Sfacelo di un’utopia

«La Divina Commedia non deve essere considerata un poema epico: metterla a confronto con i poemi epici non dà, di regola, alcun profitto. È invece, in un certo senso, lirica, la tremenda lirica del soggettivo Dante.»

Così scriveva, nello Spirito romanzo, del 1910, Ezra Pound, sette anni prima di pubblicare i primi tre Cantos: e la Commedia sarà il miraggio retrospettivo che lo orienterà nel deserto della nostra epoca, che chiedeva, come egli dice in un verso di Mauberley, solo stampi di argilla.

Questa interpretazione lirica del modello spiega come Pound sapesse felicemente eludere qualsiasi tentazione di ricalcarne la struttura e le simmetrie («Non si può seguire il cosmo dantesco in un’epoca empirica»), ma al tempo stesso ne conservasse, in modi trasposti, alcuni fondamenti: la totalità etica, la prospettiva universalistica, che poneva al centro la condanna dell’usura quale premessa di un rinnovamento dei rapporti umani, e la coesione gravitazionale di mondi poetici, stilistici e linguistici apparentemente estranei, come galassie centrifughe in continua espansione, ma all’interno di un solo universo.

È certo più agevole individuare i punti di divergenza tra Dante e Pound, anziché quelli di contiguità: ma è forse meno illuminante. E deve avere un significato essenziale che le opere di maggior rilievo nelle ricerche espressive del Novecento, l’Ulisse nella prosa e i Cantos nella poesia, affondino le loro radici in altre opere, nell’Odissea e nella Commedia, l’una all’origine, l’altra al centro della tradizione occidentale.

Entrambe si configurano come una ricapitolazione della storia umana, attraverso l’adesione a un presente che si estende al passato, per riviverlo in una contemporaneità totale.

Lo stesso Pound, a proposito dell’Ulisse, ha parlato di compendio:

«Joyce ha fatto ciò che Flaubert si era proposto di fare in Bouvard e Pécuchet, l’ha fatto meglio, più succintamente. Una epitome.»

I Canti Pisani formano la sezione più drammatica e memorabile del poema.

Scritti subito dopo la prigionia, per collaborazionismo, nel campo di concentramento di Coltano, dove Pound era stato rinchiuso in una gabbia esposta al sole, esprimono, in un coacervo di immagini balenanti, lo sfacelo di una utopia, il crollo di un mondo visionario in cui il poeta si riconosceva e l’evidenza di una realtà a cui egli può opporre solo la disperata voce dell’ego scriptor.

Grande è stata in Italia l’influenza esercitata dai Cantos sulla ricerca poetica, tra il Cinquanta e il Settanta, grazie anche alla mediazione critica di Anceschi, che ha avuto un peso decisivo nella esplorazione del loro retroterra e nel raccordo tra passato e futuro.

Non so se questa eredità sia oggi altrettanto operante.

Eppure quella inclusività totale di cui parla Raboni nella prefazione delle Prove e frammenti dei canti CX-CXVII, resta il limite estremo cui la poesia è potuta giungere nel chiedere, a se stessa, tutto.

Certo questo coraggio è stato pagato, a volte, con il sacrificio della poesia stessa, non dico a causa delle oscurità, quanto del contrario, di luci troppo abbaglianti.

Ma io credo che la sensazione misteriosa e potente che suscita la poesia dei Cantos, quella di una coincidenza dei tempi nella eternità della parola, continui ad agire.

[1981]