L’ultima lettera di Eunice

Caro Noah,

per prima cosa voglio che tu metta giù questa lettera, e non voglio che tu la riprenda finché non mi avrai perdonata. Dico sul serio. Vai.

Bene. A questo punto forse sono passati sei mesi e te ne stai raggomitolato nel letto, ti stai prendendo una pausa dai compiti mentre mamma guarda la tv nella stanza accanto; o forse sono passati anni, molti, e tu sei seduto su una sedia a dondolo nel portico di un’idilliaca casa di riposo con alte finestre e un grande parco verde. Forse i tuoi capelli sono diventati bianchi e la tua pelle col tempo ha assunto un aspetto vissuto e si è riempita di macchie. Non lo so; non posso constatarlo con i miei occhi, ed è questo il problema. Non posso vederti. Non posso vedere più niente, eccetto qui, ora.

È il 28 ottobre e sono nella stanza del computer con le luci spente. Fuori la serata è tersa, e la luce dei lampioni come un dito verdognolo s’insinua fra le tende. Fa a pugni con il riflesso del monitor sul pavimento alle mie spalle, si disputano la mia ombra. Ho impacchettato tutti i libri, i cd e i vestiti che mi appartengono in alcuni scatoloni, su cui ho indicato il contenuto. Resta solo un’ultima cosa. Benché ci fossero delle alternative allettanti, ho scelto un metodo dei tempi andati. Mi va bene lasciare un po’ di casino, ma non troppo. Quando lacrime e rabbia saranno finite, potete togliere il tappo alla vasca, far scorrere un po’ d’acqua fresca, e sfregare la ceramica con un po’ di detersivo.

L’ho fatto perché vi voglio bene.

Non pensare che sia colpa tua, ti prego. Mi spiace averti detto certe cose, e non sono arrabbiata perché hai preso la mia macchina. È importante precisarlo, visto che in questo tipo di situazioni conta una parola soltanto: Perché? Se uno non espone la sua risposta (o le sue risposte) con la precisione di un avvocato, la gente che resta darà la colpa a se stessa. La gente è egoista, ed egocentrica.

Quando mi sono svegliata stamattina, sentivo male dappertutto. Era come se avessi l’influenza, ma senza febbre o vomito. Avevo solo un mal di testa opprimente, e il forte dispiacere di essere sopravvissuta una notte ancora. Lo so cosa stai pensando: Eunice, ormai la tua depressione la conosciamo da anni. Per questo è importante che tu prenda le medicine. Il problema è che le medicine non funzionano più. Le prendo tutti i giorni e continuo a stare male. Quando mi guardo allo specchio, non vedo la mia faccia. Vedo qualcosa che si disintegra lentamente, borse scure sotto occhi spenti e confusi, labbra screpolate che sanguinano quando provano a sorridere. A volte, se qualcuno mi parla non riesco a sentirlo, e quando invece ce la faccio non so cosa replicare. Di solito è la cosa sbagliata. Come ho dimostrato stasera.

Non voglio essere così. Ho provato a migliorare, ma normale non lo sarò mai. In me ci sarà sempre qualcosa che non va. Non conta quanto mi impegni, non conta ciò che faccio, andrà sempre male. Non sarò mai carina o sportiva, e ai ragazzi non piacerò mai. Peggio, i ragazzi non piaceranno mai a me. Noah, casomai ti capitasse d’incrociarla, e se venisse fuori in modo naturale, di’ a Brin che mi dispiace di non essere nata maschio. Non che mi piacerebbe davvero essere un maschio, ma sarei pronta a barattare la mia identità da cima a fondo, se ciò significasse poterla amare liberamente.

Continuo a interrompermi ogni volta che sento sbattere la portiera di una macchina. Mi alzo e vado alla finestra convinta che sia tu, che tu ti sia calmato e sia pronto a fare un altro tentativo di parlare con me. Immagino le nostre scuse borbottate, la preoccupazione sul tuo viso semplice e aperto, il mio coraggio e la risolutezza traballante mentre edifichiamo goffamente il ponte che ci ricongiungerà. Vedo me stessa assecondare il tuo desiderio che tutto sia a posto, e arrancare per un altro giorno, o una settimana, o un mese. Trascinarsi magari tutta la vita per il tuo bene. Ma poi guardo fuori dalla finestra, e non sei tu.

