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NEI giorni che fecero seguito alla scomparsa di Maria Davis, mentre nei telegiornali nazionali il caso occupava sempre più spazio, ci fu un netto cambiamento nel clima emotivo che regnava a Vandergriff. Non era mai stata una di quelle cittadine idilliache in cui tutti sorridono a tutti, ora però era come se a ognuno si fosse irrigidita la mascella, come se un solco si fosse insinuato in ogni fronte. Nel pomeriggio c’erano meno bambini a giocare nei parchi o nei cortili, e di notte le strade intorno a casa nostra si erano fatte più silenziose. Sentivo meno risate in giro, anche se ne sentivo molte di più nei corridoi della scuola. Noi ragazzi eravamo tesi e in preda agli ormoni, troppo giovani per prendere sul serio qualcosa. Nell’auditorium della scuola ci fu un’assemblea, in cui una poliziotta del posto spiegò che avremmo visto degli agenti all’interno dell’edificio e appostati nel parcheggio: avrebbero tenuto d’occhio la situazione. Come se fossimo ancora alle elementari, ci ricordò anche di non accettare né cibo né passaggi dagli sconosciuti. Ci mostrò un manifesto con un numero di telefono e ci pregò di comporlo se avessimo visto qualcosa di sospetto.

«Anche se non siete sicuri che valga la pena riferire una certa cosa, fatecela comunque sapere. La vita che salvate potrebbe essere la vostra.»

L’intera esposizione sembrava una barzelletta scadente raccontata da qualcuno che, pur consapevole di quanto fosse scadente, non resisteva a raccontarla tutta. Era come se qualche elemento di quel discorso potesse riportare a casa Maria, o scongiurare una nuova scomparsa. Di assemblee scolastiche ce n’erano state anche quando Sydney era sparita, e anche di lei si erano occupati i telegiornali nazionali.

Io, mia madre ed Eunice discutemmo varie volte se per quell’anno fosse il caso di aprire il Wandering Dark. Mosso da ragioni puramente egoistiche, io sarei stato per aprirlo, dovevo però ammettere che i motivi per tenere chiuso non mancavano. Dopotutto, la maggior parte dei nostri dipendenti erano ragazzi del liceo, quindi probabilmente avremmo avuto qualche problema ad affidare le parti se i genitori non si sentivano sicuri a far uscire i propri figli la sera per sei settimane di fila. Ogni volta che veniva fuori l’argomento ne parlavamo e riparlavamo, ma poi rimandavamo la decisione, avevo la sensazione che per la stagione 1999 le possibilità si facessero sempre più scarse.

Al di là dei discorsi di lavoro, in famiglia non parlavamo granché. Ognuno restava nel proprio angolo della grande casa, mamma al piano basso davanti alla tv, Eunice nella sua stanza e io nella mia. Il mostro mi mancava da morire. Avevo quasi perso ogni speranza di rivederlo, ma una settimana dopo la sua ultima apparizione mi svegliai di colpo sentendo grattare alla finestra della mia stanza.

La creatura era accovacciata fuori, sul tetto, e faceva su e giù sul vetro con un artiglio.

Sbloccai la finestra, la aprii. Mi tirai indietro, e mentre la creatura s’infilava nella stanza cercai di sembrare scocciato. Avevo intenzione di urlarle contro, di sgridarla, di pretendere un preciso resoconto dei suoi movimenti nell’ultima settimana. Ma quello che feci, in realtà, fu sprofondare tra le sue braccia e stringerla forte all’altezza dei fianchi. Mi abbracciò anche lei e io fui invaso dalla vecchia sensazione di conforto e beatitudine mescolata all’odore muschiato del suo mantello ammuffito e della pelliccia. La mia rabbia si dissolse, mi sentii sollevato.

«Mi sei mancato così tanto», dissi avvinghiato al petto dell’Amico. «Ero preoccupatissimo.» Avrei aggiunto altro, ma l’Amico mi strinse ancora più forte, e i miei piedi si staccarono dal tappeto. Galleggiavamo nel vuoto, la testa della creatura sfiorava il soffitto.

Con cautela fece in modo di trasportarmi fuori dalla finestra, nell’aria corroborante delle serate estive. Per prima cosa pensai che fra poco avremmo giocato di nuovo a salta-che-ti-prendo, invece mi spostò contro un fianco e sfrecciò verso il cielo. Il vento mi fischiava nelle orecchie e mi arruffava i capelli. La cittadina rimpiccioliva sotto di noi, una costellazione di luci sempre più piccola, mentre l’aria diventava sempre più fredda e rarefatta, e per riempirmene i polmoni dovevo respirare sempre più a fondo.

Il mostro smise di salire una volta che fummo davvero in alto nel cielo notturno, e lì restò sospeso a girare lentamente su se stesso. Dalla parte di Dallas vedevo la Reunion Tower, e dalla parte di Fort Worth il massiccio rettangolo del Burnett Plaza. Il parco dei divertimenti di Vandergriff, il Fun Mountain, era proprio sotto di noi, e la struttura che simulava i lanci con il paracadute era ancora illuminata benché di notte fosse chiuso.

