La sfiducia nella parola

La sfiducia nella parola cresce come l’inflazione.

Quanto più se ne abusa in dibattiti, in tavole rotonde, in fiumi silenziosi di carta stampata, tanto meno le si crede. Ci si aspetta tanto poco dalla parola, che essa finisce quasi sempre per darlo.

In questo senso assolve una funzione ipnotica, rassicurante, sedativa.

Se riesce a superare la soglia dell’attenzione, ha già vinto la sua prova più ardua e si accontenta di questo momentaneo trionfo.

L’apprensivo ricorso, nei risvolti di copertina, a un aggettivo quale “sconvolgente” dimostra come si disperi non solo di indurre un minimo turbamento nel lettore, ma perfino di risvegliarlo dal suo sonno a occhi aperti.

E l’aggettivo “inquietante” riservato agli scrittori dimostra la misteriosa attrazione che ha sempre esercitato non la verità, ma il suo contrario. E come siamo attirati dall’abisso, anziché dal sentiero che lo costeggia, così la percezione che un libro è faticoso induce molti recensori ad arrischiare che è avvincente. Non ho mai visto nessuno inquieto per un libro “inquietante”. Forse irritato.

Eppure le parole meno attendibili sono destinate ad ascesa irresistibile, come la moneta cattiva che caccia la buona. C’è chi su “autentico” ha costruito una fortuna. E non si tratta solo di commercianti di mobili.

Molti – anzi pochissimi, quasi nessuno, se vogliamo cominciare a rispettare il linguaggio – temono che il trionfo della cosiddetta “civiltà dell’immagine” sottragga spazio alla parola. Certo sarebbe auspicabile. Collocata ai margini di trasmissioni silenziose, elusa dal linguaggio dei gesti, conteggiata come si usa per i telegrammi e addebitata a chi la spreca, è probabile che la parola riacquisterebbe i suoi poteri invisibili, la sua forza originaria, la sua virtualità umiliata.

«Eccovi il punto da cinquanta dracme!», esclamava il sofista Prodico di Ceo nelle sue lezioni agli Ateniesi, quando li vedeva distratti: e otteneva subito il massimo di attenzione. Ma se avesse dovuto associarsi lui stesso al versamento della quota, è probabile che anche la sua prestazione ne avrebbe guadagnato.

Si è scoperto il linguaggio del corpo, ma solo per imporglielo.

E ora che la medicina psicosomatica, ad appena duemilaquattrocento anni da Ippocrate, ha scoperto che esso scambia delicati messaggi con la psiche, chi cura la psiche?

Ho ascoltato a Milano, poco tempo fa, un successore del maestro Zen Deshimaru, che, dopo avere illustrato la differenza tra la pratica e lo studio, concludeva: «Non c’è opposizione tra di loro. La pratica è lo studio». Ma era il primo a dissimulare, sotto un sorriso discreto, il timore che le sue parole si traducessero solamente in altre parole, e non in un modo di essere.

Questa metamorfosi di tutte le pratiche in una pratica suprema, quella della parola, deforma, agli occhi propri e altrui, ogni esperienza.

Con il suo lessico classificatorio ha invaso il campo dei rapporti sentimentali e sessuali e, rendendoli uniformi, li ha resi contemporaneamente irriconoscibili. Quante volte, nel vivere o nell’evocare tali rapporti, la parola sbagliata al momento giusto ce ne ha precluso l’accesso.

Perciò occorrerebbe avere con la parola la stessa cautela che i pittori hanno con i colori.

Certo non si può pretenderla in ogni occasione. E, dato che in genere la si acquista nei momenti di difficoltà, non è forse il caso di rammaricarsi se si è deconcentrati.

La fede nella verbalizzazione universale ha toccato il suo apice alla fine degli Anni Sessanta. Poi il calo improvviso di pressione ha disorientato l’organismo. Le parole, dubbiose del loro potere magico non solo di definire, ma di modificare la realtà, sopravvivono in riti perplessi, in riunioni imbarazzate. L’ascolto, come dicono gli esperti, è aumentato, ma l’attesa è diminuita.

In questa fase il linguaggio dei suoni ha riempito un vuoto: perché io credo che ci sia un rapporto – oggi – tra l’eclisse della parola e la popolarità della musica. Il linguaggio verbale è diventato un rumore di fondo e il discorso più attendibile è quello, indecifrabile, della musica.

“Il linguaggio internazionale della poesia” è, ad esempio, una di quelle formule fatte per rassicurare, come un contenitore levigato. Ma è meglio probabilmente non aprirlo e non esplorarlo. Mentre il linguaggio internazionale della musica è una realtà che non ha bisogno di mediazioni: non ci sono barriere linguistiche né fraintendimenti vistosi. O almeno così sembra e tanto basta. E l’intuizione di Leopardi, che ci sono sentimenti che possono essere espressi solo dalla musica, riappare sotto forma di tacita certezza nell’adesione dell’ascolto.

Né si tratta di quell’irrazionalismo che fino a poco tempo fa si cercava di esorcizzare aggrottando le ciglia, annuendo gravemente e appellandosi a una nozione severa della ragione.

Si tratta di un fenomeno infinitamente più complesso. Accanto alla sconfinata ricchezza dei poteri espressivi, si riscoprono, del linguaggio musicale, le virtù arcaiche e fondatrici: il dominio magico sulla totalità del reale, sui regni del visibile e dell’invisibile. Però trasposte nell’unica forma in cui possiamo credere, quella allusiva e metaforica, mentre ci viene negata l’unica in cui vorremmo credere, quella letterale.

[1982]