I gradini del gigante
di Thomas Crofton Croker
Sulla strada tra Passage e Cork c'è una vecchia residenza chiamata Ronayne's Court. Si riconosce facilmente dal mucchio di comignoli e dalla sommità dei frontoni, che si vedono da qualunque parte si guardi. Erano qui che Maurice Ronayne e sua moglie Margaret Gould avevano la loro casa, come si può apprendere ancor oggi dalla grande mensola del camino su cui è inciso il loro stemma nobiliare. Erano una coppia molto distinta e avevano un solo figlio, chiamato Philip, dal nome, nientemeno, del Re di Spagna.
Appena annusò l'aria fredda di questo mondo il bambino starnuti, cosa che naturalmente fu considerata un buon auspicio, un segno che aveva la mente vivace; la rapidità con cui in seguito imparò fu veramente sorprendente, perché proprio il primo giorno in cui gli fu messo in mano un sillabario strappò la pagina dell'A B C e la distrusse, come se non fosse degna di esser presa in considerazione. Non c'è da meravigliarsi quindi che sia il padre che la madre fossero fieri del loro erede, che dava tali indubbie prove di essere un genio o, come dicevano in quella parte del mondo, un genus.
Una mattina, tuttavia, il padroncino Phil, che aveva allora giusto sette anni, scomparve, e nessuno seppe dire cosa gli fosse accaduto: furono mandati dei servitori a cercarlo in ogni direzione, a cavallo e a piedi, ma tornarono senza notizie del ragazzo, la cui scomparsa era, nell'insieme, più che mai inspiegabile. Fu offerta una grossa ricompensa, ma non portò nessuna informazione, e gli anni passarono senza che il signore e la signora Ronayne avessero ottenuto alcuna valida spiegazione sul destino del loro bimbo perduto.
A quel tempo, presso Carrigaline, viveva un certo Robert Kelly, che di mestiere era fabbro. Era ciò che si dice un uomo in gamba e le sue capacità erano tenute in grande considerazione da ragazzi e ragazze del vicinato; perché a parte ferrare cavalli, cosa che faceva con grande abilità, e fabbricare lame per gli aratri, interpretava i sogni delle ragazze, cantava «Arthur O'Bradley» ai loro matrimoni ed era un tipo così allegro ai battesimi che di lui si parlava in metà del circondario.
Ora accadde che Robin fece lui stesso un sogno, e nell'ora più fonda della notte gli apparve il giovane Philip Ronayne. Robin credette di aver visto il ragazzo in groppa a un bel cavallo bianco; il ragazzo gli raccontava come fosse stato fatto paggio del gigante Mahon Macmahon, che l'aveva portato via e che aveva il suo dominio nel duro cuore della roccia. «I sette anni, la durata del mio servizio, sono terminati, Robin», diceva, «e se questa notte mi liberi, farò la tua fortuna per sempre.»
«E come posso sapere», disse Robin, furbo anche nel sonno, «che questo non è solo un sogno?»
«Prendi in pegno questo», disse il ragazzo, e a quelle parole il cavallo bianco tirò un calcio con una delle zampe posteriori e dette al povero Robin una tale botta in fronte che, credendo di essere morto, lui urlò più forte che poté e si destò lanciando mille maledizioni. Si trovò a letto, ma aveva sulla fronte il segno del colpo che aveva preso, della forma esatta di un ferro di cavallo, e rosso come il sangue.
Allora Robin Kelly, che mai prima di allora si era trovato sconcertato dai sogni di qualsiasi altra persona, non seppe cosa pensare del proprio.
Robin conosceva bene i Gradini del Gigante: e in verità chi è che non conosce quella baia? Sono costituiti da grandi massi di roccia che, uno sopra l'altro, si innalzano come una rampa di gradini dall'acqua più profonda contro l'erta scogliera di Carrigmahon. E non si può dire che non siano adatti come gradini, per chi abbia gambe sufficientemente lunghe per scavalcare con un passo una casa di normale grandezza, o coprire lo spazio di un miglio con un balzo, un passo e un salto. Tutte cose che il gigante MacMahon si diceva avesse compiuto ai giorni della gloria di Finn; e la tradizione popolare del paese collocava la sua dimora all'interno della scogliera su per il cui fianco conducevano i gradini.
