La «chiarezza» di Daumal
Annotava Jules Renard nel suo diario, in data 19 aprile 1899, con un tono diviso tra invidia e speranza:
«Scrivere delle cose che i bambini copierebbero nei loro quaderni! Questo vuol dire essere un classico.»
Questa frase, apparentemente semplice, diventa complessa quando se ne approfondiscano le implicazioni. Il bambino infatti è un lettore parziale e di un testo coglie solo alcuni significati, mentre gliene sfuggono altri che da adulto afferrerebbe. Ora poiché Renard non scriveva per i bambini né scriveva per essere inteso solo parzialmente, dalla sua frase si può dedurre questa conclusione: il testo è una stratificazione di significati, di cui quello superficiale deve essere comunque intelligibile.
In una lettera agli amici André e Cassilda, del 29 novembre 1938 (ancora inedita e che devo alla cortesia di Bianca Candian), Daumal torna in modi analoghi sull’età del lettore. È vero che la innalza ai quindici-diciotto anni, ma la differenza non è essenziale. Essenziale è invece l’affinità della funzione, che è di una verifica particolare del testo.
Scrive Daumal, annunciando la pubblicazione della sua opera narrativa più importante:
«Si chiama Monte Analogo […] Conterrà delle sostanziali digressioni scientifiche, psicologiche, metafisiche (e pata-), linguistiche, retoriche, etiche, mitologiche, ma vorrei che un lettore dai quindici ai diciotto anni potesse, saltandole a suo piacimento, leggere il tutto come un romanzo d’avventure.»
Traspare qui, in forma più articolata che in Renard, quanto sia significativa e insieme paradossale la verifica del lettore giovane, il cui fraintendimento è addirittura triplice: non può che capire parzialmente, è autorizzato a saltare delle pagine, e l’importante è che scambi Il Monte Analogo per un romanzo d’avventure.
Questo modo complesso e indiretto di concepire i rapporti con il lettore presuppone, in pari misura, distacco e partecipazione, scetticismo e fiducia. E anche una singolare cautela sia verso il proprio lavoro sia verso chi lo avvicina.
Gli appunti di Daumal pubblicati da Adelphi nell’edizione del Monte Analogo curata da Claudio Rugafiori nel 1968 e dedicati all’alpinismo («Viene qui chiamata arte» dice Daumal «la realizzazione di un sapere in un’azione») sviluppano tra l’altro un discorso di grande interesse sulle tracce:
«Quando vai alla ventura, lascia qualche traccia del tuo passaggio, che ti guiderà al ritorno: una pietra messa su un’altra, quell’erba piegata da un colpo di bastone. Ma se arrivi a un punto insuperabile o pericoloso, pensa che la traccia che hai lasciato potrebbe confondere quelli che ti seguissero. Questo riguarda chiunque voglia lasciare in questo mondo tracce del proprio passaggio. E anche senza volerlo, si lasciano sempre delle tracce. Rispondi delle tue tracce davanti ai tuoi simili.»
In questa digressione sulle tracce, ovvero in questa meditazione sui lettori, affiorano temi del pensiero taoista («Un buon camminatore non lascia impronte»), tuttavia c’è qualcosa che differenzia Daumal in modo decisivo: ed è la sua attenzione, sollecita e al tempo stesso prudente, per il lettore e per la sorte che il testo può incontrare presso di lui.
Questo atteggiamento elastico appare del resto, alla luce dei fatti, lungimirante, se ancora oggi grande parte della critica si limita a considerare Il Monte Analogo o un breviario di metafisica o un libro di avventure, quando è la sintesi indivisibile di entrambi: una sorta di itinerario verso un monte che deve essere perché c’è una metafisica e verso una metafisica che deve essere perché c’è un monte.
Per Daumal la chiarezza non è il valore, ma il valore non si esprime che attraverso di essa.
Questo potrebbe far pensare a un nuovo classicismo, con metamorfosi del Monte Analogo nel Monte Parnaso. Anche qui però c’è una differenza essenziale e forse può chiarirla un esempio geometrico.
Immaginiamo un triangolo la cui base è il fondo oscuro dell’essere e il cui vertice il punto chiaro della forma. Questo è il Monte Parnaso. Poi rovesciamo il triangolo e consideriamo il vertice, rivolto verso il basso, come il punto oscuro dell’essere e la base, in alto, come la forma oscura. Questo è l’Anti-Parnaso ovvero l’avanguardia cristallizzata: non l’avanguardia nella vitalità della sua insorgenza storica, ma nella sterilità della sua sopravvivenza ripetitiva (perché questo è il punto: c’è ancora posto per il dubbio e per la negazione in chi ha fatto del dubbio e della negazione il proprio universo?).
