Viaggio a Fuente Vaqueros

Sono stato a Fuente Vaqueros, il paese natale di Lorca, nel 1963 e conservo nella memoria alcune immagini staccate, come se di una sequenza fosse rimasto qualche fotogramma: i visi dei contadini, illuminati dal sole al crepuscolo, sul piccolo treno che si allontanava da Granada e si inoltrava nella campagna; le vie silenziose del paese, fiancheggiate da case basse e bianche, nell’azzurro della sera («Tutta la mia infanzia è villaggio» ha detto Lorca. «Pastori, campi, sole, solitudine»); e poi gli occhi neri e vividi della primera hermana, la cugina di Lorca, che mi riceve nel tinello di casa sua e che, a poco a poco, supera la diffidenza iniziale (non le farò – visto che non le vuole, siamo nel 1963 – domande “politiche” sulla morte di suo cugino). Ed eccola parlare, con una sorta di sommesso, affettuoso entusiasmo, di Federico, della strana felicità che dava la sua presenza, della sua alegría.

Mentre lei parla, ho per la prima volta la sensazione di lui come di una persona viva, che ha abitato queste stanze. Anzi nella memoria di questa donna Federico è ancora vivo, riappare in immagini che la fanno trasalire o sorridere.

Mi ha sempre colpito, nei ricordi dei sopravvissuti, la possibilità che il passato riaffluisca nel presente, diventi presente, aprendosi di nuovo alle precarietà e alle sorprese dell’esistere: quando scompaiono anche i sopravvissuti, il passato perde questa effimera reviviscenza e viene inghiottito per sempre dall’ombra.

Poi la donna mi parla, con insofferenza, della assurda leggenda che Federico fosse gitano: ma il suo prendere le distanze dalla povertà dei gitani mi è altrettanto estraneo quanto la sua ammirazione per il patrimonio della famiglia.

È fatale che chi vive entro una grande ombra la misuri con il metro della propria: il fatto è che sono tra di loro incommensurabili.

Anche Lorca soffriva di essere gitano, ma per ragioni molto diverse.

Nel gennaio del 1927, quando aveva ventinove anni, scriveva all’amico poeta Jorge Guillén:

«Mi sta infastidendo un poco il mito della mia gitaneria. Confondono la mia vita e il mio carattere. Non voglio assolutamente. I gitani sono un tema. E niente di più. Io potrei essere benissimo, allo stesso modo, poeta di aghi per cucire o di paesaggi idraulici. Tra l’altro il gitanismo mi dà un tono di incultura, di mancanza di educazione e di poeta selvaggio, che tu sai bene non sono. Non voglio che mi incasellino. Sento che mi stanno mettendo delle catene.»

La paura di essere “incasellati” ricorre in tutti gli artisti ed è direttamente proporzionale a quella tendenza a “incasellare” che, negli altri, è generalmente motivata da due ragioni: banalità in superficie e paura del nuovo in profondità.

In Lorca tuttavia questa preoccupazione si manifesta con una precocità profetica, forse connessa alla rapida diffusione della sua fama.

Dopo la pubblicazione del Romancero gitano del 1928, ribadiva, parlando di se stesso in terza persona, con una ansietà lucida:

«Il gitanismo è uno solo tra i moltissimi temi che appartengono al poeta; ma non è fondamentale nella sua opera né tantomeno costante.»

E aggiungeva che non si potevano circoscrivere le sue «ambizioni più vaste» a quelle del «cantore di una razza».

Affermazioni legittime, quanto destinate troppe volte a essere eluse. Anzi tutta la vita di Lorca – e la vita della sua opera, prima e dopo la morte – è una continua lotta contro il mito che minaccia di sovrapporsi ad essa fino a oscurarla.

Ancora oggi, a quarantaquattro anni dalla sua morte nel 1936, avvicinare Lorca comporta allontanarsi da lui, cioè dalla immagine che il tempo, esterno e interno a noi, ci riflette deformata.

Ha scritto Las Casas che lo scopo dell’educazione è sempre di liberarci da quella che abbiamo ricevuto e questa intuizione, trasposta in campo letterario, trova in Lorca una applicazione esemplare.

Soprattutto chi lo ha molto amato deve guardarsi da quel temibile effetto che produce l’entusiasmo quando passa, ossia l’avversione.

La colpa non è naturalmente del testo – che perdura, al di là di ogni fraintendimento, nella sua sempre violata e sempre rinnovata solitudine – ma dei modi, spesso parziali ed emotivi, in cui lo si è letto.

Nel caso di Lorca, è facile che si resti dapprima suggestionati dagli aspetti più vistosi e più labili della sua arte: le forme ritualizzate di un folclore visionario e un lirismo a volte intemperante, innamorato dei propri estri e dei propri colori, tanto audace in apparenza quanto lontano dai rischi fatali, che sono quelli della verità.