Tale fu l'impressione che il sogno fece a Robin che egli decise di verificarne la veridicità. Gli venne però in mente, prima di iniziare questa avventura, che la lama di un aratro avrebbe potuto non essere una cattiva compagna, dato che sapeva per esperienza che era un eccellente argomento d'urto - che in più d'una occasione aveva sistemato molto tranquillamente un piccolo disaccordo; quindi, messane una sulle spalle, parti, nel fresco della sera, attraverso Glaun a Thowk (La valle del Falco) in direzione di Monkstown. Qui viveva un suo vecchio compare (di nome Tom Clancey) il quale, quando senti il sogno di Robin, promise di lasciargli usare la sua barca e inoltre si offri di assisterlo remando fino ai Gradini del Gigante. Dopo la cena, che fu delle migliori, si imbarcarono. Era una notte bella e tranquilla e la piccola barca scivolava via veloce. Solo il rumore regolare dei remi, la canzone lontana del marinaio e ogni tanto la voce di un viandante in ritardo al traghetto di Carrigaloe rompevano la quiete della terra, del mare e del cielo. La marea era favorevole e dopo pochi minuti Robin e il suo compare si riposarono appoggiandosi sui remi sotto la cupa ombra dei Gradini del Gigante. Robin cercò con ansia l'ingresso del palazzo del Gigante che, si diceva, può essere trovato facilmente da chi lo cerca a mezzanotte; ma non riuscì a vedere quell'entrata. La sua impazienza l'aveva spinto ad andare li in fretta prima di quell'ora e, dopo aver atteso un bel po' in uno stato di incertezza indescrivibile, Robin, in un puro accesso di rabbia, non poté fare a meno di apostrofare il suo compagno: «Che bel paio di idioti siamo, Tom Clancey, a venir qui solo sulla base di un sogno».
«E di chi è la colpa, se non tua?», disse Tom.
Nel momento in cui quello parlò videro arrivare dalla scogliera un debole chiarore che gradualmente aumentò, finché apparve un porticato abbastanza grande per un palazzo reale, quasi al livello dell'acqua. Spinsero la barca verso l'apertura e Robin Kelly, afferrata la sua lama d'aratro, entrò coraggiosamente, con mano forte e cuore fermo. Strano e selvaggio era quell'ingresso, che appariva formato di facce truci e grottesche che si confondevano così stranamente le une con le altre che era impossibile discernerne una: il mento di questa formava il naso di un'altra; quello che sembrava essere un occhio fisso e severo, se ci si soffermava, si mutava in una bocca spalancata; e le linee di un'aristocratica fronte diventavano una barba maestosa e fluente. Più Robin si abbandonava a contemplare le forme intorno a lui, più queste diventavano spaventose; l'espressione impietrita di questa folla di volti prendeva un'aria di crudele ferocia, mentre la sua immaginazione convertiva un tratto dopo l'altro in una forma e in un personaggio diverso. Mentre scemava la tenue luce in cui queste forme indefinite erano visibili, avanzò lungo un corridoio cupo e tortuoso, mentre giungeva un rumore profondo e rimbombante, come se la roccia stesse per chiudersi sopra di lui, inghiottendolo vivo per sempre. Ora il povero Robin ebbe davvero paura.
«Robin, Robin», si disse, «se a venire qui sei stato un idiota, cosa sei adesso, in nome della sorte?» Ma, come era successo prima, aveva appena parlato, quando vide una piccola luce scintillare attraverso il buio, lontano, come una stella nel cielo di mezzanotte. Tornare indietro era fuori discussione, perché nel corridoio c'erano così tante curve e giravolte che riteneva di avere ben poche possibilità di trovare la strada. Continuò dunque ad avanzare verso il puntino di luce e arrivò infine in una sala spaziosa, dal cui tetto penzolava la lampada solitaria che l'aveva guidato. Emergendo da una oscurità così profonda, quella sola lampada offri a Robin una luce più che sufficiente per scoprire diverse figure gigantesche sedute intorno a un massiccio tavolo di pietra, come prese da gravi decisioni; ma non una parola disturbava il silenzio assoluto che regnava. A capo della tavola sedeva Mahon Macmahon stesso, la cui barba maestosa aveva messo radici, e nel corso degli anni era cresciuta dentro il lastrone di pietra. Fu lui il primo a vedere Robin; e alzatosi di colpo, tirò fuori la sua lunga barba dall'enorme pezzo di pietra con tale fretta e con uno strattone così improvviso che esso si frantumò in mille pezzi.
