I colombari della letteratura

Uno dei pregiudizi più duri a morire, riguardo ai valori letterari, è che, almeno con il tempo, “i conti tornano”.

Ci è stato probabilmente inoculato prima della età della ragione, attraverso quei colombari che sono le antologie scolastiche e le storie letterarie, con la gloria – questo «sole dei morti», come la chiamò Balzac – quantificata in capitoli, paragrafi, righe.

E poi viene in soccorso a una aspirazione tanto diffusa, quanto inappagata: vedere ripristinata la giustizia, ristabilite le proporzioni e riconosciuti i valori, tra cui il proprio.

Non c’è scrittore, anonimo o famoso, che non faccia qualche assegnamento sui posteri e credo a ragione; se non altro, non dovrebbero essere distratti da rivalità, invidie, conflitti politici: che Dante parteggiasse per i Cerchi aveva probabilmente importanza per i suoi concittadini.

Non dobbiamo però dimenticare un dettaglio: posteri siamo anche noi. E se riflettiamo al tempo che impieghiamo per ricollocare in nicchie e loculi adeguati i valori del Trecento, non possiamo indulgere troppo all’ottimismo.

Un caso tipico, nella sua complessità, è Villiers de l’Isle-Adam, di cui contemporanei e posteri non sono mai riusciti a dare una valutazione accettabile, eccedendo in entusiasmo o in riserve.

Ammirato dalla generazione dei simbolisti come un maestro («Un genio!», esclamerà Mallarmé, mentre Maeterlinck confesserà: «Tutto ciò che ho fatto lo devo a Villiers»), vive una esistenza di stenti e il successo giunge tardivo con gli ultimi drammi.

Anticipa, con un romanzo sugli amori di una donna macchina (Eva futura, del 1886), la fantascienza, ma, forse proprio per questo, non ottiene una recensione.

La sua riscoperta risale essenzialmente alla sua inclusione nella Antologia dello humour nero di André Breton, del 1939, ma il suo dramma Il Pretendente dovrà aspettare un secolo prima di essere finalmente rappresentato nel 1965, alla televisione francese.

I Racconti crudeli, del 1883, fondono in una addizione alchemica le allucinazioni di Poe e il satanismo di Barbey d’Aurevilly, le voluttà efferate di Pétrus Borel e dei suoi Racconti immorali e l’epicureismo cattolico di Chateaubriand.

Questa combinazione di elementi diversi, passando attraverso il filtro di un talento originale, dà alla fine un prodotto attraente e composito.

L’oro però brilla solo a tratti, come nel racconto Tanto da ingannarsi, dove un incontro di affari viene vissuto come un incontro con la morte; come nell’Impazienza della folla, dove la lapidazione, fuori delle mura di Sparta, del messo di Leonida si svolge in uno scenario di barbagli visionari; o come nelle Signorine di Bienfilâtre, dove una prostituta, per aiutare un giovane povero di cui si è innamorata, viene meno al dovere di sostentare i vecchi genitori e alla fine, in modo molto rassicurante, ne muore.

Proprio quest’ultimo Villiers, beffardo e sarcastico, occupava nella biblioteca di Des Esseints un posto di privilegio:

«Tutta la laidezza dell’utilitarismo contemporaneo, tutta l’ignominia mercantile del secolo erano esaltate con una ironia così pungente che lo entusiasmava.»

In altri racconti invece il mistero scade a misteriosità e l’enigma, anziché conservare intatta la forza dei suoi interrogativi, la indebolisce attraverso la parzialità delle risposte.

Mentre si legge, questi squilibri sono denunciati da cali di attenzione, da diminuzione di interesse, da perdita di credibilità, di identificazione, di coinvolgimento.

Non è stata ancora tentata una fisiologia della lettura, eppure sarebbe più rivelatrice e illuminante – nel suo arbitrio evidente – di tante argomentazioni critiche che lasciano, per usare una espressione precisa, il tempo che trovano.

Quando il testo ci prende e in qualche modo ci riguarda, è perché l’autore sta parlando a noi e non alle nostre controfigure culturali.

Questo, a tratti, capita con Villiers. Non è da poco.

[1980]