Pessoa e i suoi io
Ciò che fa dell’arte una esperienza centrale è che essa ci avvicina a quella meta cui tendono le nostre aspirazioni più oscure: la riduzione del molteplice all’uno, la conciliazione dei contrari.
Nell’arte noi viviamo, con un piacere fantastico, la conciliazione degli opposti: è come se compissimo quel viaggio di ritorno che Ferenczi ha descritto in Thalassa, ritorno dell’eros alla unità originaria, al grembo materno che ripete l’oceano primordiale della specie. Le antitesi si dissolvono, realtà e desiderio si sovrappongono, nascita e morte sono un unico processo.
Questo carattere bifronte, questa polarità dell’arte è come simboleggiata da una delle sue caratteristiche più singolari: la convergenza di sincerità e simulazione, la loro fusione necessaria, l’enigmatico superamento del loro conflitto.
Sempre gli uomini hanno sentito la relazione sotterranea tra maschera e identità: una sola parola, prósopon, indicava per i greci la maschera, il volto e la persona.
La funzione liberatoria della tragedia era legata al carattere mimetico delle emozioni; e il canone classico dell’arte come imitazione della natura non va perciò inteso nel senso naturalistico di una rappresentazione delle apparenze, ma, al contrario, di una rappresentazione di ciò che non appare, di uno svelare attraverso il velo della finzione mimetica.
«Tutto ciò che è profondo ama la maschera», ha scritto Nietzsche e forse questo è l’inafferrabile segreto dell’arte classica: la simultaneità di sincerità e simulazione, coppia di apparenti contrari che ricalca quella di necessità e libertà, di naturalezza e artificio.
Ci sono state epoche fortunate in cui questa polarità non veniva sentita come punto di arrivo, ma di partenza, oltre la quale si stendeva l’infinito campo delle occasioni: e sono le epoche della pienezza creativa, dell’arte classica.
E altre epoche in cui l’equilibrio dei contrari si spezza e la sincerità non viene più scoperta dalla simulazione fantastica, non è più un salto della immaginazione, ma diventa confessione autobiografica; oppure una simulazione continua, l’artificio, è la risposta disperata alla impossibilità di un rispecchiamento reciproco tra l’uomo e il mondo. Ed è l’epoca che viviamo: epoca di disgregazione dell’io, processo che ha avuto inizio proprio da quando l’io è diventato il centro e la circonferenza dell’universo conoscitivo, il «legislatore» della natura, il dio ignoto a se stesso.
Lo scrittore che forse impersona, nel modo più radicale, questa condizione è Fernando Pessoa.
Poeta tra i più grandi del Novecento, Pessoa trascorse a Lisbona, dove era nato nel 1888, una esistenza oscura di impiegato in ditte di import-export, ricusando occupazioni apparentemente più gratificanti, che rischiavano però di sottrarlo a quella totale concentrazione sul proprio mondo interiore che era il significato della sua vita.
Questo appartarsi richiama destini analoghi: da Proust, isolato dal mondo esterno, al Joyce ulisside, con le sue armi fatte di «silenzio, esilio e astuzia», da Ettore Schmitz, che nega di essere Italo Svevo, a Musil e a Kafka. E in questa scelta del vivere nascosto c’è già la dissimulazione. Scrive Pessoa in una nota del 1915:
«Ogni uomo che meriti di essere celebre sa che non ne vale la pena.»
E a proposito dei vincitori dice:
«Vince solo chi non riesce mai.»
Perciò, nei 47 anni della sua esistenza, che termina a Lisbona nel 1935, Pessoa – pur essendo promotore, diretto o indiretto, delle avanguardie portoghesi – si limita a pubblicare nella sua lingua un solo volume di versi, Mensagem, l’anno prima di morire.
Ma se tanta è la sua capacità di dissimulare, addirittura mostruosa è la sua capacità di simulare. Crea infatti molteplici scrittori immaginari, ai quali attribuisce orientamenti ideologici, politici e poetici spesso in antitesi tra di loro e testi di stile diversissimo: Álvaro de Campos, ingegnere navale cui si devono, nel 1914, l’Ode Triunfal e, alla fine degli anni Venti, alcune luminose poesie nichiliste; Ricardo Reis, malinconico medico classicista ed epicureo; Bernardo Soares, assorto frequentatore di una modesta trattoria di cui era cliente Pessoa e autore di un diario di un grigiore scabro e metafisico; e Alberto Caeiro, che era stato maestro sia di Pessoa sia di Álvaro de Campos e si era ritirato nella solitudine della campagna.