«Cosa vai cercando?», domandò con voce tonante.
«Vengo», rispose Robin con tutto il coraggio che riuscì a mettere insieme, perché in petto il suo cuore stava quasi per venirgli meno; «vengo», disse, «per reclamare Philip Ronayne, il cui periodo di servizio termina questa notte.»
«E chi ti ha invitato qui?», disse il gigante.
«È stata un'idea mia», disse Robin.
«Allora devi distinguerlo fra i miei paggi», disse il gigante, «e se scegli quello sbagliato, perdi la vita. Seguimi.» Condusse Robin in una vasta sala splendente di luce; ai due lati c'erano delle file di bei bambini, che dimostravano tutti sette anni, e nessuno più di quell'età, vestiti di verde, ognuno addobbato esattamente come gli altri.
«Ecco», disse Mahon, «sei libero di prendere Philip Ronayne se vuoi; ma ricorda che ti do una sola possibilità di scelta.»
Robin era terribilmente perplesso; perché c'erano centinaia e centinaia di bambini, e non aveva nessun chiaro ricordo del ragazzo che stava cercando. Ma camminò lungo la sala, a fianco di Mahon, come non ci fosse nulla di cui preoccuparsi; anche se la sua corazza sferragliava paurosamente a ogni passo, con un rumore più forte di quello del maglio di Robin quando batteva sull'incudine.
Erano giunti quasi alla fine senza parlare quando Robin, vedendo che la sua unica possibilità era fare amicizia con il gigante, decise di provare quale effetto potessero avere delle parole gentili.
«I poveri bambini hanno un aspetto molto sano», osservò Robin, «per essere stati qui così a lungo lontani dall'aria fresca e dalla luce benedetta del cielo. Vostro onore deve averli allevati con tenerezza!»
«Si», disse il gigante, «è vero ciò che dici; qua la mano, perché mi sembra che tu sia una persona molto onesta, per essere un fabbro.»
A Robin, alla prima occhiata, non piacque molto l'enorme dimensione della mano e perciò porse la lama d'aratro, che il gigante afferrò e piegò tutta con la sua stretta come fosse stata un gambo di patata. A quella vista tutti i bambini ruppero in uno scroscio di risa. Nel bel mezzo della loro allegria Robin credette di avere udito chiamare il proprio nome; e fattosi tutt'occhi e orecchi mise la mano sul bimbo che gli sembrava avesse parlato, dicendo nel contempo: «che ne vada della mia vita, o della mia morte, questo è il giovane Phil Ronayne».
«Si, è Philip Ronayne... Fortunato Philip Ronayne», dissero i suoi giovani compagni, e in un istante la sala divenne buia. Si udirono rumori fragorosi e tutto divenne stranamente confuso; ma Robin teneva salda la sua conquista, e si trovò nell'alba grigia del mattino disteso in cima ai Gradini del Gigante con il ragazzo stretto fra le braccia.
Robin aveva un bel po' di compari pronti a diffondere la storia della sua meravigliosa avventura: a Passage, a Monkstown, a Carrigaline; nell'intera baronia di Kerricurrihy non si parlò d'altro.
«Sei proprio sicuro, Robin, che sia il giovane Phil Ronayne quello che hai riportato con te?» Era la domanda consueta; perché, sebbene il ragazzo fosse stato via sette anni, il suo aspetto era adesso del tutto simile a quello del giorno in cui era mancato. All'apparenza non era né cresciuto né invecchiato, e parlava di cose che erano capitate prima che venisse portato via, come una persona svegliata dal sonno, o come se quelle cose fossero successe ieri.
«Se ne sono sicuro? Beh, ecco una domanda strana», era la risposta di Robin; «se si considera che il ragazzo ha gli occhi blu della madre e i capelli fulvi del padre; per non parlare del grazioso neo sul lato destro del suo nasetto.»
Ma qualunque fossero le domande poste a Robin
Kelly, la distinta coppia di Ronayne's
Court non dubitò che fosse lui ad aver liberato il bambino dal
potere del gigante MacMahon; e la ricompensa che gli elargirono fu
pari alla loro gratitudine. Philip Ronayne visse tanto a lungo da
diventare vecchio; e fino al giorno della sua morte dimostrò una
eccezionale abilità nel lavorare l'ottone e il ferro, cosa questa
che si diceva avesse imparato durante i sette anni di
apprendistato presso il gigante
MacMahon.