Lucano o la disperazione dei vinti
Leggere la Farsaglia significa non solo ritrovare la tematica tragica della guerra civile, ma avanzare nell’orizzonte d’angoscia del mondo contemporaneo.
La storia non vi è più interpretata secondo la mitologia dei vincitori, ma la disperazione dei vinti. Il destino dell’umanità traspare nell’agonia dei personaggi anonimi delle battaglie, il Tevere straripa per la diga dei cadaveri e Farsalo, un anno dopo, è ancora sorvolata dai corvi. La profetessa di Apollo viene rapita per l’aria e sopra le Alpi vede la sventura del mondo. Riti sacrileghi strappano alla morte parte del suo dominio, mentre disumane metamorfosi straziano i soldati di Catone.
Il linguaggio, esprimendo una dissoluzione che ne mette in crisi i fondamenti ideologici, si frantuma concitato o si tende in dilatati periodi.
Che si continui a parlare di «neutralità» dei classici, di olimpicità e di equilibrio, è un pregiudizio che in fondo dura appena da qualche secolo.
All’amaro interrogativo di Rilke («Che cosa è mai la gloria se non la somma dei malintesi raccolti intorno a un grande nome?») Lucano offre un eccezionale contributo.
Gli viene subito negato dai contemporanei il titolo di poeta, nonostante che Marziale adduca in difesa, quale argumentum pro reo, il successo, ahimè, delle vendite.
E d’altra parte la interpretazione di Servio, che Lucano abbia composto un’opera storica, non un poema, si trasforma in critici positivisti in un tardivo e puntiglioso atto di accusa, in una sistematica caccia all’errore storico, geografico, topografico: Lucano ne esce avvilito come uno scolaro sommariamente preparato, cui non si possono perdonare nozioni piuttosto confuse sul corso del Danubio.
Forse non soccorreva la risposta di Croce, a chi accusava i poeti di confondere i nomi degli uccelli: che, infine, essi non sono dei cacciatori.
Il fatto è che la mancanza di simpatia escogita pretesti per giustificarsi. Tanto varrebbe allora, per tornare a Lucano, abbandonarsi alla spensieratezza di un Sikes, che rimprovera alla strega Erittone la «totale mancanza di humour».
In realtà, come aveva già mostrato il Pichon nel suo saggio sulle fonti della Farsaglia, la preparazione di Lucano rifletteva l’insegnamento convenzionale che impartivano le scuole dei grammatici e che il precoce talento del poeta seppe integrare con nozioni perspicue, anche se frammentarie, di ordine etnografico, tecnologico e soprattutto esoterico (dalla negromanzia alla morte degli dèi).
Quanto alla sua parzialità di storico essa non appare francamente contestabile e si manifesta anche in significativi silenzi su atti di magnanimità di Cesare e su particolari che avrebbero potuto mettere in cattiva luce il partito pompeiano.
Anche la «fortuna» di Lucano non poté sottrarsi a soffocanti malintesi: il sincretismo pagano-cristiano ammirò in lui il negatore del politeismo, e nel suo aspro e sentenzioso moralismo, che a noi suona spesso volontaristico, scoprì consonanze e presagi dei nuovi secoli.
In una prospettiva letteraria la sua fortuna coincise con la sfortuna periodica del classicismo. Così nella latinità argentea, quando l’oggettivo e il razionale arretrarono davanti al magico e al mostruoso, Lucano contribuì con Seneca a promuovere quel gusto di un realismo cupo e patetico che era sostanzialmente estraneo all’antichità classica.
Questo processo, che dalla tenebrosità di Tacito condurrà al grottesco di Ammiano Marcellino, è stato mirabilmente descritto da Auerbach in uno dei capitoli di Mimesis. Esso riaffiora nel tardo gotico di Dante e negli scenari notturni del romanticismo europeo, da Goethe a Foscolo.
Per le stesse ragioni, Lucano sarà inviso alla luce artificiale dell’aristotelismo cinquecentesco (anche se il Tasso se ne ricorderà per la Liberata e per il Torrismondo) e del razionalismo critico.
