Versailles nella Toscana di Collodi
Nel 1875 Collodi era segretario di prima classe presso la prefettura di Firenze. Aveva quarantanove anni e alle spalle una malinconica carriera di giornalista arguto, un repertorio di commedie di discreto successo e di romanzi destinati ad assicurargli l’oblio (I misteri di Firenze).
Aveva anche diretto, a più riprese, un giornale satirico-politico, «Il Lampione», che doveva «far luce a chi brancolava tra le tenebre»; ma non pare che gli sperduti nel buio ne traessero giovamento.
Sei anni lo dividevano ancora da Pinocchio e certo a quell’epoca non aveva alcun presentimento di diventare immortale per la Storia di un burattino (questo era il titolo originario).
Del resto non lo presentirà nemmeno quando l’avrà cominciata, tanto che, inviando le prime cartelle al «Giornale per i Bambini», scriverà al Biagi:
«Ti mando questa bambinata, fanne quel che ti pare; ma, se la stampi, pagamela bene per farmi venir la voglia di seguitarla.»
Il 1875 avrà una importanza decisiva per il creatore di Pinocchio: è l’anno del suo incontro con Perrault e con i favolisti francesi, che il libraio-editore Paggi gli chiede di tradurre. Collodi accetta e già entro l’anno escono I racconti delle fate, che lo orienteranno per sempre verso la letteratura infantile.
Il destino di Charles Perrault presenta qualche analogia – nel nome appunto delle fate-destino, fata viene da fatum – con quello di Collodi.
Anche lui approda alla fiaba in età matura, dopo i cinquant’anni, quando, rimasto vedovo e con tre figli ancora piccoli, decide di prendersi cura della loro educazione.
Frutto di questa esperienza pedagogica sono, a distanza di tempo, i Racconti di Mamma Oca, che Perrault raccoglie nel 1697, a quasi settant’anni, nel volume Storie o racconti del tempo passato: opera per lo meno singolare in uno studioso che, disputando con Boileau, aveva inaugurato la Querelle des anciens et des modernes, per dimostrare la superiorità di questi ultimi; e che da giovane, abbandonata la scuola, aveva contestato gli antichi in un modo che oggi sarebbe insolito, leggendoli prima di tutto, per poi “travestire” in forma caricaturale il libro VI dell’Eneide.
Una certa esitazione Perrault doveva però averla, se attribuì al figlio minore Pierre la paternità dei Contes; né sono mancati studiosi autorevoli che l’hanno preso in parola, mostrando una fantasia ancora maggiore.
È probabile comunque che tra padre e figlio ci fosse collaborazione e che il figlio collaudasse gli effetti dei racconti; esiste, nel manoscritto di Cappuccetto Rosso del 1695, una nota in margine che allude alla sua oralità: «Queste parole vengono pronunciate con una voce forte per fare paura al bambino come se il lupo stesse per mangiarlo».
È probabile che il figlio fosse un ascoltatore-guida. E che, seguendo questa traccia, ci si possa avvicinare al segreto narrativo di Perrault.
Raccontare una favola a un bambino è una esperienza affascinante. Il bambino infatti è un test assolutamente trasparente. Non che sia incapace di fingere, anzi, dipendendo dagli altri, non c’è animale “politico” come lui. Solo che, essendo inesperto, non cerca di lusingare il narratore. Il suo viso, i suoi occhi soprattutto, sono, per chi gli parla, una guida insostituibile. Il suo interesse, che si concentra esclusivamente sull’azione, la sollecita quando essa è rallentata da pause descrittive. Un’altra singolarità è il suo atteggiamento di fronte alle parole, che per lui sono soltanto un mezzo per evocare l’azione e hanno un significato univoco, quello letterale.
Per questo narratori sapienti come Renard e Daumal, che ambivano alla semplicità immediata del loro strato di superficie, avrebbero voluto la verifica di un lettore molto giovane. Il bambino è infatti insensibile alla complessità, alle sfumature, alle zone intermedie. Non per altro, se la maturità preferisce certi avverbi, come “abbastanza” e “spesso”, sapendoli adeguati alla realtà, l’infanzia predilige “sempre” e “mai” e il grado superlativo degli aggettivi.
