«Via delle cento stelle» di Palazzeschi
Incombe sulla vecchiaia un pericolo più grande che quello di essere, come diceva Mimnermo, «invisi ai fanciulli e disprezzati dalle donne»: la saggezza.
Palazzeschi è riuscito a eluderlo anche nella Via delle cento stelle, percorsa tra gli ottantasei e gli ottantasette anni, se per saggezza si intende, come avviene di solito, il suo travestimento. Quanto all’altra saggezza, quella vera, Palazzeschi l’aveva già fin dai tempi dell’Incendiario.
È un testo che suscita nei lettori reazioni inattese: se si supera la paura di cadere in constatazioni banali – le uniche che alla fine contano – si scopre anzitutto che sono di felicità. Felicità di muoversi con leggerezza, con oblio e memoria, in un mondo parzialmente comprensibile e parzialmente assurdo, nel quale il risveglio, parola sapienziale, torna ad essere l’aprire gli occhi al mattino:
È curioso osservare
il risveglio del vegliardo
di buonora il mattino.
Volgendo il capo girogiro
sembra cercare l’elemento
indispensabile al naturale respiro
e guarda le vecchie cose
che lo circondano
quasi gli giungessero nuove ogni giorno,
come un bambino;
batte e ribatte le ciglia
per rendersi sicuro:
«ci sono ancora»,
quindi rassicurato:
«un bel fatto».
Questa felicità nasce dall’inatteso, cioè da una esperienza sconosciuta alla vecchiaia saggia, che tutto prevede.
Perciò Palazzeschi la guarda con occhio nuovo, come «gioventù veduta alla rovescia» (Vecchiezza), per la quale ricuperare un colore, il rosa, finora riservato alla gioventù, all’amore e al Kitsch:
Inoltrandosi sempre più
questa vecchiezza
mi par vivere in sogno
ogni realtà
della vita quotidiana
guardando attraverso un velo
di tanta purità
che addolcisce ogni asprezza
e mi fa vedere tutto
color di rosa.
Perfino il presentimento della morte si accompagna a una sensazione di «voluttà», parola che sembrava da sottrarre all’uso, dopo l’abuso che se ne era fatto nell’età del Poema paradisiaco:
Avverto da qualche tempo
la presenza di una mano
che vaga intorno a me
cercando di ghermirmi
or qua… or là…
Non fingo d’ignorarla
né tento di ritrarmi
diffidente alla sua stretta,
sdegnato o per paura,
ad essa mi abbandono
dolcemente
quasi mi lascio andare
con voluttà
come quello che aspetta la ventura.
Ma la felicità che si comunica al lettore nasce anche da un’altra sensazione: che il testo parli finalmente in prima persona, non sia solo un’immagine del mondo, ma anche quella di un uomo.
Siamo tanto abituati a io immaginari, a io che non esistono, a io in abito da cerimonia o a io nudi e infreddoliti, che l’io di Palazzeschi ci sorprende.
Questo io non sembra ricorrere a controfigure, né parlare per interposta persona, né alzare il tono della voce né abbassarlo: la sua novità consiste nel non alterarlo, realizzando così – lui il folle, l’infantile, il bizzarro, come si continua a considerarlo – il supremo degli artifici, la naturalezza.
Un risultato per lo meno imbarazzante in un poeta cui ogni avanguardia del Novecento può guardare come a un anticipatore.
Uno dei suoi segreti è la natura anfibia del suo muoversi su due piani, quelli di realtà e di fantasia, che finiscono per sovrapporsi.
In Realtà o fantasia? (la raccolta è piena di perché? e di punti interrogativi) si chiede:
Come possiamo amare
due cose
in perfetta contraddizione fra loro
e che si escludono a vicenda?
Io le ho amate tutte e due
per amore della vita.
Eppure questo io che alle domande ottuse di amici pensosi risponde con altre domande (Sono davvero un bambino?) ci offre sulla nostra età scorci più preziosi, nella loro prospettiva eccentrica, che tante analisi in cui i conti tornano sempre.
I temi che la vita seleziona per i futuri testi delle elementari – così almeno li vivono molti contemporanei – trovano nella Via delle cento stelle uno spazio adeguato.
Ad esempio il senso dello scrivere, che da decenni angoscia il letterato:
Scrivere scrivere scrivere…
Perché scrive lo scrittore?
C’è modo di saperlo?
Si sa?
Per seguire una carriera come un’altra
o per l’amore di qualche cosa?
Chi lo sa.
O il problema abissale dei valori, tra cui quello della libertà, complicato dal fatto che si vive in Italia:
L’uomo vissuto a lungo nella tirannide
la tirannide ce l’ha nel sangue
e nel midollo delle ossa,
e una volta posto in clima di libertà
la prima libertà che si piglia
è quella di togliere agli altri la libertà.
Siamo dunque un cannone che spara dalla culatta?
E quali parole più precise si possono scrivere a epitaffio non del futurismo, ma dei fausti presagi che i buoni traggono dalla sua reviviscenza?
Il futurismo non poteva nascere che in Italia
paese volto al passato
nel modo più assoluto ed esclusivo
e dove è d’attualità solo il passato.
Ecco perché è attuale oggi il futurismo
perché anche il futurismo è passato.
C’è qualcosa, nel sapere di Palazzeschi, che è diverso dal sapere che la nostra cultura ci propone: ed è un sapere vissuto, un sapere tradotto in azione, in gesto, in libertà di movimento.
Troppe volte esso è stato interpretato come divertimento in senso riduttivo, mentre è divertimento nel senso etimologico di deviare: da che cosa?
Non solo dal nostro male più comico, la seriosità, ma anche da ogni serietà che, nel suo accanimento, rischi di perdere proprio ciò che vuole conquistare: mentre un improvviso scostarsi consente di afferrarlo, nel pudore dello scherzo, che è senso di quanto c’è intorno, e di quanto precede e segue; e insieme si apre verso una conoscenza ulteriore, come il gesto apparentemente elusivo, e al contrario illuminante, di un apologo orientale.
Come accade solo con i grandi, il linguaggio di Palazzeschi rinvia a continue interpretazioni e ipotesi, a estensioni e moltiplicazioni di significati, per farci giungere infine alla conclusione che tutto era alla superficie della scrittura: che tutto andava preso alla lettera.
[1974]