È probabile che fra non molto, quando avrete organizzato il mio funerale, qualcuno salirà con le lacrime agli occhi su un pulpito accanto alla mia bara e parlerà diffusamente del mio egoismo. Come ho osato? Che diritto avevo? A questa persona dico (e spero che glielo riferirai): vergognati. Kierkegaard sosteneva (mi pare) che la società ha sempre considerato il suicidio un tabù, perché quando uno si uccide la gente sparge la voce che quel tizio aveva iniziato a mettere in discussione anche la loro vita, e questo li disturba. Pensaci da te: che cosa rende la tua vita tanto eccezionale?

E la mia vita? Cosa la rende eccezionale? I magnifici fianchi di Brin. La sua risata. Le facce che facevi tu quando leggevo per te. Vedere papà che faceva ridere mamma, il modo in cui tutto il suo corpo sussultava. Vedere Sydney danzare, il modo in cui i suoi movimenti sembravano liberarla e realizzarla in pieno. Il modo in cui mi sentivo io a battere sul computer, così veloce che quello sembrava starmi dietro a malapena. La bocca di Brin sulla mia.

Sono intrappolata qui, nell’ufficio di casa, lontana da tutte queste cose (a parte il battere sulla tastiera, ovviamente). Intrappolata in questo corpo, paralizzata nel tempo lineare.

Ultimamente ho fatto un sogno interessante. Di solito sogno cose banali, che perdo le chiavi della macchina o che mi dimentico di prepararmi per un esame… Ma l’altra sera ho sognato che Brin si è presentata alla porta di casa e mi ha chiesto di fare un giro con lei. Siamo salite nella sua macchina e abbiamo viaggiato tutta la notte in uno strano territorio montuoso. La fodera in similpelle del sedile era strappata e mi grattava la nuca. Il motore girava lento, come il vecchietto più simpatico del mondo, e per tutto il tempo Brin si è limitata a fissare la strada con un enigmatico sorriso da madonna. Non ci siamo fermate per mangiare, per fare benzina o per andare in bagno. Non ne avevamo bisogno.

A un certo punto ci siamo fermate in uno spiazzo di ghiaia sul crinale di una collina.

«Resta qui», mi ha detto Brin. «E tieni gli occhi chiusi.»

Ho fatto come mi ha detto. Lei invece ha fatto il giro della macchina, mi ha aperto la portiera, e mi ha preso la mano per aiutarmi a scendere. Mi ha accompagnato oltre la ghiaia, sull’erba.

«Bene. Apri gli occhi.»

Ero in cima alla collina, le stelle brillavano come grosse lampadine, la luna crescente era avvolta in un alone luminoso. Alla mia sinistra c’era un tronco d’albero marrone scuro. Ho allungato un braccio per toccarlo, e mi sono resa conto di sembrare un quadro impressionista vivente, le pennellate che componevano il mio corpo vibravano cangianti, non fluide nel movimento eppure, in un certo senso, piacevoli nella loro noncuranza verso ciò che possedeva una consistenza scontata e noiosa. Ho guardato il cielo e ho visto un incantevole giardino di stelle, parevano denti di leone sorpresi da un turbine di vento visibile. Pulsavano l’una dopo l’altra, come se stessero trasmettendo messaggi in codice.

Lassù, quel vento visibile turbinava e un attimo dopo si placava. Turbinava e si placava. Turbinava, cessava per un attimo, poi lentamente e voluttuosamente si placava. Cambiava allo stesso ritmo a cui i miei polmoni respiravano. Mi sono girata a guardare Brin, e non era più vestita da punk. Indossava un abito verde e nero aderente che le spingeva il seno fin quasi al mento. Aveva i capelli sciolti intorno al viso, una libera confederazione di riccioli scuri evocati da ampie pennellate che danzavano intorno alla sua testa, cambiandone a ogni secondo la conformazione.

«Andiamo», mi ha detto, indicando un paesino in fondo alla collina. «Ti faccio fare un giro.»