È probabile che Perrault dovesse all’ascolto di suo figlio se poté diventare un supremo scrittore orale: nel senso che mantenne, della oralità, le virtù essenziali, eliminandone però i pericoli più frequenti, che sono la dispersività e la ripetizione. Il suo «contatto diretto con l’ascoltatore» elude infatti eclissi e interruzioni; ma vi riesce grazie a una operazione letteraria e scritta di amplificazioni e di tagli.
Per constatarlo basta un raffronto tra la redazione del 1695 e il volume del 1697, dove i miglioramenti si sono realizzati in una duplice, cartesiana direzione: quella della essenzialità e quella della chiarezza.
In un altro punto poté essere decisiva la collaborazione del figlio: nel gusto della crudeltà. Il termine di “innocente”, che continua ad essere associato al bambino, può essere accettabile solo ricuperandone il significato originario di in-nocens, che non può nuocere. Quando il bambino ha la possibilità e la voglia di nuocere – con una lucertola, ad esempio – lo fa gioiosamente.
«Quell’indifferenza al dolore di cui siamo causa, e che, qualunque altro nome le si possa dare, è la forma terribile e permanente della crudeltà» – come la definisce Proust – è un tratto tipico, anche se episodico, del bambino. La forza infatti produce inibizione e l’inibizione è la vera forza dell’adulto. Né l’hanno scoperto solo Freud e Lorenz, ma alcuni dei loro venerabili progenitori, i Padri della Chiesa, come Agostino:
«È la fragilità delle membra infantili a essere innocente, non l’anima dei bambini. Io ho visto e studiato un piccolo in preda alla gelosia: non parlava ancora eppure guardava livido, con occhio torvo, il suo compagno di latte. Chi del resto non lo sa? Madri e nutrici affermano di sapere eliminare questi atti con non so quali rimedi […] Certo non li si può ritenere innocenti […] Li si tollera con indulgenza, non perché siano inconsistenti o da poco, ma perché sono destinati a scomparire con la crescita. Tant’è vero che quegli stessi atti non li si può più sopportare con indifferenza, se vengono sorpresi in un adulto.»
Proprio nella ferocia senza riscatto, perché priva di inibizioni, sta una caratteristica essenziale delle storie di Perrault.
Scorriamone qualche esempio, cominciando, si intende, dal meno vistoso, come il gatto con gli stivali che va a caccia di conigli con un sacco:
«Appena si fu sdraiato, ebbe subito la grazia. Eccoti un coniglio, giovane d’anni e di giudizio, che entrò dentro al sacco: e il bravo gatto, tirando subito la funicella, lo prese e l’uccise senza pietà né misericordia.»
E passiamo all’Orco di Puccettino:
«Saltò dunque il letto bruscamente, e prendendo il coltellaccio:
“Andiamo un po’ a vedere” disse “come stanno queste birbe; e facciamola finita una volta per tutte.”
Quindi salì a tastoni nella camera delle sue figlie, e si avvicinò al letto dove erano i ragazzi, i quali dormivano tutti, meno Puccettino, che ebbe una gran paura quando sentì l’Orco che gli tastava la testa, come l’aveva già tastata ai suoi fratelli.
L’Orco sentendo la corona d’oro, disse:
“Ora la facevo bella davvero! Si vede proprio che ieri sera ne ho bevuto mezzo dito di più.”
Allora andò all’altro letto, e avendo sentito i berretti dei ragazzi:
“Eccoli” disse “questi monellacci! Lavoriamo di fino.”
E nel dir così, senza esitare, tagliò la gola alle sue sette figliuole.
Contentissimo del fatto suo, andò di nuovo a coricarsi accanto alla moglie.»
