Grammatica dell’anarchia

Scrivendo su Manganelli, bisognerebbe forse resistere a una tentazione diffusa: quella di ricalcare il suo linguaggio e di offrirne così una sorta di equivalente, che produce, come risultato curioso, la moltiplicazione di Manganelli in altrettanti specchi di artefici aggiunti all’artefice.

Questa assimilazione del lettore al linguaggio dell’opera è l’opposto di quanto avviene normalmente: la metamorfosi, a volte funesta, dell’opera nel linguaggio del lettore. E credo che dipenda da un fenomeno singolare: Manganelli è uno dei pochi narratori italiani che sia riconoscibile – e quindi falsificabile – ad apertura di pagina da un periodo, da una frase, da un vocabolo. È stato lui stesso a parlare, fin dal principio, di «universo linguisticamente abitabile» e il suo sforzo è stato quello, maniacale, di ricrearlo a ogni riga.

La cosa più strana è che questo universo, nella sua unità inconfondibile, è un immenso mosaico di linguaggi altrui, amati e dileggiati, deformati ed estraniati, e solo così, alla fine, fatti propri.

Già il suo primo libro, Hilarotragoedia, del 1964, era contraffatto da Manganelli come un manualetto teorico-pratico, degno di collocarsi «a fianco di un Dizionarietto del vinattiere di Borgogna e di un Manuale del floricultore»: e del trattato – con debita classificazione delle angosce e degli addii e teoremi sulla balistica discenditiva dell’Ade, buco dell’universo – l’opera conserva il tono didattico e la articolazione in assiomi, chiose e postille.

Si direbbe che Manganelli sia dominato da una coazione a ripetere i modi e le figure di una rettorica manieristica, l’unica che, per la sua inattendibilità, può diventare, alla rovescia, attuale. Solo lei gli consente un paradossale rapporto con quella vita sfuggente che gli appare, nel suo nucleo fisiologico, sostanzialmente ripugnante e mostruosa: donde il passaggio da una escatologia ormai defunta a una scatologia araldica alla Swift.

Continuamente tradita dai linguaggi, che la rinchiudono, quanto più sono aderenti, in una illusoria prigione, questa realtà potrà rivelarsi solo se la rettorica, insieme con la sua detestabile finalità, la persuasione, sarà esorcizzata con i suoi stessi strumenti, con le sue figure ingegnose, con le sue vertigini artificiali. In tale contraddittoria riabilitazione i virtuosismi verbali non dovranno mai emanciparsi da un purismo ossessivo:

«Gli uomini vivono una facile vita sgrammaticata e anacolutica; a me è imposta la consapevolezza sintattica. Di quali indulgenze dialettali è fatta la tua giornata, lettore! Ma io sono un esigente purista. Le mie ore sono sempre state declinate secondo leggi di una vessatoria e privilegiata morfologia.»

La Letteratura come menzogna, del 1967, smaschera appunto, in una serie di saggi spesso mirabili, le viltà che immettono la rettorica nella vita e la negano all’arte.

L’asocialità e l’inutilità della letteratura vengono rivendicate con furore polemico, tanto liberatorio e fazioso, quanto, nella sua radicalità, inoppugnabile:

«L’oggetto letterario è oscuro, denso, direi pingue, opaco, fitto di pieghe casuali, muta costantemente linee di frattura, è una taciturna trama di sonore parole. Totalmente ambiguo, percorribile in tutte le direzioni, è inesauribile e insensato. La parola letteraria è infinitamente plausibile: la sua ambiguità lo rende inconsumabile. Proietta intorno a sé un alone di significati, vuol dire tutto e dunque niente.»

Ma proprio la inflessibilità di questa neorettorica esprimerà quella disperazione sommessa che aiuta a vivere:

«Come accade ai testimoni, lo scrittore non sa: ma il suo è un modo altamente specifico di non sapere. Ignora totalmente il senso del linguaggio in cui è coinvolto, donde la sua potenza, la sua capacità di viverlo come magma, coacervo di impossibili, falsi, menzogne, illusionismo, giochi e cerimonie. E tuttavia è anche un uomo che duramente opera una sua materia ostile ed ostinata. Con il linguaggio, definitivo ed illusorio, instabile ed aggressivo, deve costruire un oggetto la cui compatta, dura perfezione chiuda una dinamica ambiguità.»

E quanto alla possibilità di spiegare che cosa vuol dire, «un naturale impeto lo porterà a dire sempre di no, o addirittura a non capire quel che gli altri capiscono».

Capovolgendo i rapporti tradizionali, Manganelli concepirà allora la letteratura come Nuovo Commento (1969) di un testo iscritto sul vuoto, popolandolo di figure rettoriche. Quella frattura fra vita e letteratura che dal Romanticismo in poi continua a provocare vittime patetiche e inesauribili equivoci, viene da lui superata grazie alla polarità illusoria, per cui la vita è sentita come rettorica e la rettorica come vita.

Da qui gli sviluppi sorprendenti del suo lavoro, imprevedibili per chi, credendo alle sue stesse parole e prendendole alla lettera (eppure già il titolo Letteratura come menzogna dovrebbe mettere in guardia), lo scambia per un retore visionario, innamorato della artificialità del testo e cupido di una filologia fantastica: e poi scopre nel Lunario dell’Orfano Sannita (1973) una insofferenza ossessiva e amara per la degradazione contemporanea; oppure scopre, nei suoi viaggi in Cina e altri Orienti (1974), una capacità di fondere l’immediatezza dell’occhio con la divagazione eccentrica, che ci illumina sui paesi visitati più di tanti diagrammi sociologici.

Ma anche chi fa quadrare i conti della letteratura con quelli della morale e della storia, che ormai non riesce a negarsi più a nessuno, si sente con Manganelli in qualche disagio: quando dedica sacrifici simulati Agli dèi ulteriori (1972) o quando vi dilata la propria passione per la lettura dei necrologi in un memorabile Discorso sulla difficoltà di comunicare coi morti.

Nell’ultimo libro pubblicato quest’anno, A e B, Manganelli è riuscito a fondere le due polarità proprio sdoppiando l’io monologante dei suoi libri precedenti. Ha trasformato la sala vuota di un conferenziere vagamente paranoico in un piccolo palcoscenico a due voci, che si scambiano sistematicamente le parti, secondo la figura dell’ironia: ed è passato alle interviste dirette, naturalmente con i morti, scegliendoli fra i tropi più stupefacenti e cangianti, da Casanova a Dickens, da Nostradamus a De Amicis, fino alla antonomasia dell’inafferrabile, Fregoli.

Così il teorico dell’arte come anarchia, come rifiuto della buona fede e della buona coscienza, procede con pervicacia nella compilazione della sua morfologia, della sua sintassi e dei suoi esercizi: ma io credo che la sua grandezza di grammaticus sottrarrà alla morte, alla «allegoria sovrana», i propri exempla.

[1975]