L’ho seguita lungo un sentiero. Gli edifici assiepati e il campanile svettante della chiesa si facevano più grandi via via che mi avvicinavo, e vedevo le finestre rischiarate da luci calde, le strade che brulicavano di figure umane a dispetto dell’ora tarda. Sentivo il chiacchiericcio della gente, le risate diffuse, musica.

Brin mi ha accompagnata sulla strada e fin dentro al villaggio, abbiamo oltrepassato porte chiuse e finestre dai vetri opachi dietro alle quali brillavano luci arancio. Una porta si è aperta ed è sfrecciata fuori una piccola sagoma, un bambino, con un mantello nero. È corso su per la strada davanti a noi, con il mantello che sventolava alle sue spalle, ha girato a un angolo ed è scomparso.

«Chi era?» ho chiesto puntando il dito in direzione del bambino, sicura di averlo già visto.

«Andiamo», mi ha detto Brin trascinandomi per la strada. «Vedrai.»

La strada tortuosa sfociava in una sorta di piazza di paese, ampia e acciottolata, con un pozzo al centro. La gente si accalcava intorno ai banchi del mercato per comprare frutta, pesce e pane, i bambini correvano, e alcune giovani coppie ballavano mentre un uomo le accompagnava con una fisarmonica. Le note che suonava erano visibili quanto il vento, un’aurora boreale sprigionata dallo strumento. Ho riconosciuto il signor Ransom, corpulento e paonazzo, che vendeva pesce, poi Sydney che ballava con un attraente sconosciuto, con il vestito da campagnola che le svolazzava tutt’intorno sollevato dal vento. Ho cominciato a riconoscere anche altri: Merrin Price, la mia vecchia compagna di scrittura al Wandering Dark, vendeva frutta; Hubert Sangalli, il mio amico delle elementari, stava comprando un cappello; Rick, il vecchio collega di papà al dipartimento autostrade, stava montando un palco. Mentre lo guardavo fissare a martellate un palo di sostegno, mi sono accorta che come il vento aveva seguito il ritmo del mio respiro, così il mondo si muoveva a tempo di musica. Quel vento visibile soffiava di pari passo con la melodia della fisarmonica, eseguendo una specie di danza interpretativa. E al di sotto della melodia, quasi sepolto, c’era il rumore di tasti di una vecchia macchina da scrivere manuale, che a quella melodia dava il ritmo.

«Dove…» ho detto, cercando da qualche parte nella piazza tracce di un dattilografo, ma prima che potessi finire la domanda, Brin ha premuto il suo florido corpo contro il mio, la mano destra sul mio fianco.

«Balla con me», ha detto, e mi ha fatto girare. Il mondo mi vorticava intorno, prima lentamente, poi più veloce. Forme che riconoscevo – persone, case, il pozzo, i banchi del mercato – si facevano meno definite, diventavano un flusso di tempere spremute dai tubetti che prendevano a correre insieme, un corposo turbine di colore. L’unico elemento a mantenere i propri contorni era Brin, il centro di gravità che mi teneva in orbita facendomi roteare. In un modo o nell’altro conoscevo i passi di danza; la mia goffaggine quotidiana era svanita, dispersa nel diluvio di colori, e i miei piedi battevano sui ciottoli della piazza come su una macchina da scrivere. Tenevo gli occhi incollati a Brin. Quando la musica ha raggiunto l’apice, facendomi girare mi ha avvolta in un abbraccio e mi ha baciata. Ho indugiato nella sua bocca ma lei si è ritratta, lasciando la mia faccia a ciondolare nel vuoto. Sembrava sul punto di dire altro, ma il ragazzino con il mantello è sfrecciato di nuovo attraverso la piazza. Eri tu, Noah, tu a sei anni, ossessionato da Batman, che zigzagavi fra la gente verso la porta della chiesa dall’alto campanile. Hai afferrato una delle maniglie della porta a due battenti e hai tirato. Sulle prime la porta non si è mossa, così ti sei slanciato all’indietro facendo forza con tutto il tuo peso. La porta si è aperta cigolando, evidentemente a fatica, lasciando trapelare nella piazza una luce pura, bianca e quasi accecante.