Senza preavviso, la creatura mollò la presa. Mentre capitombolavo nel cielo, il parco dei divertimenti mi veniva incontro come una foto zoomata, e la torre con i paracadute spuntava da terra dritta come una spada sguainata. Un grido mi esplose in gola, e agitai le braccia come se potesse esserci qualcosa a cui appigliarsi.

Cristo. O Cristo. Gesù, era finita, stavo per morire, e il peggio è che sarebbe stato molto doloroso.

Ma prima che tutte le ossa del mio corpo s’infrangessero contro una giostra, la creatura mi raggiunse, mi agguantò per i fianchi e mi condusse in volo intorno alla torre, le luci al neon un’indistinta macchia stroboscopica ai margini del mio campo visivo. Il gemito di terrore divenne un urlo di gioia. Fui attraversato da un flusso di energia. Ululai. Risi. La creatura strinse la sua presa, e nei punti in cui i nostri corpi aderivano pulsarono onde di calore. Il mondo assunse una sfumatura dorata e il cuore prese a galopparmi nel petto. Dopodiché la creatura mi liberò di nuovo.

Non precipitai, stavolta. Stavolta mi sollevai. Non ero particolarmente veloce, mi resi conto però che riuscivo a librarmi da solo in un’ampia spirale ascendente. L’Amico mi seguì a breve distanza, appena sotto di me, standomi dietro ma senza toccarmi. Stavo volando in autonomia con le mie forze. Mi voltai per guardarlo in faccia.

«Come ci sei riuscito?» domandai. «È incredibile!»

Come sempre non rispose. Volai via dalla torre e mi spostai sopra l’autostrada. Rispetto alla creatura ero più goffo e più lento – a quanto venne fuori, imparare a volare non era poi così diverso dall’imparare a nuotare –, ma riuscivo a mantenermi in aria e a spingere me stesso nella direzione corretta. Tutta la preoccupazione e le ansie della settimana improvvisamente non contarono più. A contare era solo quell’ascensione, quella sensazione di potere e di completa libertà.

A un certo punto l’euforia si dissolse, inglobata da uno sfinimento sublime. Quando rientrammo a casa, la mia estemporanea abilità nel volo se ne stava andando. Ballonzolavo e zigzagavo nell’aria come un insetto ubriaco e una volta sul tetto inciampai, atterrando sulle mani e sulle ginocchia. La creatura atterrò vicino a me, più che udirlo lo percepii, una leggera folata di vento. «Fa caldo qui fuori», osservai. «Tu non hai caldo?»

Non aspettai la risposta. M’infilai in camera da letto e mi spogliai fino a che rimasi in mutande. Anche da nudo, la pelle continuava a pizzicarmi per quel calore innaturale. La mia faccia scottava e, notai, un turgore gonfiava la stoffa dei miei boxer. Mi appoggiai alla scrivania, e feci un paio di profondi ma inutili respiri. Non c’era verso di sbollire. Voltandomi, scoprii che la creatura mi aveva seguito dentro.

«Forse hai esagerato con la polverina fatata», dissi. «Sento troppo… cal…» La mia testa era alla deriva.

L’espressione dell’Amico si fece preoccupata. Mi toccò la faccia e il torace, soffermandosi con la zampa in quei punti. Il mio cuore non smetteva di battere all’impazzata, e sentivo il volto palpitare per il caldo. La creatura prese una penna e un foglio dalla scrivania e scrisse:

AMICO AIUTA?

«Potresti fare qualcosa?» gli chiesi. La mia voce suonava distante, distorta, come elaborata da un sintetizzatore.

La creatura posò la penna e il foglio. Mi appoggiò una zampa sulla spalla, e con l’altra guidò la mia mano sul mio inguine. La stanza, pulsando, si mise a ronzare intorno a noi, e le mie viscere di nuovo si contrassero. Il mondo si fece sempre più impalpabile, in un certo senso meno presente.

«Sei sicuro che vuoi esserci per… questo?» domandai, sia imbarazzato sia eccitato all’idea.

La creatura strusciò il muso umido su un lato della mia faccia, la pelliccia mi sfregava la guancia rovente. Mi calai i boxer, afferrai il mio sesso e iniziai a menarmelo, era come essere dentro e fuori dal mio corpo. Non ci volle molto. Mentre mi tendevo pronto all’orgasmo, l’Amico mi strinse la spalla più forte. Il mio occhio interiore si rifranse in decine di frammenti, un caleidoscopio venato da una luce d’oro, ogni riflesso distorto di me stesso si contorceva estatico nell’infinito.

Quando tutto ebbe termine, crollai in avanti. Sarei finito sul pavimento, ma l’Amico mi afferrò e mi strinse contro il mantello che odorava di muschio. Mi adagiò sul letto e si stese accanto a me, avvolgendomi con un braccio. Il calore non sembrava più intrappolato dentro di me, si distribuiva fra di noi, un fardello individuale trasformato dal tatto in un piacere condiviso.

«Grazie», dissi. Scivolai nel torpore mentre la pulsazione dell’orgasmo diveniva più blanda, traghettato nel mare del sonno con la sensazione passeggera che morbide labbra umane mi stessero baciando su una guancia.

La casa degli incubi
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