Resiste invece al tempo la sua capacità di intensificare i miti, di arricchirli, di moltiplicarli, di coniugarli con altri. Il gitanismo e le tradizioni vive di una Andalusia arcaica sono miti ancora attivi nel suo mondo, ma si alimentano e si fondono con altri miti, quelli poetici del Novecento spagnolo: il modernismo caleidoscopico di Rubén Darío, il paesaggio interiorizzato di Antonio Machado, l’ascetismo solare di Juan Ramón Jiménez, la purezza cristallina di Jorge Guillén, per non indugiare sulle figurazioni simboliche delle avanguardie europee, dal cubismo al surrealismo.

Sarebbe però altrettanto erroneo rimuovere l’istintività e spostare l’accento sull’altro polo, quello della cultura, per superare un presunto dualismo di cultura e arte.

Il contrasto tra il duende – il folletto assunto a simbolo della genialità inafferrabile – e la Musa ordinatrice è già stato risolto da Lorca, all’epoca del Romancero gitano, in conciliazione dei contrari.

Il confronto natura-cultura si ripresenterà invece, ma in termini oggettivi e drammatici, nelle liriche di Poeta a New York (1929-1930), dove la “natura” delle minoranze perseguitate per ragioni razziali o sessuali e la “cultura” della civiltà oppressiva entreranno in un conflitto tragico, rappresentato con un montaggio espressionistico di rara potenza. Mentre l’andalusismo delle poesie giovanili troverà una amplificazione surreale nel Lamento per Ignacio Sánchez Mejías del 1935.

Certo finché ci si ferma al folclore e al lirismo oppure se ne cerca il superamento in una ragnatela di rinvii formali e culturali, Lorca resterà per noi il prigioniero dei suoi miti. Ma se si varca questo discrimine e lo si legge come il creatore e l’interprete di miti convergenti, allora la grandezza della sua poesia si farà trasparente.

Mito è diventata anche la morte di Lorca, fucilato dai franchisti nel 1936, in circostanze mai definitivamente chiarite: mito operante in senso positivo, perché ha contribuito a non fare dimenticare la tragedia di migliaia di vittime. Ma mito anche nel senso di una semplificazione rispetto alla verità storica.

È certo che Lorca sentiva ed esprimeva nella sua poesia l’ingiustizia e l’oppressione sociale e che, se pure non aderì mai ad alcun gruppo politico, auspicava un rinnovamento radicale della società spagnola: non però al punto di piegare la propria opera a funzioni di propaganda né di immolare la vita nella guerra civile.

Se quindi non è giusto farne un eroe (l’eroe, come ha scritto Heidegger, «vuole» il proprio sacrificio), è ingiusto negare il valore simbolico della sua morte. La fine di Lorca, fucilato dopo due giorni di detenzione e con il consenso del governatore di Granada Valdés e quello probabile del generale Queipo – come ha dimostrato lo studioso irlandese Ian Gibson in una convincente ricerca – si colloca nel clima di repressione che a Granada colpì chiunque non si lasciasse inquadrare in una stretta osservanza tradizionalista.

Perciò la morte di Lorca – innocente di qualsiasi responsabilità nelle violenze e generoso nel suo idealismo sociale – resta uno strazio per la coscienza civile.

Ripercorrere nelle testimonianze dei sopravvissuti le sue due ultime settimane, di isolamento e di angoscia, nel nascondiglio di Granada, turba ancora.

Lui che amava tanto la vita e che ci viene ricordato così da Neruda:

«Era un lampo fisico, un’energia in moto perpetuo, un’allegria, uno splendore, una tenerezza assolutamente sovrumana. La sua persona era magica e apportava felicità.» E che Buñuel evoca con queste immagini:

«Federico è il primo, il più importante, di tutti gli esseri umani mai conosciuti. Non parlo del suo teatro né della sua poesia, parlo di lui. Il capolavoro era lui. Non riesco a immaginare niente di simile. Che si mettesse al pianoforte per imitare Chopin, che improvvisasse una pantomima, una breve scena teatrale, era irresistibile. Poteva leggere una cosa qualsiasi, e la bellezza usciva sempre dalle sue labbra. Aveva la passione, la gioia, la gioventù. Era come una fiamma.»

Lui che, pur attraversando una grave crisi interiore, aveva saputo confortare il suo amico Jorge Zalamea:

«Sii allegro! È una necessità, un dovere essere allegri. Te lo dico io, che sto passando uno dei momenti più tristi e più amari della mia vita»; e che in un’altra lettera gli diceva:

«Tra conflitti sentimentali gravissimi, angosciato come sono dall’amore, dalla società, dalle brutture, mi sono imposto come regola di essere allegro a tutti i costi. Non voglio che mi vincano. Non devi lasciarti vincere. So bene quello che provi.»

Lui che, dalla sua casa di Granada, aveva scritto a Guillén:

«Mi trovo adesso alla Huerta de San Vicente, nella piana di Granada. Ci sono tanti gelsomini nel giardino e tante “belle di notte”, che all’alba noi abbiamo tutti un mal di testa lirico, meraviglioso come quello di cui soffre l’acqua stagnante.»

[1980]