Si potrà obbiettare che è un Orco. Ma i genitori dei sette ragazzi non sono più edificanti. Cercano invano di perderli nel bosco, con il pretesto di non vederseli morire di fame sotto gli occhi. E fin qui potrebbe essere pietà (anche se mitologia e psicanalisi offrirebbero altre interpretazioni).
Ma quando, grazie alla riscossione di un credito, entrano in possesso di dieci scudi, a chi pensa il padre? Ai figli? No. «Il taglialegna mandò subito la moglie dal macellaro.» E, quanto alla madre, se ne ricorda sì, ma quando? «Quando furono pieni, la moglie disse:
“Ohimè! dove saranno ora i nostri figliuoli?”».
Il quadretto dei genitori è completato dalla coppia parallela e simmetrica dell’Orco e di sua moglie; una coppia affiatata, un ménage riuscito, con una consorte che tende ad accontentare, appena può, il coniuge: «perché quest’Orco, in fin dei conti, era un buon marito, quantunque fosse ghiotto di bambini».
Anche Barba-blu, con la sua stanzina segreta, dove si entra solo con una chiave fatata, riserva alla moglie curiosa qualche sorpresa:
«Dapprincipio non poté distinguere nulla perché le finestre erano chiuse: ma a poco a poco cominciò a vedere che il pavimento era tutto coperto di sangue accagliato, dove si riflettevano i corpi di parecchie donne morte e attaccate in giro alle pareti. Erano tutte le donne che Barba-blu aveva sposate, eppoi sgozzate, una dietro l’altra.»
Altre volte invece le storie rivelano risvolti meno cruenti, ma forse più spietati.
L’infanta di Pelle d’Asino, ad esempio, oggetto delle brame incestuose del padre, riceve da lui un vestito color della luna e rimane «invaghita in quel primo momento più del magnifico vestito che di tutte le attenzioni di suo padre»; e anche Cenerentola, trionfo, agli occhi dei posteri, di un binomio rassicurante, povertà e mitezza (ma il racconto suggerisce l’irrealtà dell’evasione, a mezzanotte tutto deve ritornare come prima, pena la rottura dell’incantesimo), anche la candida fanciulla, circondata da una matrigna invidiosa, un padre idiota e due sorelle implacabili, si fa a sua volta beffa della sorella Giulietta.
Insuperata rimane comunque la storia di Cappuccetto Rosso, che persino i tedeschi interpellati dai Grimm non ebbero cuore di far digerire dal lupo e fecero salvare da un cacciatore di passaggio. Invece Perrault, mettendo in irrimediabile angustia pedagoghi e moralisti, che non sono ancora riusciti a conciliare l’enormità della pena con l’esiguità della colpa («discorrere per la strada con gente che non si conosce», ad esempio con un lupo), non concede appelli e, unico tra gli autori di fiabe, nega il lieto fine: «quel malanno di Lupo si gettò sul povero Cappuccetto Rosso, e ne fece un boccone».
Per questa via Perrault riuscì in una impresa rarissima, quella di farsi ascoltare dai bambini e leggere dagli adulti: che intendesse infatti rivolgersi anche alla Corte lo si deduce da molteplici indizi, tra cui le moralités ironiche alla fine di ogni fiaba e le allusioni maliziose dissimulate nella narrazione; lui stesso accenna a un diverso «grado di penetrazione di quelli che leggono».
L’equilibrio prodigioso si spezza con le altre due autrici della raccolta di Collodi: Madame d’Aulnoy e Madame Le Prince de Beaumont, la prima contemporanea, la seconda di poco posteriore a Perrault. Il loro contributo ai Racconti delle Fate, un genere che ebbe una fioritura splendida ed effimera tra Sei e Settecento alla Corte del Re Sole, è prezioso e raffinato, ma il pubblico cui si rivolgono, soprattutto la prima, è quasi esclusivamente quello di Versailles. Il bambino, con le sue esigenze prepotenti ed elementari, con la sua fame di fatti, il suo piacere dell’aggressività, della beffa e del comico, è lontano.