Quattro erano appunto gli eteronimi più importanti di Pessoa: non pseudonimi, ma proiezioni dell’autore, figure che egli ha descritto fisicamente e che ha fatto incontrare tra di loro, provocando influenze reciproche, evoluzioni nel tempo e talora sottili accuse rivolte contro di lui, l’ortonimo.
Ma quando, per l’edizione completa delle sue opere – giunta per ora al decimo volume – si aprì nel 1942 il baule dei suoi manoscritti, altri venti scrittori si aggiunsero ai quattro già famosi: tra essi un autore di metafisica esoterica e un autore di romanzi polizieschi, genere amato da Pessoa («Il declino del romanzo poliziesco ha chiuso per sempre una delle mie porte di accesso alla letteratura moderna»).
Sul piano psicologico questa moltiplicazione dell’io reagiva a una disgregazione vissuta come dolore, come angoscia, come inadattabilità alla vita:
«Io sento perfettamente, con tutta la coscienza del mio corpo, di essere il bambino triste che la vita ha malmenato. Mi hanno messo in un canto da dove sento altri che giocano. Tengo tra le mani il giocattolo rotto che mi hanno regalato per un’ironia di latta.»
Per gli amanti delle classificazioni cliniche, fatte per soddisfare la loro sete di non sapere, cioè di ridurre tutto al proprio livello, ci sono le rapide, nervose definizioni dello stesso Pessoa:
«L’origine mentale dei miei eteronimi sta nella mia tendenza organica e costante alla spersonalizzazione e alla simulazione.»
E, ancora più rassicurante:
«Sono pazzo, e in un modo difficile da concepire.»
Ma sul piano creativo la capacità di drammaturghi e romanzieri di moltiplicarsi nei personaggi delle loro opere è stata calata da Pessoa nella propria vita («Mi sento multiplo») e nella propria poesia («Sii plurale come l’universo!»).
Ai toni accesi, visionari, di una epicità sconfitta si alternano gli accenti sordi, cupi, di chi vive prigioniero:
«Carcere infinito: perché sei infinito non si può evadere da te!»
Il reale è indecifrabile («Ma cos’è conosciuto? Cos’è che tu conosci, / perché tu possa chiamare sconosciuto qualcosa in particolare?») e la irrealtà inghiotte non solo le sue proiezioni, ma lui stesso:
«Non so, beninteso, se realmente non siano esistiti o se sono io che non esisto. In queste cose, come del resto in ogni cosa, non dobbiamo essere dogmatici.»
C’è in Pessoa quel coraggio, che si ritrova solo nei maestri, di guardare la realtà con occhi impavidi («la perfetta inutilità della speranza»). E in una lettera forse mai spedita dice:
«Devo alla missione che sento in me una perfezione assoluta nella realizzazione, una serietà totale nello scrivere.»
Il paradosso in Pessoa non ha nulla della sfida barocca, è un interrogativo religioso e metafisico che affonda le sue radici, oltre che nella tradizione esoterica e rosacrociana, nel pensiero greco arcaico e in certe modalità della meditazione taoista (in una lettera parla della sua «forza di non fare»; e poco prima aveva scritto: «agire, per me, è farmi violenza»).
In questa separazione tra l’io e se stesso e tra l’io e il mondo il polo della sincerità si dissolve («Quando parlo con sincerità non so con quale sincerità parlo») e cade ogni illusione di mutamento:
«Così, non evolvo, VIAGGIO.»
Ma il viaggio è senza meta:
«E che altro ci sarà nell’andare se non andare senza fermarsi?»
In una poesia memorabile Pessoa rappresenta uno dei suoi io mentre «guidando sconsolatamente un’automobile in prestito», sulla strada di Sintra, si sente «sempre meno vicino» a se stesso; ma è proprio questa fuga da se stesso che lo avvicina al cuore dell’esistenza, di quella vicinanza di cui parla Klee nel proprio epitaffio:
Nell’al di qua non mi si può afferrare
ho la mia dimora tanto tra i morti
quanto tra i non nati
più vicino del consueto alla creazione
ma non ancora abbastanza vicino.
[1979]