Un eroe moderno

Il viaggio di ritorno dell’eroe alla terra natale è il tema non solo dell’Odissea, ma di un poema epico, I ritorni, che idealmente lo completava e che è andato perduto: tema affascinante, che doveva convergere con quello delle avventure marinare, diffuso già in età pregreca nell’area mediterranea, se un frammento egiziano, risalente al duemila avanti Cristo, ci presenta un naufrago, aggrappato a una tavola, che sbarca su un’isola meravigliosa: e tema occultamente religioso, in cui la meta era costituita dall’origine e il conoscere diventava alla fine un riconoscere.

Dilatato nello spazio e prolungato nei secoli, sarà il motivo conduttore dell’Eneide, il cui protagonista, approdando alla terra degli avi, compiva il vaticinio di Apollo: «Ricercate l’antica madre».

Nell’epos antico Ulisse, «bello di fama e di sventura», ritrovava a Itaca un mondo di valori intatto, incarnato da Penelope, colei che strappa il filo della trama, la trama corruttrice degli usurpatori, per ricostituire il tessuto dei diritti originari.

Nell’epos moderno di Horcynus Orca il protagonista non è più un condottiero vittorioso, ma un marinaio, nocchiero semplice della fu regia Marina, che, sullo sfondo della disfatta, varca lo stretto di Scilla e Cariddi per ritrovare un mondo sfigurato da una corruzione mostruosa, di cui l’Orca è l’emblema. E la sua morte casuale per mano di una sentinella, in un primordiale scenario marino, non è che il suggello tragico del suo precipitare verso un annientamento indecifrabile.

Leggere in chiave simbolica Horcynus Orca è da un lato inevitabile, ma dall’altro rischioso. Non direi però che la contraddizione nasca solo dalla riluttanza, di fronte alle opere più ricche, a circoscriverle entro i confini di una interpretazione e dal presagio che esse non potranno che oltrepassarli, come è proprio della loro energia inesauribile, della vita che misteriosamente le anima e le rende insieme vicine e inafferrabili.

La distanza tra creazione e analisi vi ha certo la sua parte. È questa distanza, del resto, la sfida che alimenta il coraggio di ogni opera; nessuna ambizione è più temeraria di quella dell’artista, che, anziché “realizzarsi”, come vorrebbero i più, tende a una meta infinitamente più importante: aggiungere vita alla vita, scoprire mondi che sfuggano alle possibilità di previsione e di controllo, labirinti in cui Dedalo si ritrova e si perde.

Il caso di Horcynus Orca è però più complesso. L’autore stesso infatti sollecita l’interpretazione simbolica, muovendo in una duplice direzione: sia suggerendo continue variazioni dei temi, come in un contrappunto musicale o in una prospettiva il cui punto di fuga sia l’infinito (e vi dominano le «fere», i delfini dello stretto, con la loro cangiante, iridescente vitalità, fatta di ferocia e di leggerezza, di crudeltà e di seduzione, di amore e di efferatezza); sia ritornando, con insistenza percussiva, su un unico significato, quello letterale, per ridurre la polarità di quello simbolico, fino a farli coincidere («Era l’Orca, quella che dà la morte, mentre lei passa per immortale: lei, la Morte marina, sarebbe a dire la Morte, in una parola»).

Eppure proprio la ininterrotta potenzialità simbolica dovrebbe indurre alla cautela: essa finisce per diventare non il problema da risolvere, ma il problema da porre. Anziché decifrare i significati molteplici dei simboli, occorrerebbe forse chiedersi il senso della loro onnipresenza enigmatica. In un mondo dove tutto acquista valenze simboliche, di che cosa è simbolo il simbolo?

Se dovessi rispondere con una parola direi: della metamorfosi. Perché Horcynus Orca è un mitico ed epico poema della metamorfosi.

La metamorfosi non solo sconvolge il paesaggio, devastandolo con le ferite della guerra, ma intacca la coscienza dei pescatori, trasformandoli in speculatori, in divoratori e commercianti delle ripugnanti «fere».

La metamorfosi rende il figlio irriconoscibile al padre e muta Ciccina Circè – la traghettatrice notturna di ’Ndrja sulle acque dello stretto, la custode di un universo di ombre – in una triviale apparizione diurna.

L’Orca stessa, squarciata dalle «fere» e morsa da nugoli di sarde, diventa una immane carogna, il cui fetore ammorba l’aria, ma non distoglie i «pellisquadre» dal tentativo di farne un immondo traffico.

E anche in quel lucido, quieto, estatico delirio che è il soliloquio di ’Ndrja durante il colloquio con don Luigi Orioles, il continuo sovrapporsi e mescolarsi e fondersi delle parole «barca», «bara», «arca», adombra la catastrofe tragica attraverso il misterioso travaglio di una trasmutazione linguistica.

