Dietro un’ala di farfalla

«Io non penso, da vario tempo, ai miei sogni letterari, alterno lo studio alle cure entomologiche: allevo una straordinaria colonia di bruchi.»

Così scriveva Gozzano nel 1908, quando aveva venticinque anni, ad Amalia Guglielminetti. E aggiungeva:

«Immaginatevi che in una cassetta ho circa trecento crisalidi di tutte le specie, ottenute da bruchi allevati con infinita pazienza, per settimane e settimane; ora si sono quasi tutti appesi al coperchio graticolato e hanno preso la forma strana di crostacei stilizzati pel monile d’una signora. Fra pochi giorni saranno farfalle.»

A un poema sulle farfalle Gozzano, «l’amico delle crisalidi», come si definisce in un verso, lavorerà negli anni successivi.

Secondo il suo progetto l’opera doveva comprendere una serie di Epistole entomologiche, nelle quali seguire la metamorfosi di una famiglia di Vanesse Io, finché alla «moltitudine volante» delle prigioniere veniva aperta la finestra della stanza; e una serie di «monografie scientifico-sentimentali» dedicate a farfalle comuni o esotiche.

Anche il poema però rimase allo stadio di crisalide. Pubblicato parzialmente su giornali e riviste, fu lasciato interrotto da Gozzano due anni prima della morte, sopravvenuta a trentatré anni, nel 1916.

Nella edizione critica di Tutte le poesie curata per i Meridiani di Mondadori da Andrea Rocca, con un’introduzione di Marziano Guglielminetti, esso viene accompagnato, per la prima volta, dagli abbozzi e dai frammenti e costituisce la parte di rilievo maggiore: per la sua qualità, per la sua suggestione nell’ambito della ricerca poetica, e per la luce retrospettiva che getta sul mondo interiore di Gozzano.

Un interesse entomologico singolare Gozzano lo aveva rivelato fin da bambino: la madre ricordava che il suo passatempo preferito, quando aveva sette anni, era la classificazione delle farfalle che aveva catturato. Ma a questa curiosità si intreccia, già nella adolescenza, una attrazione per il loro significato simbolico. Con un amico di quegli anni le definisce «creature perfette», che vivono un giorno di sole, un giorno di bellezza e d’amore, e al tramonto muoiono.

Esse continueranno a tornare, come un Leitmotiv, nel corso della sua esistenza e della sua opera. Ed è difficile, e probabilmente erroneo, distinguere la dimensione scientifica della ricerca e quella visionaria dell’immagine.

A volte la prima sembra prevalere: come nel 1910, quando Gozzano collabora, nella valle di Champoluc, a un documentario sulle farfalle, che viene apprezzato dal Fabre, maestro degli studi entomologici.

Altre volte invece l’amplificazione fantastica impone la sua diversa verità; come nell’abbozzo in prosa dell’epistola VII:

«Ho cementato di mastice tutto l’apparato boccale dell’Acherontia e l’insetto si è librato per la stanza facendo sentire più forte più furibondo il suo grido d’oltretomba: grido misterioso […] grido che gela il sangue.»

Per individuare, al di là delle variazioni, l’unicità del tema, c’è una sequenza, nell’epistola VI, che è rivelatrice.

Gozzano vi si rappresenta chiuso nella propria stanza, mentre spia la metamorfosi delle crisalidi in farfalle.

La scena ricorda la lettera ad Amalia Guglielminetti, ma nuovi particolari ne mutano profondamente il senso, a conferma che l’arte oltrepassa l’immediato per poi ricuperarlo in una verità occulta. Le crisalidi sopite che pendono dal soffitto, dagli scaffali della libreria, popolano la stanza di presenze defunte, di apparenze che appartengono al passato. È come un regno intermedio tra la vita e la morte, colmo di una attesa immobile, necropoli che cela esistenze invisibili. E il poeta è un negromante che

custodisce gli spiriti captivi

dei trapassati, degli apparituri

(Paul Klee scriverà per il suo epitaffio: «Ho la mia dimora tanto tra i morti / quanto tra i non nati»).