Sul versante rettorico lo stile tragico di Lucano, lottando contro la tentazione magico-sensuale dell’orrido, si deforma in effetti verbali e sintattici carichi di artificio e di suggestione: è il manierismo, che E.R. Curtius ha definito costante della letteratura europea e denominatore comune di ogni tendenza letteraria contraria al classicismo; e che lo Hocke ha ricollegato all’asianesimo contrapposto all’atticismo, alla phantasia contrapposta alla mimesis. E si capisce l’accusa di oratoria, da Quintiliano a Croce, che si capovolge in merito per il barocco europeo, e spagnolo in particolare.
Classicità non è soltanto coscienza del limite, ma amore del limite.
Lucano tende invece alla sua rottura, attraverso una esasperazione degli strumenti rettorici: comparazioni triplici e quadruplici, amplificazioni, antitesi violente, ellissi oscure, metafore iperboliche.
Come sempre, non si tratta di svolte radicali – la «novità assoluta» si incontra solo sulle locandine teatrali – e neppure di spettacolari differenze rispetto al repertorio tradizionale, ma di semplici e per altro decisivi spostamenti di accento: quelli appunto che l’eterno classicismo suole negare, credendo nella rotazione dei cieli e nella immobilità della terra.
Nell’età di Lucano l’impero aveva sottomesso le genti e rimpicciolito il mondo, ma le energie e le speranze che avevano promosso il dilagare della conquista si trasformavano alle spalle in un presentimento di angoscia. L’iperbole compensava questo vuoto – il fanatismo è stato definito da Jung come un dubbio ipercompensato – e la magniloquenza celava lo straniamento morale.
C’è sempre una dilatazione enfatica della metafora ogni volta che l’aumento del potere e del noto diminuisce il mondo e illusoriamente lo domina e lo decifra. Così che la Farsaglia non esprime solo un irrisolto dissidio interiore, ma l’ansiosa temperie dell’epoca.
Nel tentativo di individuare il protagonista della Farsaglia, la filologia ottocentesca e contemporanea è approdata a conclusioni divergenti: a conferma dell’ambiguità di fondo del poema, il cui eroe può apparire Cesare o Pompeo o Catone o il popolo romano… Né acque meno avventurose correrebbe chi volesse sostenere la coerenza filosofica del poema, rischiando magari, come è accaduto, di attribuire al provvidenzialismo stoico il silenzio degli oracoli, i quali riserverebbero il loro aiuto soltanto ai giusti che soffrono.
Neppure persuadono i tentativi di conciliare le teorie cosmologiche di Lucano con la negromanzia e con l’invasione del magico e del soprannaturale. È vero che il poeta suggerisce interpretazioni naturalistiche di eventi che in altre epoche erano apparsi prodigiosi, ma, anche in questi casi, l’accento cade sul crollo silenzioso della tradizione piuttosto che sulla speranza nelle costruzioni della ragione.
E acute, ma non convincenti, riescono le argomentazioni volte a minimizzare le sue oscillazioni epicuree, la sua attrazione piena di orrore per una morte presentita come annichilimento dell’essere.
La critica più sensibile ha rinunciato alla ricerca di una chimerica coerenza di Lucano. Se non che gli squilibri ideologici, strutturali e formali del poema vengono ricondotti a fattori che poterono sì risultare rilevanti (quali la giovane età, la stesura affrettata, la sconvolgente partecipazione alla congiura contro Nerone), ma che impediscono, con la loro materiale e illusoria evidenza, una tematizzazione della inautenticità, in senso esistenziale, di Lucano.
C’è, nella vita di Lucano, un atto che ha sempre suscitato nel lettore una invincibile ripugnanza. Esso era stato addirittura ignorato dalla biografia apologetica di Vacca e non pochi critici moderni hanno tentato, con argomenti volonterosi, ma capziosi, di negarlo, forse in nome di quell’umanesimo che, come scrive E.R. Curtius in Letteratura europea e Medioevo latino, «prende ancora oggi volentieri una intonazione edificante e moralistica».