La metamorfosi imprime un corso imprevedibile alla prosa dell’opera. In una stessa frase si amalgamano e si trasformano, per attrazione reciproca, termini, intonazioni e costrutti delle lingue della Sicilia, insieme con francesismi e latinismi; le parole nuove, che emergono da sostrati colti o popolari, isolati o intercomunicanti, si assimilano al contesto con stupefacente naturalezza. Talvolta un vocabolo muta nel corso della sua articolazione, come in un processo di moltiplicazione cellulare («finimondo, finimondorioles»). E questa plasticità è insieme matrice e frutto di una idea dell’essere come divenire.

Straordinaria è la frequenza, quasi a ogni periodo, della congiunzione “come”: a volte arcata tra una immagine e l’altra, a volte passaggio tra due punti contigui; spesso articolata in “come se”, che introduce l’idea di mondi paralleli e di mondi possibili. Nel mezzo non più la distanza, ma la relazione, non il percorso lineare, ma la discesa concentrica. Però il movimento non è solo centripeto, ma centrifugo: la forza che contrae il cuore è la stessa che lo dilata.

L’analogia, in Horcynus Orca, è lontana dalla similitudine classica, che dalla seconda immagine otteneva una intensificazione della prima, ma le lasciava distinte, nel nitore dei loro contorni; ed è solo apparentemente più vicina alla metafora barocca, che alludeva a convergenze del mondo inorganico, vegetale, animale, umano: ma il loro punto di incontro era il palcoscenico, mentre in Horcynus Orca la metamorfosi non è più il gran teatro del mondo, ma è il mondo.

Anche le citazioni allusive hanno una funzione analoga: in quell’universo di echi che è la letteratura, esse arricchiscono i suoni con l’eco di altri suoni, enigmatica metamorfosi che, alterandoli, li perpetua.

Così mi sono ritornati alla memoria certi versi del Purgatorio dantesco:

Era già l’ora che volge il disio

ai naviganti

e anche:

Noi andavam per lo solingo piano

com’uom che torna a la perduta strada,

che ’fino ad essa li pare ire in vano

leggendo, con reciproca intensificazione, un capoverso di Horcynus Orca:

«Era l’ora tormentosa degli spiaggiatori, di chi va, sinché è giorno, rivariva al mare e venendo notte, comincia a cercarsi con gli occhi un posto, una barca, un nascondiglio, dove fermarsi.»

La metamorfosi del suono, nella chiusa dell’episodio di Ciccina Circè, che con la sua barca si allontana da ’Ndrja:

«Gli parve di ascoltare, per miglia addirittura, le fere e il mare frusciante sotto di esse, sempre più fino e oscuro, sempre più confuso al silenzio della notte. Poi, sopra il silenzio, sentì solo il dindin della campanella, quel tintinnio d’unghia sull’orlo di un bicchiere; e lo sentì ancora, anche quando quel bicchiere sembrò riempirsi d’acqua come dovesse contenere tutta l’acqua del mare. E poi lo sentì ancora, anche quando intorno a lui, per aria, sul mare, nella notte, gli diventò inafferrabile ai sensi: lo sentì ancora e continuò a sentirlo, o a immaginare di sentirlo, nel suo orecchio, dentro, acconchigliato, senza suono, come dovesse sentirlo ormai per tutta la sua vita.»

Questa concezione metamorfica del linguaggio si accompagna alla consapevolezza della sua novità. Evitando il glossario, D’Arrigo non elude solamente ogni atteggiamento didascalico ed esplicativo nei confronti delle lingue cui attinge, ma rivela la sua ambizione di fonderle in un linguaggio unico, la cui forza persuasiva deve emergere, frase per frase, entro l’orizzonte dell’opera. Non emancipazione dei dialetti né eversione prodotta da accostamenti conflittuali e neanche satura di combinazioni imprevedibili: ma piuttosto la sfida di un linguaggio che sottraendosi, con la sua incessante metamorfosi, alla rigidità della norma, subordina però la presenza di ogni parola alla espressività del testo.

Di fronte al linguaggio dell’opera il lettore non dovrebbe dimenticare la posizione dell’autore: e anzitutto non auspicarne o promuoverne l’uso in altro contesto; non ridurre insomma a lingua di comunicazione – magari per eccesso di entusiasmo – il frutto di un impegno grandioso a superarne i limiti.

