma l’inizio.
Tutta l’immensa potenza che si sprigiona da un mito – e Don Giovanni è tra i pochi miti moderni – è sempre contenuta nella sua idea prima, così come il mito greco già celava, senza conoscerle, le variazioni apparentemente antitetiche che il tempo avrebbe apportato alla sua intatta, originaria energia. E infatti, risalendo a Tirso de Molina, direi che è possibile scoprire come la sua falda sotterranea sia riuscita ad alimentare correnti tanto lontane.
Nella scena notturna con cui si apre la commedia, la duchessa Isabella, dopo avere amato quello che lei crede il suo promesso sposo Ottavio, scopre sconvolta che è uno sconosciuto. Alla sua domanda atterrita: «Mio Dio! Chi siete? Chi siete?», Don Giovanni le dà una risposta memorabile: «Chi sono? Un uomo senza nome».
Allo stesso modo, travestendosi da marchese de la Mota, amerà Anna e, travestendosi da contadino, amerà Aminta. Ora la genialità di Tirso è di avere portato alle estreme e rivelatrici conseguenze la convergenza confusa che ognuno sente tra seduzione e travestimento.
Sedurre significa incarnare, agli occhi di un altro, la sua attesa. E questo, nella seduzione intenzionale, implica fatalmente un travestimento.
In Tirso esso arriva a un vertice insuperabile: non è solo la rinuncia alle proprie sembianze, ma l’assunzione di quelle altrui. La spersonalizzazione passa attraverso la maschera – in latino persona – di un uomo diverso. L’alienazione rinuncia perfino a quel riconoscimento di sé che, in Hegel, asservisce il padrone al servo.
Non manca solo l’amore, in cui l’accettazione di sé nello sguardo dell’altro trova la sua espressione più intensa, ma manca anche qualsiasi soddisfazione della vanità erotica; l’atto è distruttivo e questo è già adombrato nel titolo, che, come sempre nelle opere di valore, offre una chiave interpretativa di primaria importanza: il Burlador è l’ingannatore, il beffatore.
A questa idea non-erotica del travestimento si ricollega inoltre l’aspetto più ovvio e insieme più sconcertante della figura di Don Giovanni, almeno come fu ripresa e rielaborata dagli autori successivi: l’irresistibilità del suo fascino, che troverà la sua esaltazione grandiosamente e festosamente barocca nel «catalogo» di Da Ponte-Mozart:
In Italia seicentoquaranta,
in Almagna duecentotrentuna,
cento in Francia, in Turchia novantuna,
ma in Ispagna son già mille e tre.
Quello che ha sempre colpito la fantasia non è soltanto il numero delle conquiste, ma l’intimo convincimento, non privo di qualche apprensione, che tutte le donne, all’occasione, gli cedano: e solo una spersonalizzazione totale può spiegare, di questa attrazione, sia l’universalità sia la reciprocità.
Tale travestimento infatti non consiste tanto nell’aggiungere, quanto nel levare: nel togliere quegli elementi psicologici di disturbo che normalmente si frappongono tra la disponibilità dell’istinto e il suo soddisfacimento.
Don Giovanni può così manifestarsi come desiderio intensificato, concentrato, esclusivo, che, evitando gli abituali errori di un rapporto, non può alla fine che comunicarsi al proprio oggetto.
In questo oscillare tra conquista e rinuncia di sé, tra metamorfosi e privazione, è la novità e anche la grandezza del personaggio. E se Don Giovanni è diventata la maschera del mondo moderno, è perché la maschera è la sua essenza segreta.
[1978]