Prevalgono i toni galanti e cortesi, gli indugi delicati che preannunciano il romanzo sentimentale, le similitudini mitologiche estranee alla tradizione popolare: la Regina Fiorina, che nell’Uccello Turchino tuffa i piedi in un ruscello, sembra «Diana che si bagna di ritorno dalla caccia»; mentre, nelle feste di fate della Gatta Bianca, «ciascuna era seduta in una conchiglia più grande di quella di Venere, quando uscì dal mare».
Abbondano nella d’Aulnoy immagini eleganti e suggestive, ma si direbbe che le sue invenzioni, staccandosi dal folclore, perdano in verità e durata.
Una tendenza più razionalistica si delinea in Madame Le Prince de Beaumont, che in un Settecento avanzato cerca di aggiungere ai vanti tradizionali dell’aristocrazia (distacco, autodominio, rispetto di una norma superiore) anche l’utilità sociale, così che fra le tre grazie (nobiltà, ricchezza, bellezza) si inserisce, come alibi, la virtù. «Il buon Re», nel Principe Amato, la richiede alle fate per suo figlio:
«A che gli servirebbe di esser bello, ricco e padrone di tutti i regni del mondo, se fosse cattivo? Voi sapete meglio di me che sarebbe un disgraziato, perché non c’è che la virtù che renda veramente felici.» Il Principe Amato, futuro sovrano illuminato, è dunque messo sull’avviso:
«Il vantaggio di trovarsi padrone di un grande impero, non sta nel poter fare tutto il male che si vuole, ma tutto il bene che si può.»
Siamo di nuovo nella pedagogia moralistica, quella che produce, su bambini e adulti, la catastrofe più comune, la noia.
In compenso Madame Le Prince de Beaumont ci ha lasciato una fiaba stupenda, La Bella e la Bestia, in cui la delicatezza del disegno psicologico si accompagna a quella bizarrerie che era, secondo Boileau (e secondo Saint-Beuve, che lo cita), un dono di Perrault.
A prevenire nel lettore «atti subitanei di stupefazione», Collodi lo avverte, in una nota premessa alla sua traduzione dei Racconti delle fate, di essersi concesse «leggerissime varianti, sia di vocabolo, sia di andatura di periodo, sia di modi di dire»; ma aggiunge: «Peccato confessato, mezzo perdonato: e così sia».
A dire il vero i peccati di Collodi sono tanti e, come accade nella vita (almeno per taluni di essi), sono tra le esperienze più piacevoli.
La Corte del Re Sole si trasferisce, con il suo seguito luminoso, in una Toscana insieme granducale e umile. Ed ecco la consorte di Barba-blu «tracheggiare» di fronte alle richieste del marito, ecco le sue vicine «sgonnellare» per le sale, i guardaportoni che si addormentano «trincando» e le cento guardie di Pelle d’Asino che diventano «cento giandarmi», ecco il Principe che è «abbastanza prudente» da non fare osservare alla Bella Addormentata, ridestatasi dopo un secolo, che era «vestita come la mi’ nonna» (per non dire della sua pelle che, «quantunque sempre bella e bianchissima, era diventata un po’ tosta»).
La fata «madrina» di Cenerentola diventa la sua «Comare», fiere e mercati emigrano dalla Francia in Italia, dove si arricchiscono di teatrini (anticipazione di quello indimenticabile di Pinocchio) e le marionette emulano le ballerine pergolensi e scaligere:
«Dentro alla carrozza c’erano quattro marionette più vispe e più graziose di quelle che si vedono sui teatrini alle grandi fiere di Padova e di Sinigaglia, e facevano delle cose molto sorprendenti, in specie due piccole egiziane, le quali ballavano la sarabanda e il minuetto meglio di tutte le ballerine della Pergola e della Scala.»
Soprattutto nelle moralités traspare la ricreazione, popolaresca e sapida, di Collodi, che anticipa i toni beffardi di Pinocchio. Risaliamo, per un confronto, alla complessità ambigua e courtoise della Belle au bois dormant:
Attendre quelque temps pour avoir un Époux,
riche, bien fait, galant et doux,
la chose est assez naturelle,
mais l’attendre cent ans, et toujours en dormant,
on ne trouve plus de femelle,
qui dormît si tranquillement.
