La sequenza dei Turner IV: Noah
La Città ha visto Noah. Conosce il suo odore. Dunque, benché le sue visite siano saltuarie e di solito brevi, lo tiene d’occhio mentre è lontano. La sua tortura non è niente da cui lui si possa risvegliare sudando freddo, qualcosa che possa essere spazzato via dal tocco rassicurante di un’amante, o da un po’ di televisione a notte fonda. È la sua vita che segue il proprio corso.
Tutto ha inizio nel 2002, mentre Noah aspetta Megan nel parcheggio del Fun Mountain. Si sente insicuro e solo, in mezzo al cemento e ai lampioni che brillano di una luce artificiale giallo-verde un po’ troppo familiare. In parte avrebbe voluto spingersi fino all’antro della sala giochi, illuminato da una fioca luce viola. Ma per una volta del buio ne ha abbastanza.
Quindi resta lì ad aspettare, seduto a gambe incrociate sul cofano della macchina, con le dita infilate nell’incavo dove i suoi polpacci si toccano. Spera di avere un’aria carina, da monellaccio, un Peter Pan del ventunesimo secolo con una benda da pirata sull’occhio, accorso per accompagnare la sua Wendy in allegre scorrerie. Continua ad allungare la mano verso la pietra vicino al collo, come gli capita di fare quando è nervoso, e di volta in volta si stupisce di non trovarla. L’ha lasciata in un cassetto della scrivania, in camera da letto, dove può pure marcire, per quanto lo riguarda. Spera soltanto che la sua assenza non lo faccia sentire troppo nudo e vulnerabile.
Megan arriva, scende dalla sua macchina, è su di giri per via della rinvigorente serata salva-anime, ha i capelli raccolti in una coda di cavallo. A Noah appare come il ritratto della normalità, di una vitalità schietta. Dopo la giornata che ha passato, non vedeva l’ora di incontrarla.
Cosa c’è?, chiede lei; poi, notando l’espressione di Noah, il sorriso l’abbandona.
Lui è stato in dubbio su cosa dirle per ore, ma sceglie infine la verità pura e semplice. Ho bisogno del tuo aiuto.
Le spiega che della sua storia non le ha ancora raccontato tutto. Megan sale in macchina, e lui le racconta della notte in cui Sydney è svanita, dell’urlo e del contemporaneo blackout che avevano preannunciato la cosa. Le dice degli strani rumori che nelle settimane immediatamente precedenti alla scomparsa di Sydney aveva sentito alla finestra della propria camera, e del modo ambiguo in cui sua madre e sua sorella Eunice avevano reagito al disegno della creatura simile a un lupo fatto da James O’Neil.
A Megan non racconta proprio tutto, comunque. Non le dice della sua amicizia con la creatura, del nome che le ha dato o che fino a quel giorno sono stati amanti. Vuole che la ragazza lo consideri una persona semplice e sincera. Lei ha bisogno di vederlo come un’amorevole vittima che per la prima volta trova la forza di confidarsi, non come il ragazzo che si è fottuto un mostro.
Quando conclude la sua parziale confessione, Megan gli prende una mano, e un’ora dopo sono entrambi nel soggiorno di Ellen per una riunione di emergenza della Compagnia dei Dispersi. Il soggiorno sembra molto più in disordine dell’altra volta. Viene fuori che nelle ultime settimane l’intera Compagnia si è trattenuta a casa di Ellen. Di solito comunicano più che altro via internet, ma hanno stabilito di riunirsi una volta all’anno per fare il punto e passare un po’ di tempo insieme. A giudicare dalle ciotole di popcorn e dal fotogramma del film Il sesto senso in pausa sullo schermo, Noah immagina di aver interrotto una serata a base di cinema.
Riassume il suo racconto ai membri riuniti del gruppo. Josh lo guarda storto per tutto il tempo, senza rivolgergli però nessuna domanda. Se ne sta seduto ad ascoltare e prende perfino appunti.
