La vita «come se»
Un titolo che mi ha sempre affascinato è La filosofia del «come se», di Hans Vaihinger. Dico un titolo perché, fino a pochi anni fa, per me non era altro.
Sapevo sull’autore, un pensatore tedesco del secondo Ottocento, quello che ne dicevano le storie della filosofia.
Ma tra l’avvicinare un autore su un manuale e l’incontrarlo sulle sue pagine c’è la stessa differenza che seguire un itinerario su una carta geografica e percorrerlo a piedi.
Il titolo invece continuava ad agire.
Mi riaffiorava alla memoria nelle circostanze più diverse, favoriva le associazioni, stimolava la fantasia.
Savinio ha scritto che quasi sempre il titolo «contiene il meglio e il più significativo dell’opera» e ne trovava un esempio nel titolo di Ibsen Quando noi morti ci destiamo.
E non stupisce che al titolo – per aprire una breve parentesi – oggi si dedichino cure particolari, che un tempo, quando la cultura non era una industria, sarebbero state impensabili.
Allora i titoli facevano veramente corpo con l’opera e ne preannunciavano la struttura complessa con un enunciato semplice, di una linearità enigmatica, come I sette contro Tebe, Edipo a Colono, Commedia.
Oggi i titoli tendono generalmente a svelare molto, a volte tutto, e a volte anche di più: dilagano come l’acqua su un terreno che la prosciuga, ma lo spazio che guadagnano in superficie lo perdono in profondità. E mentre i titoli semplici rinviavano la enigmaticità al testo, che alla fine la riverberava anche su di loro, questi la anticipano, nel timore, spesso giustificato, che poi manchi.
Una cultura intimamente pubblicitaria quale la nostra direi che tende fatalmente a valorizzare il titolo, abituata com’è a scambiare il mistero con il misterioso, il fascino con l’affascinante, l’indicibile con quella incomunicabilità di cui si parla: che è poi una tendenza a sostituire i nomi con gli aggettivi, le persone con le funzioni, i fatti con le spiegazioni.
Il libro di Vaihinger, con il suo titolo preciso e insieme suggestivo, costituisce, almeno per me, un caso singolare.
Il testo mi è parso infatti deludente, ma per una ragione inconsueta: il suo limite non è di restare al di qua del titolo, ma di non oltrepassarlo.
Non bara, questo è vero, ma non sorprende.
Sviluppa in modo sistematico il tema del titolo e lo ingigantisce, come il braccio di un pantografo, che riproduce perfettamente, su scala modificata, un disegno: ma non vi aggiunge niente.
Naturalmente questa è una parziale esagerazione rispetto al libro.
Vaihinger amplia l’orizzonte quando cerca di dimostrare come tutta la costruzione del pensiero umano sia fondata su finzioni, valide solo in quanto utili, capaci cioè di promuovere e di intensificare la vita; a questa condizione l’uomo dovrebbe accettarle “come se” fossero vere, mentre sarebbero semplicemente schemi orientativi, spesso contraddittorii, elaborati per esigenze biologiche di adattamento e di sopravvivenza.
Questa singolare conciliazione di Kant, Nietzsche e Darwin, questa sintesi di criticismo, vitalismo e pragmatismo conserva tuttora una sua attualità nell’ambito delle ricerche sulla natura del conoscere.
Però la dimostrazione, se confrontata alla genialità del titolo, risulta, alla lettura, piuttosto opaca e scolastica.
Manca quel pathos del pensiero che rende memorabile un’opera filosofica. E manca anche quell’energia concentrata e vivificante che chiamiamo stile.
In definitiva, per ritrovare le associazioni fantastiche che il titolo mi aveva suggerito, dovevo in parte rimuovere l’impressione del testo.
Riemergeva allora intatta, con le sue infinite implicazioni e variazioni, l’idea centrale: che per me era sempre stata quella di una vita ipotetica, immaginaria, che corre parallela alla vita quotidiana e finisce non solo per sovrapporsi a essa, ma per sostituirla.
Noi viviamo “come se” la nostra vita fosse un’altra, “come se” la nostra condizione e il nostro destino fossero diversi da quello che sono.
E non parlo solo delle illusioni a occhi aperti, quelle dei bambini che agiscono “come se” fossero adulti o degli anziani che agiscono “come se” fossero giovani. Ma parlo di illusioni più occulte e tenaci, di rapporti che durano tutta la vita “come se” non fossero morti, di fraintendimenti che rimandano alla eternità il loro chiarimento.
Non sono per uno scioglimento indiscriminato degli equivoci: so bene che ci evitano risvegli troppo bruschi e che su di essi si fondano unioni esemplari.
Non per altro uno dei temi più atroci, nella narrativa dell’Ottocento, era la scoperta, post mortem, che il coniuge tradiva, come testimoniavano le lettere ritrovate in un cassetto: il problema più arduo, in questi casi, non era di accettare retrospettivamente il coniuge, ormai defunto, quanto la propria vita, vissuta “come se” il coniuge fosse stato fedele.
Comunque se si fosse più consapevoli di questo vivere ipotetico, dove non è più l’ombra che ci segue, ma siamo noi a seguirla, forse certe delusioni ci verrebbero risparmiate.
Le più frequenti ricorrono in campo pedagogico: adulti che ammaestrano i giovani “come se” credessero a quanto dicono, mentre pensano il contrario.
L’effetto è sicuro.
L’inefficacia, anzi la pericolosità, di troppi educatori non è infatti provocata dalla noia che suscitano, ma dalla falsità che rivelano.
Secondo Jung, nel potere magico delle parole non credono solo i sopravvissuti della preistoria, ma i genitori quando ripetono ai figli litanie che suppongono formative ed eludono l’unica forma di insegnamento che sia efficace: l’esempio.
Fatale che, stando così le cose, un pedagogista americano abbia detto:
«Volete fare qualcosa di più per i vostri figli? Fate qualcosa di meno.»
Anche nel campo del gusto, un tempo minuscola riserva di cacce individuali, le reazioni “come se” hanno finito per prevalere.
Si dichiara per tanti libri un consenso immaginario, “come se” piacessero.
Ma non penso ai casi più imbarazzanti di adulazione o di connivenza, dove la simulazione, per essere più persuasiva e crearsi insieme un alibi, finisce per convincersi di essere sincerità.
Penso a un ingannarsi più sottile, indotto da pigrizia, acquiescenza, amicizia, banalità dei confronti: diventato talmente costume che, quando un libro piace veramente, non si sa più quali parole usare, si disseminano nella frase attoniti “sinceramente” o contriti “onestamente”, che evocano solo il loro contrario.
Se l’analisi del linguaggio valesse in tribunale, chi usa questi avverbi non dovrebbe essere considerato troppo attendibile.
L’aspetto più sconcertante di questa droga linguistica non è lo spazio che vi occupa la pubblicità o l’interesse, ma la buona fede.
Si vivono esperienze banali “come se” fossero straordinarie.
E allo stesso modo che, in un disegno di Novello, un branco di visitatori in un museo si inebria, per un errore di catalogo, alla vista di un quadro mediocre (il vero Raffaello era nella sala successiva), così ci illudiamo di emozionarci “come se” ci emozionassimo.
Vivere “come se” sembra però, per certi aspetti, una necessità biologica.
Pare che non potremmo sopportare l’idea della morte, se non intervenissero poderosi e automatici meccanismi di rimozione. Siamo tutti condannati, ma consideriamo tali, con orrore, solo una sfortunata categoria di persone.
Viviamo “come se” non dovessimo che vivere: che è il modo moderno di prepararsi alla morte.
[1980]