Il cuore dell’esistenza

C’è qualcosa di maniacale e di disperato nell’idea che abbiamo della cultura: universo di segni da decifrare, senza che ne traspaiano il senso e la finalità.

Le grandi civiltà del passato sono state civiltà del Libro, da decifrare in prospettiva religiosa, filosofica e poetica: ma l’incessante opera interpretativa dei posteri ne scopriva aspetti e significati sempre diversi, che valevano per il presente e orientavano per il futuro. Era un terreno che produceva ogni anno messi nuove.

Oggi però si dubita della sua fertilità.

Chi, per reazione, si immerge nell’attualità, lo fa recidendo i legami con il passato e il futuro: non un possesso dunque, ma una fuga, che si conclude come sempre tra le braccia del nemico.

A chi abita invece nel passato, esso appare come un territorio che, quanto più si svela, tanto più si dilata: questa è una delle sorgenti del suo fascino, ma la sua vastità risulta inattingibile all’unico tempo che ci appartiene, quello della nostra vita. Ed è proprio quest’ultimo che finisce per essere sacrificato a uno spazio sproporzionato per lui.

«Nella civiltà tecnica» ha scritto Abraham Heschel «noi consumiamo il tempo per guadagnare lo spazio.» Ma il tempo, aggiungeva, è «il cuore dell’esistenza».

È questo forse il divario tra la nostra civiltà spaziale e quella antica.

Quando Diogene, accovacciato a terra, fa scostare Alessandro perché gli toglie il sole, non penso che voglia ridimensionare la grandezza di Alessandro, come ci hanno insegnato generazioni di pedagoghi e moralisti, sempre tesi a farci credere in quello in cui non credono loro: ma vuole, più semplicemente e più concretamente, godere quel sole che l’altro gli sta togliendo. L’accento batte sul sole, non su Alessandro, batte sul senso effimero e insieme eterno del presente.

Oggi il tempo viene vissuto paradossalmente solo come privazione, come mancanza. Non c’è mai stato tempo meno “libero” che nell’epoca in cui si continua a parlarne.

Conosciamo naturalmente le cause economiche del “doppio lavoro”, mite eufemismo che cela spesso un triplice, quando non un quadruplice lavoro. Ma la causa essenziale è un’altra: il tempo manca perché non crediamo più in lui, non crediamo che possa darci quanto la cultura, intesa nel suo senso più ampio, gli ha sempre chiesto: una risposta.

Per questo lo impieghiamo nell’attività.

Una volta, se non altro, si rinviava alla pensione il tempo dell’otium, della vivificante disponibilità dei propri giorni. E il prefetto del pretorio di Adriano, ritiratosi, al termine della carriera, in campagna, per morirvi dopo sette anni, aveva fatto scrivere sulla sua tomba:

«Qui giace Sulpicio Simile, che campò tanti anni, ma ne visse sette.»

Oggi però anche il tempo della pensione viene destinato a nuove attività e il tempo del riposo ulteriormente rinviato, presumibilmente a quello definitivo.

Questa nevrosi traspare, in modi dissimulati, anche nel campo della critica; e si configura come tendenza a rinviare – esplicitamente o no – la riflessione sul senso più importante del testo: ossia il suo valore in rapporto al tempo della vita.

Ci si accontenta in genere di un funzionalismo asettico, di obbiettivi dichiaratamente propedeutici o marginali, di sondaggi accuratamente circoscritti. Nanni Cagnone le chiama “terapie dell’ansia” e mi sembra una definizione psicologicamente adeguata, anche se, ahimè, non “esaustiva”: del resto un’epoca si riconosce anche dalle parole che ama, come quest’ultima. E la nostra, che ha coniato, tra le altre, l’espressione “gestione della vita sessuale” – che mi pare un incrocio tra la conduzione aziendale e l’endocrinologia – ha inventato anche i “produttori di cultura”, termine che mi ha sempre evocato immagini imbarazzanti.

Per queste ragioni un libro come Dietro le parole di Claudio Magris appare una delle poche, preziose eccezioni: perché le opere vi vengono ricondotte non solo al tempo della Storia, ma a quello della esistenza, cogliendo la loro eco nel lettore, il loro potere di ampliare l’orizzonte e di offrire esperienze incommensurabili: chi ha letto l’Ulisse dantesco ha compiuto un viaggio, tra Siviglia e Ceuta, che nessuna nave potrà mai offrire.

In questa prospettiva anche problemi già a lungo dibattuti – spesso su posizioni di concettualismo opprimente o di personalismi fuorvianti – riceve una interpretazione più umana: la crisi da cui nasce l’avanguardia, cioè la perdita irrimediabile del senso della totalità e la scissione tra linguaggio e mondo, viene rivissuta nelle sue motivazioni tragiche, che culminano nella rinuncia e nel silenzio della Wiener Gruppe. E l’importanza della letteratura mitteleuropea, da Kraus a Roth, da Musil a Hofmannsthal, da Schnitzler a Horvath, viene sottratta alla moda dei “ricuperi” – in realtà non si ricupera niente, quando si è pronti a ricuperare tutto – e restituita al suo effettivo rilievo. Sullo sfondo della crisi europea, la letteratura austriaca del Novecento si configura allora come «un incessante smascheramento del disordine, compiuto in nome di un’inappagata e inappagabile esigenza di ordine autentico». E anche il cupo reazionarismo di Borges, come dello Stockmann ibseniano, viene compreso, senza essere legittimato, con indipendenza di giudizio lontana dai consueti oboli alle convenzioni:

«Il grande reazionario è sempre lacerato dall’acre sapore della sconfitta – una sconfitta nobile, in quanto reagisce all’impero della menzogna e dell’inquinamento, ma senza orizzonti.»

Ma Magris cita anche una intuizione di Saba, che ogni valore umano e poetico dev’essere una azione e non una reazione.

Convinto che la vitalità «è sempre altrove, sfugge a ogni sistema, ma anche a ogni negazione», egli ci offre nel contempo ritratti magistrali dell’intellettuale che «passa le notti al tavolino scrivendo libri nei quali proclama che bisogna vivere anziché scrivere».

Se elude la scolastica storicistica, Magris ha il dono, che è di pochi, di evocare in modi immaginosi e narrativi un clima, un’epoca, un paesaggio, un interno.

E se elude ogni lirismo consolatorio, non dimentica quanto diceva Kraus, che la poesia è il percorso più breve tra un rigagnolo e la Via Lattea.

[1979]