Dopo una settimana Megan dovrà riprendere la scuola a Chicago, e gli altri membri si separeranno per fare ritorno alle proprie case. Non ha nessuna voglia di tornare da sua madre, Noah resta quindi con la Compagnia a casa di Ellen, dormendo sul pavimento in soggiorno in cima ad alcune coperte. Lui e il gruppo ripassano giorno e notte la sua storia in cerca di indizi. Noah non fornisce loro nessuna spiegazione ulteriore, attenendosi alla sua versione dei fatti con una fedeltà tale da crederci quasi lui stesso. La Compagnia è frustrata e al tempo stesso elettrizzata. Noah non condivide tutta quell’eccitazione. A lui non interessa sapere di più sulle creature, o sulla Città. Vuole solo gettarsi alle spalle quella vita e quel posto. Quando la settimana finisce e Megan gli propone di andare a Chicago con lei, accetta istantaneamente.
Alla madre parla per telefono del suo trasferimento. Lei si mostra tranquilla e razionale, ma lo avverte che non ci sarà mai una persona capace di risolvere tutto al posto suo, non per sempre.
A Eunice non dice nulla. Non si parlano dal giorno dell’addio al celibato di Hubert.
Quando Megan se ne va dalla cittadina diretta a Chicago, Noah è seduto in macchina accanto a lei; si scambiano occhiate nervose ma incoraggianti. Con sé lui ha portato solo una valigia piena di vestiti e una copia de Il richiamo di Cthulhu e altre strane storie che gli ha dato Eli, il membro più giovane della Compagnia. Lo tiene in grembo come un talismano mentre Vandergriff scorre rapidamente al di là dei finestrini, con la macchina che romba e stride, e la pioggia che tamburella sul tetto.
Quando imboccano l’autostrada, però, tutti i rumori scompaiono di colpo. È come se il mondo intero fosse senza audio. Noah si volta a guardare Megan, vuole capire se anche lei ha notato quella stranezza, e attraverso il finestrino vede i paracadute del Fun Mountain.
Un lampo di luce fende la giornata grigia, un fulmine che sembra colpire il parco dei divertimenti. In quel momento la struttura con i paracadute assume le sembianze di una colossale e nerissima torre, liscia come vetro vulcanico, proiettata verso il cielo momentaneamente rischiarato. La superficie luccica come catrame fresco, oleosa e viscida.
Quando quell’immagine sfuma, i suoni ritornano. Il mondo trema con un fragore gigantesco, una lunga cresta di suoni che apre la terra. Noah si dibatte a denti stretti lungo il bordo della cresta, terrorizzato di sprofondare in un qualche abisso, dove si troverà da solo con… con…
Riesce a guardare Megan e si accorge che lei gli sta lanciando occhiate preoccupate. La macchina ha rallentato. Le vibrazioni se ne vanno e i rumori del mondo si rifanno vivi tutti in una volta, come se qualcuno avesse girato la manopola del volume alzandolo troppo e troppo rapidamente.
Qualcosa non va?, gli chiede Megan, e intanto i rumori gli raschiano il cervello. Devo fermarmi?
Noah si rende conto di essere schiacciato contro la portiera, con una mano contro il cruscotto e l’altra sul poggiatesta.
La mandibola gli si sblocca a fatica. No, non fermarti. Portami via da qui.
A Chicago trova un minuscolo monolocale al terzo piano di un vecchio edificio pieno di spifferi. C’è un unico bagno per tutti gli inquilini del piano. È squallido, ma, mentre cerca lavoro, con i suoi risparmi non può permettersi di meglio. Megan dorme al college, ma va a trovarlo quasi ogni giorno e a volte si trattiene per la notte. Noah trova lavoro in una libreria Barnes & Noble a due passi dall’università. Sebbene all’inizio non lo facciano lavorare più di venti ore alla settimana, trascorre lì anche le sue giornate libere. Il posto è caldo, ben illuminato, e gli praticano uno sconto del cinquanta per cento sul caffè, il che lo rende preferibile al suo appartamento, dove fa sempre più freddo. L’aspetto migliore, anche se la benda sull’occhio continua a fare incetta di sguardi estranei, è che la gente non lo tratta come qualcuno di cui avere paura. Per la gente di Chicago Noah è solo un libraio come tanti.