C’è però un terzo triangolo che, salendo dalla base chiara della forma, arriva al vertice chiaro dell’essere. Questo non è ancora il Monte Analogo, ma forse, a distanza, la sua immagine.
Daumal muove da un presupposto: la fede nella potenzialità enigmatica di un linguaggio chiaro.
Il discorso oscuro finisce per sottrarre all’esistenza proprio la sua oscurità, come il segno meno, moltiplicato per un altro meno, dà il più di una conferma. Solo il discorso chiaro può essere di una complessità inesauribile.
Il distacco da Breton non stupisce. La foresta surrealista tende irresistibilmente a trasformarsi in un parco all’inglese e il labirinto diventa un percorso a direzione prevedibile purché si sappia che, credendo di avanzare, si arretra.
Rispetto al surrealismo, il movimento centrifugo di Daumal nasce da una tensione metafisica che oltrepassa il movimento centripeto dell’inconscio.
Tuttavia la chiarezza di Daumal si allontana ugualmente da ogni modello classico che veda nell’ordine una fuga dal disordine dell’esistenza o, al contrario, nella simmetria dell’opera un riflesso della simmetria dell’universo.
È una chiarezza metaforica, allusiva, autoironica, discreta (tanto che il lettore giovane non deve avvertirla), che conosce il bersaglio, ma sa che per colpirlo non deve mirarlo.
A questi orientamenti di Daumal si collegano i suoi espedienti narrativi, la facilità con cui adotta metafore che l’uso ha reso «linguistiche», anzi la preferenza accordata a queste ultime (tranne qualche invenzione personale che comunque esprime sempre, con la stessa immediatezza del linguaggio comune, un senso globale, fisico, della realtà). E anche il suo ricorso a una tecnica narrativa tradizionale, proprio come la più idonea, nella sua chiarezza apparente, a coprire e nello stesso tempo a svelare significati e nessi non apparenti.
Nei suoi sottotitoli, ad esempio, non si tarderà a intravvedere, dietro l’enunciazione convenzionale degli argomenti, una catena di associazioni sotterranee. Ecco uno dei modelli secondo cui potrebbero ordinarsi quelli del primo capitolo:
Qualcosa di nuovo nella vita dell’autore – Le montagne simboliche – Un lettore serio.
Un parco interno e un cervello esterno – L’arte di fare conoscenza – L’uomo che carezzava i pensieri contropelo.
L’industriosa Fisica – La malattia di padre Sogol.
Una storia di mosche – La paura della morte.
Un progetto folle ricondotto a un semplice problema di triangolazione – Una legge psicologica.
Anche sul piano sintattico Daumal aderisce all’uso non per acquiescenza, ma, al contrario, perché esso gli consente, senza sottolinearli pericolosamente, però collaudandoli e verificandoli a livelli diversi, gli effetti più complessi.
Ecco, nello stesso capitolo, la semplice frase con cui egli introduce l’immagine della Montagna:
«Nella tradizione fiabesca, avevo scritto in sostanza, la Montagna è il legame tra la Terra e il Cielo.»
Grazie a questa struttura sintattica, la coscienza della Montagna emerge da un passato collettivo («Nella tradizione fiabesca») e da un passato personale («avevo scritto in sostanza»), ma filtra attraverso un presente acronico («la Montagna è il legame tra la Terra e il Cielo»), che appare fuori del tempo o meglio collocato in una duplice dimensione, del mito e della realtà.
Questo impiego di un linguaggio corrente per esprimere verità remote dai luoghi comuni supera, sul piano della scrittura, sia la fuga conservatrice nel passato sia la proiezione volontaristica nel futuro.
Esso è, a mio parere, il compito più importante che spetta alla narrativa contemporanea.
Certo comporta dal narratore qualcosa di più di quanto oggi si sia disposti a concedergli (o a pretendere): comporta una concentrazione ininterrotta sui significati delle parole e delle frasi («un senso a ogni frase», scriveva Daumal nella stessa lettera). Comporta una coscienza anche etimologica delle parole, un ricupero della loro originaria potenza e ricchezza di significazione.
Se la prosa dell’Ottocento, come auspicava Pound, doveva insegnare alla poesia del Novecento, oggi la narrativa non può ignorare quel ricupero della «significazione intenzionalmente complessa» che la parola poetica del Novecento ha già attuato.
Trattandosi di narrativa, tale qualità dovrà contrassegnare l’intera articolazione del racconto. C’è un parallelo tra la Montagna che deve esistere e la scrittura che deve significare. Per il narratore è qualcosa di più di una necessità o di un presentimento: è una certezza (così si intitola il saggio che Rugafiori ha fatto seguire al testo del Monte Analogo).
Questa fede era alla base della ricerca di Daumal ed è ancora oggi la sua eredità più vitale.
[1967]