Ma altrettanto fuorviante sarebbe scambiare l’intenzione espressiva di D’Arrigo con la volontà di creare un universo linguistico “autonomo”, sul modello di Finnegan’s Wake di Joyce. È vero che una sterminata rete di nessi, rinvii e relazioni esplicite o dissimulate testimonia l’immensa articolazione e insieme l’unità del suo mondo fantastico. Mai però l’innovazione linguistica appare staccata dalla sua necessità evocativa, dalla sua evidenza plastica, dal suo potere di coinvolgimento corale.

Alla mobilità del linguaggio corrisponde altrettanta varietà dei piani narrativi. Si pensi solo all’inizio, luogo rivelatore di ogni romanzo, perché vi si concentrano, come in un nucleo genetico, le potenzialità dell’opera. In Horcynus Orca esso si richiama alle precise coordinate di tempo e di spazio della grande narrativa ottocentesca, ma contemporaneamente le dilata in amplificazioni epiche, con l’implicito paragone del viaggio di ’Ndrja e del viaggio del sole:

«Il sole tramontò quattro volte sul suo viaggio e alla fine del quarto giorno, che era il quattro di ottobre del millenovecentoquarantatré, il marinaio, nocchiero semplice della fu regia Marina ’Ndrja Cambrìa, arrivò al paese delle Femmine, sui mari dello scill’e cariddi.»

Ma già nel paragrafo successivo la narrazione passa dal racconto epico allo sguardo del protagonista e al linguaggio della sua memoria:

«Imbruniva a vista d’occhio e un filo di ventilazione alitava dal mare in rema sul basso promontorio. Per tutto quel giorno il mare si era allisciato ancora alla grande calmerìa di scirocco che durava, senza mutamento alcuno, sino dalla partenza da Napoli: levante, ponente e levante, ieri, oggi, domani e quello sventolio flacco flacco dell’onda grigia, d’argento o di ferro, ripetuta a perdita d’occhio.»

La molteplicità dei registri stilistici e narrativi, qui colta solo per minimi indizi, si manifesterà nel corso del romanzo su scala dilatata, come compresenza di dimensioni oniriche e realistiche, evocative e visionarie, soggettive e corali.

Il sogno diventa ritorno nella memoria (e consentirà a ’Ndrja di riprovare il primo contatto, da adolescente, con le donne sirene) oppure una discesa agli inferi dentro di noi (l’immagine del rossetto che rende ’Ndrja ripugnante a se stesso).

E un sogno a occhi aperti trasporta ’Ndrja dentro l’immensa grotta che si apre alla radice del cono vulcanico, nel cimitero delle «fere» che si inceneriscono nella schiuma ardente. Il trapasso tra un modo di sognare e l’altro diventa un unico processo, misterioso e fluido, un conoscere che è anche un vivere e un rivivere:

«Aveva l’impressione di avere sognato, una volta a occhi aperti e una volta a occhi chiusi: sino all’uscita dal cratere di Vulcano era a occhi aperti e poi, da lì in poi […] era a occhi chiusi e senza averne minimamente coscienza, qualche stampa di sonno, un attimo o due, doveva esserselo fatto, sennò che doveva pensare? che pure i pellisquadre […] pure il nome messo per rossetto sulle labbra, quel senso d’infeminamento che gli faceva, quell’incubo, in una parola, dal quale gli pareva di tornare poi alla realtà come da un sogno di profondissimo sonno, pure questo si sognava a occhi aperti, per quanto desiderio aveva che gli succedesse?»

Anche i bisbigli d’amore tra Caitanello e Acitana, che ’Ndrja bambino ascoltava dall’altra parte del tramezzo, subiscono nella memoria una metamorfosi e diventano lunghi, teneri, indimenticabili dialoghi lirici tra Aci e Galatea, dove riaffiorano tessere di mosaici classici, e tra Granvisire e Masignora, dove balenano scaglie di metalli medioevali.

Per verificare come dimensione realistica e dimensione visionaria, superficie e profondità, visibile e invisibile si trasmutino di continuo per fondersi alla fine nella potenza di un’unica immagine, basta rileggere la prima apparizione dell’Orca, mentre si ridesta negli abissi:

«La sua mente si smuoveva dal sonno di roccia, avvolta in nebbie nere, in nuvolosità nere fumose, il suo corpo immenso andava spostandosi nelle tenebre sterminate, impenetrabili dell’abisso, entro cui combaciava con le grasse scannellature e i grumi di sangue nero, nero come di pece, per tutta la sua terrificante, alta e lunga grossezza, come in un fodero di velluto nero, l’enorme mole affusolata andava spostandosi con possente, inesorabile lentezza: il fenomeno di natura fatalmente aveva inizio, fatalmente si muoveva al suo fine. Dagli sprofondi abissali veniva un rimbombo spento come il rotolìo di un tuono per quelle fosse e montagne sottomarine, e il mare alla superficie si scuoteva tutto.»