Per alcuni mesi non succede nulla. Noah fa il suo dovere in negozio, ottiene di lavorare più ore e approfondisce la conoscenza di Megan al di fuori dell’ampio substrato comune di dolore e perdita. Lei è gentile, ma c’è qualcosa d’inscalfibile alla radice, la forza di una persona che troppo presto nella vita ha dovuto fare i conti con un dolore immenso. È la forza che vorrebbe avere anche lui.
Quando fanno sesso per la prima volta, è qualcosa di tenero e delicato. Non si conclude con un bagno di luce d’oro, con una scissione della coscienza, con un momento che trascende il tempo e lo spazio. Invece ci sono diversi piacevoli spasmi muscolari in successione e a seguire un crollo in una selva contorta di arti aggrovigliati.
Mentre lui rotola via da lei, Megan gli tocca una guancia: è bagnata di lacrime. Cosa c’è che non va?, gli chiede.
Niente, è solo che sono molto felice, risponde Noah. Vorrebbe che fosse vero. Vorrebbe sentire ciò che è appena successo come una cosa normale, come se da parte sua non ci fosse stato nessun tradimento.
Cerca di allontanare Leannan dal centro dei suoi pensieri. Quella parte della sua vita è finita. Per il bene del suo equilibrio mentale e del suo spirito deve per forza andare così.
Il giorno seguente, mentre sta tornando a casa a piedi dalla libreria, succede qualcosa. Gira a sinistra a un incrocio, e invece di spuntare in una grande strada affollata si ritrova in un vicolo chiuso fra due anonimi edifici di mattoni che non ha mai visto. Alla sua destra si spalanca una porta di metallo, da cui esce un uomo barbuto e tatuato con due sacchi della spazzatura. È in jeans e maglietta, e si ferma a fissare Noah che indossa giaccone pesante e sciarpa. Di colpo Noah sente di avere troppo caldo vestito a quel modo.
Ti sei perso?, gli domanda l’uomo.
Noah non risponde, gli volta le spalle e torna sui suoi passi. Quando sbuca dal fondo del vicolo, è in un’ampia strada costeggiata da edifici cadenti i cui mattoni sembrano in un certo senso stinti, come se qualcuno avesse risucchiato con una cannuccia la maggior parte del loro colore. Le finestre sono piene di polvere e ragnatele, e in giro non c’è nessun altro. Noah torna a guardare il vicolo, ma non c’è più. È in piedi davanti a un muro spoglio.
Si ferma sotto un’indicazione stradale e solleva la testa per leggerla. È scritta in una lingua che non conosce, sopra il cartello il cielo è verdastro. Dalla gola gli sfugge un verso stupito che è quasi una risata. «Ah.» È il tipo di verso che potrebbe fare un artigiano sorpreso, colpito dal lavoro di un collega.
C’è nessuno?, domanda ad alta voce. Se anche qualcuno sente, non risponde. Poi, e il cambiamento è così rapido da avvenire in un battito di ciglia, Noah si ritrova di nuovo all’incrocio, con gli alberi spogli che tremolano per il vento polare e le macchine incollate l’una all’altra lungo il marciapiede. L’indicazione stradale ha di nuovo un aspetto familiare, e la gente di fretta lo spintona per passare.
Noah valuta se parlarne con Megan, ma cosa ne verrebbe di buono? La farebbe preoccupare o, peggio ancora, una cosa simile potrebbe allontanarla da lui. Se Megan lo venisse a sapere, non lo lascerebbe, forse, considerandolo una causa persa?
Perciò quel giorno non le dice nulla, e non le dice nulla delle notti in cui si sveglia intorno alle tre del mattino, convinto di sentire una donna che gli sussurra qualcosa all’orecchio. Noah pensa che certe cose non gli piacciono, che non è per nulla affascinato da quegli strani eventi sovrannaturali.
In primavera, dopo gli esami di metà semestre, Megan riceve una telefonata dall’avvocato del padre. La data dell’esecuzione è stata fissata. Lei e Noah raggranellano i soldi necessari a pagare la benzina per andare in Texas.
