Sulla stupidità
L’intelligenza ha i suoi limiti, ma la stupidità è illimitata.
Si ricorre, per evocare l’infinito, a paragoni inadeguati, l’amore, il deserto, l’oceano: niente eguaglia però l’abisso che ci si spalanca quando incontriamo la stupidità.
Forse solo la siepe dell’Infinito leopardiano può essere il suo simbolo: limite invalicabile che suggerisce uno spazio sconfinato.
La coscienza comune non lo ignora.
Tutti sono intimamente convinti che uno stupido è più pericoloso di un criminale. Quello che oggi preoccupa, nella malavita improvvisata, non è l’efferatezza dei mezzi, ma la futilità dei fini. E in un conflitto come quello delle isole Falkland la tragedia non era tanto l’affondamento delle navi, quanto la rassegnazione con cui veniva accettato da tutti, almeno da quelli che non erano a bordo.
Certo non mancavano appelli ed omelie e si moltiplicavano le dichiarazioni di sdegno; ma, come ha scritto Nietzsche, «nessuno mente tanto come quando si indigna» e ognuno fin dal principio ha temuto il peggio, proprio perché il rapporto tra causa ed effetto appariva squilibrato e dunque entrava in gioco la stupidità, l’unico fattore invariabile della storia.
Si parla di menti quadrate, ma la stupidità è sferica. Tutta la sua superficie è equidistante da un centro, che resta inaccessibile. Per questo ha sempre affascinato l’intelligenza.
Non è attendibile l’idea, tramandata a scuola, che Socrate provocasse qualche Ateniese solo per dimostrargli l’inconsistenza delle sue opinioni e convertirlo al dubbio. Sarebbe stato un intento malinconico, degno della pia mediocrità di chi glielo attribuisce. Socrate era invece attratto dallo spettacolo, cangiante e inesauribile, della stupidità; e quando Eutifrone, alla fine di un dialogo in cui ha esibito la sua ingiustificata presunzione, sta per lasciarlo, Socrate non si rassegna e cerca di trattenerlo: «Oh, che cosa fai, amico mio! Avevo una grande speranza, e ora tu te ne vai e me la fai perdere!».
I commentatori parlano di ironia, ma l’interpretazione più probabile è, come sempre, quella letterale.
D’altronde la stupidità è una delle poche certezze su cui contare: della verità si dispera, ma della stupidità non si dubita. Essa ha avuto, nella formazione di ciascuno di noi, uno spazio sfortunatamente decisivo.
Lottiamo tutta l’esistenza contro la stupidità che ha marcato la nostra giovinezza. Il sarcasmo di un professore maldestro in vena di lepidezze ci perseguita per anni. Certe sentenze inappellabili sulle nostre caratteristiche, pronunciate da parenti ed educatori, vorremmo invano ritorcerle, almeno mentalmente, contro di loro: le scontiamo ancora adesso. Nel periodo in cui si è più vulnerabili, la stupidità lascia su di noi tracce indelebili. A volte non basta una vita a liberarcene.
Si dice che l’incontro con una persona intelligente può cambiare una esistenza, ma questo dimostra soltanto come simili incontri siano rari.
In realtà il destino è quasi sempre segnato non dall’incontro con i geni, ma dalla convivenza con gli stupidi.
D’altra parte chi ha subìto la stupidità da giovane tende a esercitarla da adulto. L’educazione si fonda infatti su un istinto atavico, quello dell’imitare, e sono pochi coloro che riescono a sottrarsi al circolo vizioso. Tra questi non includerei psicologi e pedagogisti, come testimoniano i loro figli sgomenti. Una volta chiesero a Rodolfo Wilcock perché non sperava nei giovani e lui rispose: «Perché conosco i loro padri».
L’autoritarismo, ad esempio, che della stupidità è una forma odiosa, riaffiora spesso nei figli sotto l’aspetto, antitetico solo in apparenza, della permissività.
Non manca però chi infligge ai propri discendenti le stesse assurdità che hanno angustiato la sua infanzia.
Uno psicologo forse parlerebbe, anziché di stupidità, di “coazione a ripetere”, ma, come è noto, le differenze lessicali non hanno mai mitigato ciò che designano, almeno per chi lo subisce.
Difendersi dalla stupidità è problema di sopravvivenza.
Si compiangono artisti e pensatori, che hanno il dono impopolare di anticipare quello che poi, grazie a loro, diverrà luogo comune. Ma le loro sofferenze non sono tanto le persecuzioni, quanto l’isolamento, il fraintendimento continuo, l’equivoco permanente.
Forse per questo i maestri Zen, a domande intempestive dei discepoli, rispondono con un colpo bene assestato: si può non capire, ma non si può non sentire; e inoltre, se il dolore è la via maestra alla illuminazione, può essere anche un modo di liberarsi da un assedio stringente.
Invece Erasmo, quando era lui nella condizione di discepolo alla Sorbona, trovava un modo diverso, ma altrettanto efficace, per difendersi dagli ultimi maestri di Scolastica: si addormentava sui banchi.
Un secolo dopo, Quevedo, annoiato dalle citazioni mitologiche in poesia, chiedeva che ci fossero mesi vietati alle Muse e sanzioni per chi nominasse, ancora una volta, Giove, Venere, Apollo e gli altri dèi.
Certo una imposta sulla stupidità darebbe un gettito imponente. Sarebbe però gestita dalla burocrazia, la meno adatta a giudicare in materia.
Solo i satirici trovano nella stupidità il loro amaro bene, il corrosivo alimento della loro ispirazione. Né si limitano a guardare gli altri, osservano se stessi.
È questo il segno solidale del loro coraggio e anche della loro grandezza: perché alla stupidità abbiamo tutti sacrificato qualcosa di essenziale.
Ammetterlo è solo questione di lucidità e di memoria.
Alcuni intellettuali godono comunque di un salvacondotto, di una immunità elettiva, di un alibi precostituito: la Storia.
Da quando Hegel ha insinuato un dubbio sulle sue astuzie, non c’è viandante che non vi trovi un confortevole riparo.
Non è più lui che sbaglia, è la Storia, ma per fini che si riveleranno positivi più tardi.
Da maestra di vita si è trasformata in maestra di errori apparenti. Protettrice e materna, è una amante che concede agli uomini quello cui più ardentemente aspirano: la tranquillità.
A volte hanno un soprassalto quando scoprono che le generazioni nuove si comportano come tali, e non come un prolungamento delle vecchie. Tendono infatti a concepire l’umanità come una testa mostruosa, che nei secoli diventa sempre più intelligente: ma dimenticano che il diritto alla stupidità è un patrimonio inalienabile, che ogni generazione trasmette alla successiva.
La loro delusione è per altro salutare, perché niente è più temibile che la coscienza a posto, che il sonno del giusto, che la probità rassicurata.
«Galantuomo sì, ma acuto», ha scritto il Manzoni.
Questa coppia di attributi in coabitazione coatta mi ha sempre affascinato come il contributo più enigmatico che l’intelligenza abbia mai dato al mistero della stupidità: non nega il possibile connubio tra onestà e intelligenza, però il “ma”, se da un lato lo realizza, dall’altro lo avversa. E la stupidità, allontanata dalla porta, si affaccia, presenza inquietante, alla finestra.
[1982]