E nelle righe successive la visione naturalistica e quella geologica, l’immagine tecnologica moderna e quella mitica primordiale trovano una loro convergenza:

«L’animalone brancolava ancora cieco e sonnoso, oscuro e inavvertito come tutti i cataclismi nelle loro sotterranee origini, quando non se ne ha ancora segno e sono già sotto i nostri piedi. La sua immensa mole affusolata saliva, preceduta dall’alta pinna dorsale ad ascia, come un sommergibile dal suo periscopio, e salendo, dalle bocchette dello sfiatatoio sprigionava un sibilo come di fuoco che va per acqua, di lava di vulcano che erutta dagli abissi e raffreddandosi, forma un isolotto in superficie.»

La concezione del mondo come metamorfosi, che ispira il poema di D’Arrigo, affonda le sue radici nella religiosità mediterranea e nel prodigioso fiorire delle sue figurazioni a contatto con la civiltà dei Greci: incontro decisivo per la storia dell’Occidente, che produsse una mitologia di trasformazioni incessanti, degli dèi, degli uomini, degli animali, delle piante, degli elementi.

Questo mondo increato, soggetto ad un continuo mutamento, si manifesta in Horcynus Orca non solo nei richiami espliciti che proiettano la vita dei pescatori su uno sfondo di millenni (dalle feresirene a Ciccina Circè, da Marosa-Penelope a Scilla e Cariddi): ma in una visione mitico-religiosa che, varcando la mediazione trascendente del cristianesimo, entra in conflitto tragico con la civiltà contemporanea, fondata sull’assoggettamento della natura e sullo spossessamento dell’uomo.

Per questo D’Arrigo ha potuto creare un epos moderno, riprendendo, come Joyce nell’Ulisse, un tema mitico: perché in una età in cui il mito dominante è quello di dissolvere i miti arcaici, solo la tragedia incommensurabile della loro perdita può essere il tema della tragedia.

E si capisce, in questa prospettiva, come D’Arrigo avesse scelto, per laurearsi, una tesi su Hölderlin, il poeta che aveva cantato la perdita degli dèi in un’epoca di privazione.

Solamente ’Ndrja, pur provato da quella sofferenza muta che segna i nostri passaggi interiori e che coincide con una nuova coscienza della realtà, non si adegua a quella metamorfosi che negli altri è corruzione: nella degenerazione del mondo è l’unico personaggio che conserva una oscura, dolorosa fedeltà a se stesso.

Perciò la morte che tronca la sua giovinezza è insieme casuale e necessaria: la pallottola «che gli scoppiò in mezzo agli occhi con una vampata che lo gettò per sempre nelle tenebre» gli impedisce anche di aprirli a un mondo che non può accettare come suo.

Ha scritto Carlo Diano in Forma ed Evento:

«Ad Achille nessuna trasformazione è possibile, perché lo spazio ch’egli si porta dentro è immobile e fuori del tempo, e la luce ch’è nella sua figura è indivisa. Egli non ha perciò che una forma, come i suoi dèi, e mai, neanche a prezzo della morte, accetterebbe di vestire i cenci di Tersite. Ma Achille muore giovane, perché la forma, nell’urto con l’evento, non potendosi mutare né piegare, si spezza: Ulisse, mutabile e pieghevole, segue le spire dell’evento, e la morte lo coglie da vecchio. E le due morti sono anch’esse opposte come le due vite e conformi alla logica dei princìpi ai quali queste ubbidiscono, perché Achille va incontro alla morte vedendola e liberamente l’elegge, e Ulisse è ucciso per errore dal figlio Telegono, il “nato in terra lontana”, che egli non conosce.»

Nella ripresa moderna del mito le due figure trovano invece enigmatici punti di contatto, in cui si esprime l’eredità di due nuovi millenni: anche ’Ndrja, tornando nella sua terra, viene ucciso per errore da un uomo «nato in terra lontana», da un uomo che egli non conosce.

E tuttavia egli non è Ulisse, ma Achille, giovane, immutabile, o meglio non ancora toccato dalla metamorfosi.

Però quello che fa di Achille un eroe nel senso indicato da Heidegger, del “volere la propria morte”, è negato a ’Ndrja, che è colpito da una cieca, impenetrabile fatalità.

Eppure anche ’Ndrja è un eroe nel senso concesso dal tempo in cui viviamo: non conosce il proprio destino, ma vuole sottrarsi a quello degli altri, perché non vi si riconosce. È questo il pathos della sua giovinezza, della sua infinita pazienza, della coerenza in cui silenziosamente crede.

In un universo dominato dalla metamorfosi, la morte lo ferma per sempre in quella giovinezza ideale che, per essere eterna, per diventare eterna, deve sottrarsi al tempo.

[1982]