Quando arrivano, la prigione ricorda a Noah il suo liceo: le stesse pareti di blocchi di cemento dipinti, i neon, l’identica impressione di operosa indifferenza. Mancano solo le bacheche dei trofei e gli striscioni d’incoraggiamento per i raduni delle squadre scolastiche.
Megan figura nella lista dei visitatori autorizzati di James O’Neil, e le viene permesso di parlargli in privato. Quando esce, ha la faccia gonfia e non dice una parola. Lei e Noah vengono fatti accomodare in uno stanzino in cui due file di sedie sono sistemate di fronte a una vetrata. Si siedono in prima fila, l’addetto spiega loro che la vetrata è in realtà un falso specchio. Loro potranno vedere quello che succede dall’altra parte, il condannato no. Il giornalista di un quotidiano e i genitori di Maria Davis arrivano di lì a poco. Della famiglia di Brandon Hawthorne non si presenta nessuno. Noah sente che gli altri lo osservano, e rabbrividisce. Si impone di guardare la vetrata e prende la mano di Megan, che resta molle nella sua, come una cosa fredda e morta.
James O’Neil viene trasportato dentro su una barella, legato. Il braccio destro è fissato a un prolungamento della barella, e con quel braccio separato dal corpo sembra lo abbiano crocifisso svogliatamente. È completamente rasato e calvo, adesso, e il volto è sciupato e butterato. Ha lo sguardo pensieroso, rassegnato, ad animarlo non c’è più l’energia maniacale che ricorda Noah.
Quando uno dei secondini dietro la vetrata chiede a O’Neil se vuole dire qualche ultima parola, lui si limita a scuotere negativamente il capo. La madre di Maria Davis si mette a piangere non appena un uomo incappucciato gli somministra l’iniezione letale. A quel punto James O’Neil distoglie gli occhi dal soffitto e lo punta verso il vetro. I suoi occhi paiono attraversarlo, e in realtà sembra scegliere proprio Noah per il suo triste e distaccato ultimo sguardo.
A Noah viene in mente quando si trovava nella Città, quando guardava l’uomo inchiodato alla sedia del barbiere. Anche allora, mentre la sedia tramutava quel tale in qualcosa di disumano, lui guardava attraverso un vetro. Si accorge a malapena che Megan ritrae la mano nel momento in cui suo padre schiude le labbra. È come se O’Neil stesse per dire qualcosa, ma un rumore lo blocca, un rumore che sembra riconoscere. Lo riconosce anche Noah: scric-scric-scric. Scric-scric-scric, come farebbe un vetro graffiato da lunghi artigli. Quando il rumore finisce, O’Neil chiude gli occhi e lo portano via. Potrebbe non essere ancora morto, ma lo spettacolo è finito.
Noah e Megan tornano alla macchina senza sfiorarsi e senza parlare. Tutti e due trascorrono diversi minuti a fissare oltre il parabrezza l’edificio in cui la vita di un uomo si è appena conclusa con precisione chirurgica. Noah non riesce a scrollarsi di dosso l’ultimo sguardo del vecchio, e quel rumore di graffi su un vetro gli è rimasto inciso alla base del cranio, i brividi lo scuotono da cima a fondo. Per impedirsi di tremare afferra il volante. Accanto a sé percepisce il dolore di Megan. Peggio, ciò che percepisce è un vuoto che gli si spalanca davanti, un buco in cui se non farà bene attenzione potrebbe precipitare. Quanto ci vorrà prima che dietro quella vetrata a ricevere l’iniezione letale ci sia lui?
Sposiamoci, dice.
Megan ci mette un po’ a voltarsi e a rendersi conto di ciò che lui le ha appena detto. Sei serio?
Sono serio.
Ma intendi adesso?
Il prima possibile.
Prolungano il soggiorno in Texas quanto è necessario ad approntare una piccola cerimonia alla Holy Spirit Church, a cui partecipano soprattutto i membri della congregazione e il ramo texano della Compagnia dei Dispersi. Noah non invita i suoi famigliari, non li avvisa neanche che si trova da quelle parti. Kyle si presenta per fargli da testimone. Quando lui e Donna arrivano alla chiesa, è come se Donna avesse un pallone da basket legato in vita. Partorirà nel giro di due settimane. Per qualche ragione quell’immagine, quella prova irrefutabile del passare del tempo fa sì che Noah senta nostalgia di Eunice. Non è andato al suo matrimonio, e lei ora non sarà al suo.