A tale elusiva pietas umanistica si aggiunge spesso la diffidenza per ogni collusione tra biografia e opera: confermando così come un criterio innovatore e coraggioso nel tempo in cui Croce lo introdusse possa diventare un falsificante luogo comune presso tardivi retori dell’idealismo.
C’è dunque, nella vita di Lucano, il modo in cui non seppe affrontare la morte stoica: il poeta che aveva attribuito a Pompeo agonizzante la felicità interiore non esitò, quando Nerone lo scoprì partecipe della congiura, a scendere, come racconta Svetonio, alle più basse suppliche, accusando la propria madre innocente e «sperando che tale empietà gli avrebbe giovato presso un principe matricida».
Lucano seppe poi riscattarsi. Ma il lettore della Farsaglia scopre in quell’orrore panico della morte una conclusione fatale e un suggello finalmente convincente.
Quella fuga dalla morte, che pure è ossessivamente presente nel poema come morte degli Altri, illumina febbrilmente e retrospettivamente tutto lo spazio dell’opera e trionfa su ogni certezza stoica di vittoria.
Domina nella Farsaglia un manierismo funerario: la morte vi è evocata nella sua patologia tormentosa, che scatena tutte le gradazioni della paura. Risulta stranamente sintonica e illuminante l’analisi esistenziale che Heidegger ha condotto, in Essere e Tempo, sui diversi momenti costitutivi della paura, concepita come modo della «situazione affettiva» in cui l’uomo si apre al mondo:
«Ciò che fa paura è sempre un ente che viene incontro dentro il mondo […] [Esso] […] ha il carattere della minacciosità […] Se chi minaccia […] piomba all’improvviso […] la paura diventa terrore. Bisogna perciò distinguere in chi minaccia l’avvicinarsi di ciò che minaccia e il modo di venire incontro di tale avvicinarsi, la sua subitaneità. Il davanti-a-che-cosa del terrore è solitamente qualcosa di noto e di intimo a noi, ma se chi minaccia ha il carattere della totale estraneità la paura diventa orrore. Se poi chi minaccia viene incontro come orribile e ha nello stesso tempo il modo di venire incontro proprio di chi terrorizza, cioè la sua subitaneità, allora la paura diventa raccapriccio.»
La legittimità filosofica di una interpretazione esistenziale di Lucano è avvalorata dal fondamento ontologico della paura, che Heidegger individua nell’angoscia originaria di fronte alla «insignificatività» del mondo. È difficile non pensare alla analoga «insignificatività» del mondo in cui visse Lucano: quando il crepuscolo dei miti civili e religiosi e della loro forza coesiva – trasparente nella stessa pregnanza etimologica del vocabolo religio – non fu certo compensato dal culto dell’imperatore né dalla metamorfosi esoterica della letteratura e della filosofia.
L’angoscia, in senso esistenziale, sottrae all’uomo la sua acquietante fiducia in sé, la sua intimità con il mondo, il suo «con-essere» con gli altri in una quotidianità rassicurata dalla chiacchiera, dall’equivoco e dalla curiosità. Nell’angoscia l’uomo scopre la certezza, assoluta e originaria, della propria morte: e vivere in tale consapevolezza coincide con l’autenticità.
L’inautenticità di Lucano fu dunque una fuga da se stesso, e dalla propria morte, nel flusso della sopravvivenza illusoria: cioè nell’ideologia stoica, nel mito repubblicano, nell’attivismo della congiura.
Ma gli interrogativi drammatici, l’invadenza visionaria della violenza, l’enigmatica presenza del magico, il gusto del sacrilego, la notte cieca dell’umanità e del suo destino smentiscono nel poema ogni falsa speranza e costituiscono il sapore crudele e acre della sua modernità.
Certo Lucano non volle sperimentare e consumare fino in fondo la possibilità di un «genuino fallimento»: ma la disperata ambiguità della sua scrittura testimonia la sua salvezza di artista.
[1967]