Ho lasciato perdere Brin e ti sono corsa dietro mentre entravi nella chiesa, ma mi sono fermata sulla soglia, confusa da ciò che vedevo. Prova a immaginare due o tre diversi film proiettati contemporaneamente su uno schermo, un guazzabuglio di immagini in competizione tra loro, nessuna delle quali era una chiesa. Ho visto papà che in un parco mi spingeva su un’altalena, mamma che mi dava del ghiaccio dopo che giocando avevo picchiato la testa, me e Merrin che scrivevamo insieme al Wandering Dark, me e Brin a luci spente nella mia stanza, naso contro naso coperte di sudore, con un lenzuolo aggrovigliato intorno a noi. Ho visto la Tomba e il Wandering Dark, impilati come a formare degli strati, la prima attrazione che faceva da ponteggio alla seconda. Ho visto il mostro che portava via le Katie e i Brad, e c’ero anch’io che li guardavo immobile, vestita di bianco. E poi queste immagini in competizione sono sfumate, e ho visto quella che sembrava una galleria d’arte, un vasto spazio dalle luci soffuse, i muri bianchi rivestiti di dipinti e in mezzo una donna rossa di capelli che non avevo mai visto, con un vestito rosso. Tu sei corso verso di lei, che ti ha cinto con un braccio e la porta si è richiusa sbattendo. Sono corsa avanti e ho cercato di aprirla a strattoni, ma è rimasta chiusa per me.

Mi sono voltata e vicino a me c’era Brin, con le mani giunte davanti a sé.

«Cos’è questo posto?» le ho chiesto.

Brin ha aperto la bocca come per rispondermi… ma poi mi sono svegliata.

Da allora ho provato a rivivere quel sogno, ma mi sfugge, e sono tornata a sognare confusamente bocciature agli esami e chiavi della macchina smarrite. Non riesco a togliermi dalla testa quel villaggio, pieno di persone che conosco, tutte sorridenti e ridanciane, raffigurate al meglio della propria individualità.

La chiesa-galleria d’arte, con te insieme alla rossa e tutta l’eternità dentro. La Brin del sogno, sul punto di rispondere alla mia domanda, una domanda che potrebbe dare una spiegazione a tutte le altre domande. Dopo un sogno simile, come potrei vivere con il peso di essere intrappolata in questo sgradevole corpo marcescente, andare alla mia schifosa università e percorrere lentamente il tempo nella direzione sbagliata?

Restandomene qui seduta, sfogando tutto questo sulla macchina da scrivere, credo finalmente di vederci chiaro. Una volta papà mi ha detto che tutte le storie d’orrore hanno un lieto fine, ma aveva torto. Guarda com’è finita la sua vita. Di fini liete non ne esistono, Noah. Le canzoni, i libri e i film con un cosiddetto lieto fine si interrompono tutti nel momento culminante del trionfo. Non raccontano la storia per intero. Solo le vecchie tragedie raccontano la verità. Beowulf trionfa su Grendel e su sua madre, ma solo per poi cadere in battaglia contro un drago. Gilgamesh perde il suo migliore amico. E anche Achille. Nell’Amleto muoiono tutti. La verità non è nient’altro che questa.

Esistono d’altra parte buone aree di sosta. Ho fatto l’errore di proseguire al di là del mio. Sono come latte andato a male in una brocca. Ho bisogno di versare fuori me stessa e di andare oltre. Ho bisogno di essere libera di spostarmi attraverso l’eternità e l’infinito, di trascorrere un secolo adagiata sul seno di Brin ad ascoltare il suo cuore che batte, di trascorrere un eone a rimboccarti le coperte, mentre mi guardi con occhi che risplendono d’amore e di fiducia. Investirò un decennio a guardare Sydney che balla, o papà che fa ridere mamma. Avrò l’eternità a disposizione in compagnia dei miei pezzi forti. Questo doveva esserci in quella chiesa. Doveva essere questa la risposta. Da un certo punto in poi non ci è più possibile creare nuova felicità, ma possiamo trastullarci per sempre nelle gioie passate, catturate impeccabilmente dall’occhio della memoria.

Ricordati di me, Noah, che ti rimboccavo le coperte e ti auguravo la buona notte con un bacio. Ricorda le storie che ti ho raccontato. Ci vedremo ancora.

Ti vorrò bene per sempre,

Eunice

La casa degli incubi
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