Noah e Megan passano la notte a Fort Worth, in un hotel decorato con dipinti di cactus e teschi di vacca, vicino ai recinti del bestiame. Dopo aver fatto sesso, Megan piange e non vuole parlargli. Lui la lascia in pace e si addormenta nel proprio lato del letto.
Si sveglia intorno alle tre, muore di sete. Afferra il secchiello del ghiaccio in bagno e si avventura fuori, nel corridoio illuminato. Cerca una scritta che indichi come raggiungere la macchina del ghiaccio, ma in entrambe le direzioni vede solo porte o quadri che con stile fumettistico riproducono panorami desertici. Non c’era forse una finestra in fondo al corridoio, quando sono arrivati? Ricorda male, per forza.
Supera una serie di porte, intercetta il brusio di una conversazione, il ronzio di un televisore, una zaffata di marijuana. Quando gira l’angolo, trova una porta su cui c’è stampata la scritta SCALE. Forse al piano di sotto avrà maggiore fortuna.
Sulle scale moquettate le sue ciabatte fanno un rumore sordo. Una rampa più sotto non trova nessuna porta, e neanche dopo averne scese due. In cima alla quinta rampa si ferma e si sporge oltre il corrimano, cerca d’ipotizzare quante ancora ne manchino. Un nodo di paura mescolata a un presentimento comincia a farsi vivo alla bocca del suo stomaco. Si rende conto che quella sensazione non gli è estranea. È anzi così familiare da fargli quasi l’effetto di una calda coperta. È la sensazione che lo prende ogni volta che raggiunge la parte saliente di un horror, o quando entra per la prima volta in una nuova casa infestata. Noah si sentiva così la prima volta che ha messo piede nella Città.
Con un unico occhio e una scarsissima percezione della profondità, stabilire quante rampe gli manchino è dura. Guarda verso l’alto, ma probabilmente la sua schifosa percezione della profondità lo sta di nuovo ingannando. Quell’hotel ha solo sei piani, eppure sopra di sé gli sembra di vedere decine di rampe, che si estendono verso l’alto fino a scomparire.
Lassù qualcosa si muove, una sagoma nera spicca su un fondale grigio. Noah indietreggia di colpo, dimenticandosi del presentimento che ha avuto solo qualche istante prima, e dimentica anche che il suolo su cui poggia non è piatto. Cerca di recuperare l’equilibrio sbattendo le braccia come un ridicolo uccello mentre inciampa e capitombola giù per i gradini; ognuno gli procura una strombazzante fitta di dolore. Finisce riverso in fondo alle scale, ha l’affanno, aspetta che si plachi quel dolore lancinante. Sente dei passi pesanti che dall’alto si fanno strada verso il basso, riecheggiano così forte che Noah non è sicuro che si tratti solo di un paio di piedi. Tum-tum-tum, il rumore si fa sempre più forte. Quando raggiunge il culmine, Noah si tappa le orecchie con le mani. Qualcosa si stringe sulla sua spalla.
Non farlo!, urla. Ti prego!
Va tutto bene. Sono io. Noah sente quella voce come se provenisse da dentro la sua testa. È Leannan, gentile e rassicurante.
Lui solleva lo sguardo e sul volto umano di Leannan vede un’espressione addolorata. Lei gli tende una mano, ma si ferma prima di aiutarlo a rialzarsi. Fa scorrere il pollice sulla fede nuova di zecca che Noah porta al dito.
Perché l’hai fatto?, gli chiede. Il tono è ancora gentile, ma trapela un po’ di sofferenza.
Perché non mi lasci in pace?, replica lui.
Lei sembra fare un grosso sforzo per distogliere lo sguardo dalla fede, e prima di parlare s’inumidisce le labbra. Non è così che funziona. Ci sono molte cose che non capisci. Cerca di toccargli la faccia, e lui la respinge.