La stanza non è più un laboratorio scientifico, ma

la reggia del non essere più,

del non essere ancora.

Vita e morte si incontrano e i loro volti si fondono in un volto nuovo.

La farfalla uscirà dalla crisalide come l’anima dal corpo: immagine che i Greci adombravano nella creatività del loro linguaggio, quando con una medesima parola, psiche, indicavano sia l’anima che abbandona il corpo sia la farfalla.

Proprio avanzando in questa prospettiva credo ci si avvicini al segreto della poesia di Gozzano. Come lui stesso ricorda, Psiche, «ad un tempo anima e farfalla», era spesso scolpita dagli antichi sulle loro stele funerarie. E Franz Cumont, questo viaggiatore nei mondi sotterranei e celesti dell’aldilà pagano, ce ne ha lasciato, nelle sue Ricerche sul simbolismo funerario dei Romani, suggestive testimonianze. Con ali di farfalla l’anima sale ai Campi Elisi, costellati di rose. E ali di farfalla ornano anche le spalle di Eros, il dio che rivela Psiche a se stessa e che per questo viene raffigurato con lei sui sarcofaghi: infatti le dure prove cui Psiche, nel mito originario, veniva sottoposta prima di unirsi per sempre al suo amante nell’Olimpo l’avevano trasformata, agli occhi del tardo paganesimo e del cristianesimo nascente, in un simbolo dell’anima penetrata dall’amore divino, che espia le sue colpe e sale al cielo.

Ma nel conflitto dell’amore terreno, a volte Psiche riusciva a vincere Eros, a volte, attratta dalla sua fiamma, come la falena, ne era arsa. Non ho mai dimenticato un avorio del Louvre in cui Eros, rappresentato come un bambino crudele, tiene sollevata, con le ali unite, una farfalla, torturandola sopra il fuoco.

Il simbolo di farfalla-psiche, della cui ricchezza Gozzano era pienamente consapevole, irradia la sua strana luce, non crepuscolare, ma aurorale, sulle Epistole entomologiche: lungi però dal segnare un momento di involuzione, esso è piuttosto il punto terminale di una ricerca durata una vita e ne suggerisce nuove modalità interpretative. La stessa incompiutezza del poema, e la successiva paralisi creativa, non direi siano dovute alla percezione di uno sviamento, ma più probabilmente al presagio di essere troppo vicino al cuore della propria creazione e al timore, portandolo alla luce, di soffocarlo. È opinione banale quanto diffusa che la meta di un artista sia di “esprimere se stesso”. L’arte non è solo discendere agli inferi, ma risalire alla luce: e forse Gozzano sentiva che, affrontando finalmente il tema della crisalide, della metamorfosi e della farfalla, era arrivato al nucleo della propria ispirazione fino a diventarne prigioniero, come un insetto al centro della ragnatela.

Un indizio lo troviamo in una sua lettera scritta un anno prima di morire, nel 1915:

«Da tempo non faccio più nulla e – sintomo migliore ancora – non soffro di non fare. Se scriverò ancora un volume, sarà la negazione di tutta l’opera compiuta, edita e inedita; e la parte inedita è molto buona, forse la produzione mia migliore; posso riconoscerlo senza modestia, perché oggi mi è indifferente come cosa non mia e non la pubblicherei a qualunque costo.»

Non occorre essere freudiani per immaginare come la “negazione” della propria opera nasca dal timore del suo compimento e come la decisione di non pubblicarne la parte migliore – frequente in artisti degni di questo nome – rifletta la volontà di non assistere alle proprie esequie.

Se infatti percorriamo a ritroso l’opera di Gozzano, vediamo che il punto di arrivo è parzialmente anticipato già nelle poesie dell’esordio, a cominciare da La via del rifugio, che apre la sua prima raccolta e le dà il nome; dove il ricordo di una farfalla torturata da tre bambine si accompagna a una percezione dolorosamente biologica del proprio destino:

Ma dunque esisto? O strano!

vive tra il Tutto e il Niente

questa cosa vivente

detta guidogozzano!

