Classici e anniversari

I classici ritornano attuali a scadenze periodiche: quelle degli anniversari.

Si preferisce la data della nascita, però, se è più vicina, si ripiega su quella della morte, punto di riferimento forse meno popolare, ma altrettanto certo.

Viviamo in un’epoca di commemorazioni, di riletture, di ritorni: siamo appena usciti da un periodo in cui il futuro era la certezza visionaria di milioni di persone, per entrare in un periodo in cui di presente c’è solo il passato.

L’attualità dei classici ha però una caratteristica ricorrente: dubita di se stessa.

Quesito tipico è infatti se il classico è attuale. Nella rettorica delle interviste culturali è un interrogativo immancabile, come in quella delle scuole antiche il confronto tra Ettore e Achille.

Gli intervistati lo sanno, anche senza preavviso, e di solito hanno preparato la risposta, più o meno ingegnosa: l’ambizione più comune non è di avvicinarsi alla realtà, ma di distinguersi dagli altri, e generalmente ci si riesce.

L’intervistatore concorda sull’assenso, che è la risposta desiderata, e, nella euforia di questa convergenza, ci si lascia con la conclusione che il classico è lo scrittore più vicino a noi. E poi non se ne parla più fino all’anniversario successivo.

Anche a me è successo di rispondere a una domanda simile. Talora me la sono posta io stesso, presentando un classico, e ogni volta ho trovato argomenti attendibili per l’assenso.

Ma poi mi sono reso conto che non era vero.

È stata l’invariabilità della risposta a rendermela sospetta: e in effetti si potrebbe ogni volta contrapporre, agli argomenti a favore dell’attualità, altrettanti che la vanificano.

Si celebra ad esempio, nel bimillenario di Virgilio, il suo amore per l’agricoltura, auspicando un ritorno collettivo alla campagna: ma non si può neanche dimenticare che gli antichi divinizzavano le fonti, i boschi, i fiumi, e i Romani anche i lavori dei campi. Sant’Agostino ricorda, in un passo della Città di Dio, gli dèi dell’arare in superficie e dell’arare a grandi solchi, del seminare, del sarchiare, del mietere, del trasportare le messi, del riporle nel granaio. Mentre, come scriveva Leopardi in una nota del canto Alla Primavera, «oggi, stante la mancanza delle illusioni, la terra stessa, e l’albergo stesso dei vivi, è divenuto sede di morte».

La tesi opposta, quella della inattualità, è però altrettanto parziale: perché è anche vero che attraverso la intuizione analogica, la ricostruzione concettuale e la immedesimazione emotiva noi possiamo ogni volta gettare un ponte che valica l’abisso tra i due universi. E quindi le esperienze e le idee degli antichi continuano a suscitare nuove esperienze e nuove idee, in una reviviscenza misteriosa.

Ma che cosa ha in comune questo rapporto, intermittente quanto essenziale, con quella confusione di lingue, di informazioni e di chiacchiere, che è ciò che si intende per attualità?

Semmai un classico quale Virgilio, come ha detto Borges, è qualcosa di più che attuale, è eterno (anche se il termine non possiamo prenderlo alla lettera).

C’è chi ha irriso a Orazio, perché affermava di erigere un monumento più duraturo del bronzo, ma mai come nel suo caso occorrerebbe la cautela, considerando il suo stato di salute dopo duemila anni.

Se pensiamo che oggi un volume, come dicono gli esperti con vocabolo illuminante, si brucia generalmente nel giro di tre settimane, duemila anni di presenza in epoche non sempre propizie al commercio librario ci possono orientare sulla nozione di attualità da riservare ai classici.

Cosicché, invece di chiederci se Virgilio è attuale, dovremmo porre la domanda in termini diversi e cioè: siamo attuali noi rispetto a Virgilio?

Per verificarlo non c’è che una via, piana, anche se poco frequentata: leggerlo. Niente può infatti sostituire il contatto diretto. È stata del resto l’intensità del contatto diretto a decidere la sua sopravvivenza, benché alcuni studiosi sembrino dimenticarlo.

La prima sensazione che si prova, leggendo un classico, è di familiarità. Ci sembra strana perché ci aspetteremmo il contrario. Invece sta parlando per noi, dice cose che ci riguardano. E questo si accompagna a un senso di leggerezza, di piacere, e anche di emozione profonda, di vivificante vertigine. Ci rivela quello che non sapevamo di sapere e parla in un linguaggio che facciamo nostro, che impariamo a memoria, par cœur, come dicono, con espressione più intensa, i francesi.

Questa familiarità è lo sfondo del rapporto con i classici, gli “amici segreti”, così li chiamava il Petrarca: e la mediazione critica può favorirla od ostacolarla, secondo i casi.

Si può essere intimiditi dalla scarsità della preparazione culturale, soprattutto quando se ne sopravvaluta l’importanza in rapporto al testo; come si può essere sviati dal commento storico e filologico quando, anziché renderlo più trasparente, gli si sovrappone.

Il problema centrale è quello della distanza, che richiede una attesa paziente, una attenzione continua.

Ci sono due modi di tradire il passato: accentuare la distanza o sopprimerla.

Al primo tende certo filologismo maniacale, che cerca di annullare ogni voce nella polifonia del coro. È vero che nel mondo antico il gioco delle citazioni, esplicite o allusive, era favorito anche da fattori pratici, che non vengono generalmente ricordati: l’abitudine della lettura ad alta voce e l’apprendimento a memoria, che sostituiva l’acquisto di libri troppo costosi. Ma chi parla solo di imitazioni e di plagi dimentica che, se la letteratura è sempre stata una misteriosa valle di echi, quello che li diversifica non è la nota, ma il timbro.

Questa sordità può spiegare come per oltre un secolo la filologia tedesca, nei suoi esponenti più prestigiosi, non abbia saputo percepire l’originalità di Virgilio e come un Niebuhr sia arrivato a scrivere: «Virgilio è uno degli esempi più notevoli di come un uomo possa mancare alla sua vocazione».

Non si tratta comunque di sordità rara, quanto tipica, alle cui radici si trova non l’amore per l’opera, ma una aggressività cartacea, un narcisismo distruttivo.

Forse a critici di questa specie pensava Yeats, nella poesia intitolata The Scholars, quando scriveva:

Teste calve, obliose dei loro peccati,

vecchie, dotte, rispettabili teste calve,

pubblicano e annotano i versi

che giovani, insonni nei loro letti,

rimarono nella disperazione d’amore

per blandire l’orecchio ignaro della bellezza.

[…]

Tossiranno nell’inchiostro

fino al giorno del giudizio.

E alla fine si chiedeva:

O Signore Iddio, che cosa direbbero

vedendosi venire incontro il loro Catullo!

Ma anche la soppressione della distanza tradisce il passato: lo dimostrano certi manipolatori brillanti, che si suole definire spregiudicati anziché banali, e certi turisti della storia, che, facendo coincidere l’oggi e l’ieri, danno il loro modesto contributo a fraintendere entrambi.

Solo la coscienza della distanza può avvicinare il classico e insieme conservarlo nella sua lontananza: due atteggiamenti difficili da fondere in un sentimento unico. Eppure solo questa fusione può accrescere e intensificare, come tra due persone, la vitalità di un rapporto.

[1981]