Lascia che mi spieghi meglio, le dice. Non voglio finire come il padre di Megan. Non voglio finire come Sydney. Non voglio far male a nessuno, e non voglio vederti più. Voglio dimenticare di averti mai conosciuto.
Sono la tua Leannan Si, dice lei.
Vattene!, urla Noah, e subito dopo si ritrova davanti a una porta aperta, dall’altra parte vede l’atrio dell’hotel.
L’impiegato alla reception si piega un po’ in avanti e lo guarda perplesso.
Si sente bene?, gli chiede.
Noah nota per terra accanto a sé il secchiello del ghiaccio, ancora imballato nel suo sottile rivestimento di plastica scricchiolante. Lo raccoglie, lo sventola davanti all’addetto, e attraversa l’atrio per prendere l’ascensore. Risale al terzo piano e trova subito la nicchia con la macchina del ghiaccio. Riempie il secchiello e torna nella sua stanza.
Beve un po’ d’acqua e si rimette a letto. Una volta sdraiato resta a lungo sveglio, pensa a Leannan e alla Città. Ce la mette tutta per convincersi di aver fatto la cosa giusta scacciandola. Che non gli abbia fatto piacere rivederla. Che non sia stato eccitante scivolare per un attimo nelle grinfie della Città, non sapere che cosa avrebbe potuto trovare in fondo alla rampa di scale o dietro l’angolo.
Lui e Megan vanno poi in luna di miele nell’Oregon, ad Ashland, che ospita l’Oregon Shakespeare Festival. È una cittadina idilliaca, sembra uscita da un film, con marciapiedi ampi e parecchie vetrine, negozi con nomi tipo CD or Not CD e ben tre teatri. Sembrerebbe il luogo perfetto per tirare su di morale una sposa fanatica del teatro. La prima sera che trascorrono lì vanno a vedere uno spettacolo, La vita è un sogno, di Pedro Calderón de la Barca. Hanno i posti in galleria, e guardare dall’alto quel dramma dispiegarsi lo fa sentire come se stesse spiando un pittoresco vicinato da una finestra. Nella storia Sigismondo, principe di Polonia, è stato imprigionato da suo padre, re Basilio, per via di una profezia secondo la quale il principe seminerà il caos nel Paese. Ovviamente Sigismondo viene liberato e, in preda alla rabbia, scatena un pandemonio prima che Basilio lo imprigioni di nuovo e lo convinca che la sua breve libertà fosse in realtà solo un sogno.
Finito lo spettacolo, mentre Megan e Noah tornano a piedi in albergo, lei sfoglia freneticamente quella rivista di teatro, Playbill, vivace per la prima volta dopo settimane: indica i primi piani degli attori e legge a voce alta gli aneddoti riportati nelle loro biografie. Lo sapeva, Noah, che una delle guardie reali la scorsa estate aveva interpretato Benedetto in Molto rumore per nulla? Noah deve ammettere che non ne era a conoscenza. Parlare gli viene difficile. Lo spettacolo si è impresso nella sua mente come un pollice premuto su un marshmallow, riducendolo a un ammasso bitorzoluto, e perché recuperi la forma originale ci vorrà un po’.
Va tutto bene?, gli chiede Megan, accorgendosi del suo umore.
Stavo solo ripensando allo spettacolo, dice Noah.
Megan gli stringe un braccio e gli si fa più vicina. Ti proteggerò io, mio bel principe. Intrappolato nella torre del nostro matrimonio sei al sicuro. Dopodiché gli dà uno spintone, e per la seconda volta nella stessa settimana Noah barcolla e perde l’equilibrio. Stavolta finisce in una siepe sul bordo del marciapiede.
Ma chi ti proteggerà da me?, grida Megan, e corre via ridendo.
L’ultimo giorno della luna di miele, dopo una settimana di spettacoli, di sesso senza lacrime e il fascino di una piccola cittadina shakespeariana, la coppia pranza in una tremenda imitazione di un pub britannico, dove il cibo sa di miseria sbattuta nel piatto. Megan sembra di nuovo giù, Noah teme che l’incantesimo della vacanza si sia spezzato.