La Fable semble encor vouloir nous faire entendre,
que souvent de l’Hymen les agréables nœuds,
pour être différés, n’en sont pas moins heureux,
et qu’on ne perd rien pour attendre;
mais le sexe avec tant d’ardeur,
aspire à la foi conjugale,
que je n’ai pas la force ni le cœur,
de lui prêcher cette morale.
E paragoniamola con la semplicità domestica e sorniona di Collodi:
«Se questo racconto avesse voglia d’insegnar qualche cosa, potrebbe insegnare alle fanciulle che chi dorme non piglia pesci… né marito. La Bella addormentata nel bosco dormì cent’anni, e poi trovò lo sposo: ma il racconto forse è fatto apposta per dimostrare alle fanciulle che non sarebbe prudenza imitarne l’esempio.»
Nella moralité del Gatto con gli stivali Collodi aggiunge addirittura una frase che ridimensiona, con l’impiego grottesco del cognome, la sentenziosità un po’ inamidata che la precede:
«Da questo lato, la storia del gatto del signor marchese di Carabà è molto istruttiva, segnatamente per i gatti e per i marchesi di Carabà.»
Affiora spesso in Collodi una tendenza ironico-riduttiva, che si manifesta linguisticamente nella predilezione per i diminutivi, assenti nell’originale, e che ritroveremo in Pinocchio («porticina», «stanzina», addirittura «piccolo nano»).
In tutte queste trasposizioni Collodi conserva però l’aderenza al testo, di cui mantiene immutate le proporzioni e modifica solo le misure, calandole in un quotidiano dimesso, più vicino alla sua esperienza e alla sua discrezione. Né eccede, come si potrebbe temere, nelle forme del vernacolo.
Eccelle piuttosto nella capacità di rendere, con felice immediatezza, il parlato di Perrault ed è questo l’aspetto inimitabile della sua traduzione, incunabolo dello stile di Pinocchio.
Il genio di Perrault si rivela non tanto nella invenzione delle fiabe, attinte sia dalla tradizione orale del folclore sia dalla tradizione scritta letteraria, quanto nel linguaggio. Per usare i termini della rettorica, esso si esercita non nella inventio, ma nella elocutio.
Collodi invece fu grandissimo in entrambe e immenso fu il suo debito verso Perrault, che gli schiuse il meraviglioso delle fate.
Però sul piano dell’invenzione l’originalità di Pinocchio appare un fenomeno unico e prodigioso, solo in parte riconducibile a possibili fonti. Basta pensare, per non scostarci dalla Fata, alle sue metamorfosi, ora Bambina dai capelli turchini, ora capretta sullo scoglio, ora signora nel palco.
Nel linguaggio invece il suo debito verso Perrault è più trasparente, più costante, più durevole.
Non era altrettanto minuzioso nella revisione del testo, nella cura dei particolari.
A proposito di Pinocchio scrisse al Biagi:
«Ti raccomando le correzioni tipografiche, le grammaticali e anche il senso comune.»
E quello che oggi si chiama, con connotazioni vagamente autoritarie, editing, la revisione redazionale di un testo, fu lui stesso a sollecitarla al suo editore. Questo spiega tra l’altro la sua titubanza, dopo, di fronte alla frase finale di Pinocchio – un infortunio, comunque la si legga – che è incontestabilmente sua, come ha dimostrato il Tempesti, ma di cui riluttava a riconoscere la paternità.
Lo racconta Ermenegildo Pistelli:
«Lui pensò un po’, prese il volume, lesse quelle parole, poi disse precisamente così: “Sarà, ma io non ho memoria d’aver finito a questo modo…”.»
Ma la sua suprema asciuttezza è in tutto il resto degna del maestro francese e anche della migliore tradizione italiana, letteraria e non:
«Quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d’oro: pigliatelo dunque e mettetelo subito in prigione.»
[1976]