«Dove va la letteratura?»

La domanda: “Dove va la letteratura?” mi sembra che celi, sotto la sua innocuità apparente, una mescolanza abbastanza bizzarra di presupposti e illazioni, di certezze e di ipotesi.

Il verbo “andare” insinua che la letteratura sia un essere che si muove, irrequieto e instabile, ansioso di lasciare il posto che occupa per trovarne altri.

Non è premessa priva di importanza, perché – mentre allude al punto più attraente dello scrivere, come del leggere, quello della ricerca – si oppone d’altra parte alla irresistibile e ricorrente tentazione di bloccare la libertà di movimento con i narcotici tradizionali o con la camicia di forza della sperimentazione a oltranza.

È solo un aspetto della tendenza più generale ad attenuare il dominio delle ideologie. C’è come un esodo dal monoteismo, finora considerato l’apice della religiosità, a un discreto – magari negato a parole, ma praticato nei fatti – politeismo: si comincia a intuire che l’universo dei Greci, con i suoi innumerevoli, inesauribili e metamorfici dèi, potrebbe essere abitabile anche per noi.

Trasposto in letteratura, questo non significa, almeno mi auguro, eludere le ideologie, le poetiche, i progetti di interpretazione, ma mantenere una distanza critica dal retroterra dei testi.

Anche un po’ di ironia non sarebbe male.

Sul futuro lontano è difficile pronunciarsi, perché il fanatismo è tentazione troppo gratificante per non riapparire sotto nuove forme: comprese quelle di un “moderatismo” a suo modo opprimente. Ma si può ragionevolmente sperare per i tempi brevi.

Date queste premesse, mi sembra che nella domanda: “Dove va la letteratura?” il “dove” rimanga fortunatamente senza risposta.

Credo che l’attuale moltiplicarsi di riviste letterarie esenti da pedaggi troppo gravosi alle ideologie obbedisca fondamentalmente a tale esigenza. Anziché programmare testi che confermino quanto si pensa o si dice, chi scrive deve forse muovere da un altro principio: “Il testo ne sa più di me”. O meglio, deve operare in modo che alla fine ne sappia più di lui, risulti più ricco e più strano di quanto potesse prevedere e programmare. E forse è l’aspetto più importante del lavoro letterario.

[1979]