Al quinto o sesto boccone di pollo ai mirtilli Megan fa delle smorfie, e Noah le dice: Non sei obbligata a finirlo, se non ti piace.
Lei posa la forchetta e si porta il tovagliolo alle labbra. C’è un che di formale in quel gesto, di precario.
Devo chiederti una cosa, gli dice. È un po’ che voglio farlo. E ho bisogno che tu mi dica la verità, anche se pensi che non mi farà piacere ascoltarla.
D’accordo, replica Noah a braccia conserte.
Da bambino hai sentito grattare alla finestra della tua camera, e poi tua sorella è scomparsa. Dieci anni dopo hai visto due di quegli esseri mostruosi lottare per via di mio padre.
Esatto.
A quanto ne so io è tutto qui. Non hai mai parlato di altri incontri, avvistamenti o di altre stranezze in generale. La mia domanda quindi è: È davvero tutto qui? Non c’è nient’altro? Qualcosa che non mi hai raccontato?
Megan ha il cuore spezzato, glielo si legge in faccia. Nei giorni precedenti è riuscita a nasconderlo, ma il dolore è di nuovo lì e sembra in grado di incidersi per sempre dentro di lei. Noah sta per prenderle la mano, teme per un attimo di essere respinto, e se lei lo facesse sa che le racconterebbe tutto in un sol colpo, ogni secondo sovrannaturale che ha sperimentato da quando insieme hanno lasciato il Texas. Le confesserebbe perfino della relazione durata anni con Leannan.
La mano di Megan non si distende nella sua, ma nemmeno si ritrae.
Ti giuro che non c’è altro, dice Noah. Credo sia stata solo una strana coincidenza, o il destino, o comunque ti piaccia chiamarlo. Magari un intervento divino. Il punto è che tutto quello che c’era da dire lo sai già.
Megan ritira la mano, ma prima stringe forte quella di lui. Scuote appena la testa e sorride timidamente, significa che sta cercando di non piangere. Noah è troppo avveduto per provare a bloccare quelle lacrime o per incoraggiarle. Ogni volta lei preferisce combattere quella battaglia da sola. Noah rimane seduto, in attesa.
Quando Megan si ricompone, gli dice: Se sei d’accordo, penso di voler dare un taglio a tutto quello che riguarda la Compagnia.
Come mai?
Perché sento di avere già tutte le risposte che potrei mai avere, spiega. Megan sembra deglutire un boccone amaro. E questo me lo devo far bastare. Si tratta di un addio. Voglio gettarmi la cosa alle spalle.
Con me, spero, dice Noah.
Con te, certo, conferma Megan. Sei mio marito.
Smettono entrambi di parlare. Dal giorno del matrimonio è la prima volta che Megan pronuncia quella parola ad alta voce, una parola che conserva inalterato il suo originario potere incantatore. Colpisce Noah come se il fatto di essere sposato fosse una novità. Ha una moglie. Non importa quello che c’è stato prima, ha compiuto la sua scelta. La responsabilità di Megan è sua.
Sono tuo marito, le dice. E in quanto tale ho una richiesta.
Quale?
Quando ti sarai laureata, non voglio più vivere a Chicago.
E dove vorresti andare a vivere?
Perché non qui? Insomma, non proprio qui, in questo ristorante…
Dio ce ne scampi.
Ma comunque qui. Ad Ashland. Una cittadina votata al teatro. Io potrei lavorare fabbricando scenografie in un laboratorio teatrale, e tu magari potresti recitare in uno o due spettacoli.
In effetti, osserva Megan, questo posto sembra fatto più o meno su misura per noi, non trovi?
Megan si laurea a maggio, e si trasferiscono ad Ashland in un appartamento al primo piano di un palazzo, sopra un negozio di candele. La loro nuova casa ha un odore incantevole a qualsiasi ora.