Il mondo poetico di Gozzano è stato troppo presto racchiuso in formule fuorvianti: malinconia crepuscolare, «le buone cose di pessimo gusto», il rimpianto di un passato provinciale; mentre il tema centrale è l’illusorietà del mondo,

reggia del non essere più,

del non essere ancora,

dominio del divenire e della metamorfosi, dove la farfalla che si schiude al volo è insieme l’anima che abbandona il corpo.

Si è scambiato per civetteria il suo interesse, negli ultimi anni, per i testi buddhisti («Ricorda Asvaghosa? Io non leggo altro, da qualche tempo…»), mentre l’illusorietà cangiante del mondo, essenza della meditazione buddhista, era l’unico aspetto che lo avesse veramente colpito nel suo viaggio in India, alla cuna del mondo.

Al presente inafferrabile viene preferito il passato vetrificato, immobile nel ricordo, il passato delle stampe, dei dagherrotipi, degli oggetti svuotati di ogni funzione e trasformati in presenze mortuarie nella cripta del mondo.

Una farfalla Atropo, con il disegno del teschio sul dorso, appare nel solaio della Signorina Felicita, dove un ritratto del Tasso diventa l’emblema della labilità della gloria:

Oimè! La Gloria! un corridoio basso,

tra ceste, un canterano dell’Impero,

la brutta effigie incorniciata in nero

e sotto il nome di Torquato Tasso!

E l’imbalsamazione della farfalla – tema sul quale ritorna con attrazione riluttante – suggerisce l’immagine della vita che uccide la vita per esaminarla da vicino, dopo che la si è resa inoffensiva.

Nelle lettere ad Amalia Guglielminetti l’incapacità di aderire al presente – all’amore – trova un alibi nel confronto impossibile («Voi non siete George Sand e io non sono Alfred De Musset») e nel confronto avvilente («Ci siamo salvati dalla sorte comune dei piccoli amanti»).

Un conforto malinconico è la anticipazione già commemorativa, funeraria, del futuro:

«Io provo una soddisfazione speciale quando rifiuto qualche bella felicità che m’offre il Destino. E quale felicità, Amica mia! Il nostro amore che sarebbe fiorito con tutti i fiori della primavera torinese! (così dolce per l’esule che ritorna!) anche la stagione sarebbe stata propizia alla nostra follia!»

E nella poesia L’ipotesi, in cui fantastica quella che sarebbe stata la sua vita nel mille e novecento quaranta, se avesse sposato Felicita, cancella, tra le date, quella dell’oggi:

Adoro le date. Le date: incanto che non so dire,

ma pur che da molto passate e molto di là da venire.

Questa fuga dalla immediatezza, questa metamorfosi vitrea del mondo, può avere tratto alimento anche dal presagio della fine precoce. Ma la perdita del presente, la sua inafferrabilità, sono anche un aspetto della nostra storia, che la grandezza della poesia di Gozzano ci rende trasparente.

La sorte postuma di Gozzano presenta molte analogie con quella di d’Annunzio, suo ideale antagonista: entrambi patrimoni cui il nostro Novecento ha attinto, cercando però contemporaneamente di nascondere il prestito. Anzi – a parte poche, meritorie eccezioni – si è tentato accuratamente, con un impegno degno di miglior causa, di limitarne la statura europea: con d’Annunzio l’impresa ha incontrato qualche difficoltà, anche perché l’Europa sembrava pensarla diversamente; ma con Gozzano il gioco di richiuderlo in una provincia del Piemonte, nell’innocua nostalgia di interni risorgimentali, è parso più agevole.

Abbiamo una vocazione particolare, che non ha niente di evangelico, a innalzare gli umili e ad abbassare i grandi: mentre sarebbe ora di togliere a Gozzano, classico minore, l’aggettivo che lo limita e restituirlo alla sua grandezza.

[1981]