Megan non riesce a recitare in nessuno spettacolo, ma trova lavoro come insegnante di teatro in un liceo del posto. Noah crea scenografie nel laboratorio di un teatro. Per un po’ le cose vanno bene. Il senso di irrealtà, di confusione costante e la paura della sua vita precedente sfumano in un sogno dai colori pastello e dagli aromi allettanti. L’impressione di essere osservato si attenua, il suo passato è più simile a un incisivo passaggio di un libro che ha letto tempo fa, a un incubo altrui preso in prestito che non a qualcosa di realmente vissuto. Amore e vita semplice, è questa la vera magia.
Ma gli anni passano sempre più veloci. È come se le foglie cadessero dagli alberi solo per risalirci durante la notte, verdi e rigenerate, mentre Noah e Megan abbandonano di buon passo la giovinezza ed entrano nel territorio grigio e nebuloso dell’età adulta. Da qualche parte, mentre gli anni si avvicendano come in una pellicola, qualcosa sfugge via alla coppia.
Quando Noah ha ormai ventinove anni, basta che ci sia un po’ di salsa di pomodoro in quello che mangia, perché gli s’infiammi l’esofago. Schiena e ginocchia gli fanno sempre male senza motivo. Ovunque vada, con sé porta un tubetto di antiacido e un flacone di ibuprofene. Ogni volta che per strada gira un angolo, si ritrova esattamente dove si aspetta. La geografia non presenta né sorprese né incongruenze. È sempre stanco, sfinito dal lavoro. A volte si scopre a guardare il cielo, a chiedersi come possa apparire Ashland dall’alto. Farebbe freddo lassù? Avrebbe bisogno di occhiali per vedere il suo condominio? Un tempo cavalcava il vento notturno. Il cielo era suo, come sua era Leannan. Oppure era lui ad appartenerle. È convinto che provare nostalgia per un mostro sia sbagliato. Quindi si racconta che non gli manca.
Sarebbe forse più semplice se le cose con Megan andassero ancora bene. Non che vadano male, di per sé. Non litigano. Non hanno mai neanche una piccola discussione. Non ridono più, però, e neanche sorridono o parlano molto. A fine giornata, di solito, trascorrono il loro tempo libero insieme sul divano, seduti lui da una parte e lei dall’altra, mangiando hamburger o pizza, stordendosi con il misero conforto delle risate preregistrate di una sit-com. Non parlano mai del padre di Megan, della Compagnia dei Dispersi o del passato di Noah, e si sfiorano di proposito solo raramente.
A volte lui guarda sua moglie, così distante sul suo lato del divano, e si domanda perché sembri sempre così infelice. Di tanto in tanto glielo chiede, e ogni volta lei scrolla le spalle e gli rivolta contro la domanda.
Tu sei felice?, gli chiede.
Noah si sente confuso, non si sente se stesso e non capisce perché. È stato salvato. Com’è che questo non gli basta? Perché è così deluso ogni volta che per strada gira un angolo e si ritrova esattamente dove dovrebbe essere? Perché ha iniziato a scarabocchiare panorami urbani su pezzi di carta?
Poi, un giorno, a trent’anni, si sveglia nel cuore della notte perché sente grattare su un vetro – scric-scric-scric – alla finestra di camera sua. Una parte di lui lo attendeva, si aspettava che succedesse prima. Con il cuore che batte all’impazzata si alza e attraversa la camera, ma prima che riesca ad aprire le tende il suo telefono si mette a squillare. Esita davanti alla finestra con le mani già sulle tende, momentaneamente disorientato. Megan si muove, e lui si allunga verso il telefono. Lo recupera dal comodino e vede un numero texano che non conosce.
Pronto?
Ma chi è?, chiede Megan con la voce impastata dal sonno. La voce all’altro capo del telefono è debole, piena d’interferenze come un segnale radio disturbato, e le uniche parole che Noah riesce ad afferrare sono le ultime due, sussurrate con l’affanno del panico: piccolo principe.
Eunice?, domanda Noah. Eunice, sei tu?
Noah? Adesso la voce è maschile, molto più chiara, anche se sembra confusa.
Chi parla?, chiede Noah.
Raggiunge la finestra per spalancare le tende, ma qualsiasi cosa ci fosse all’esterno se ne è andata. Ci sono solo lui, Megan e la voce al telefono che dice: Pronto, Noah, sono Hubert. È successa una disgrazia.