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IL mattino dopo mamma entrò in camera mia senza bussare, e vedendola sottosopra fece una smorfia di disappunto.
«Lungi da me strapparti ai tuoi sogni», disse, «ma ho qualche commissione da fare e prima di scordarmene volevo darti questa.» Mi passò un pezzo di carta ripiegato. «È un messaggio per te, l’hanno lasciato ieri sera in biglietteria.»
La ringraziai mentre già batteva in ritirata. Aprii il foglio e lessi il messaggio.
Noah,
stasera sono passata al Wandering Dark per avere un bis, ma mi hanno detto che è il tuo giorno libero. Mi spiace non averti rivisto. Se ne hai voglia, comunque, domani sera mi trovo con alcuni amici, potresti venire. Mi farebbe piacere parlare di nuovo.
Baci,
Megan
Toccai il foglietto e il mio cuore si mise a battere un po’ più forte.
La sera stessa, invece della solita combinazione maglietta-felpa con cappuccio, mi misi una camicia e una giacca sportiva, dopodiché raggiunsi in macchina l’indirizzo che mi aveva lasciato Megan. Era una casa in una delle varie e sterminate aree residenziali alla periferia di Vandergriff, dove tutte le abitazioni appaiono ordinarie, o borghesi, fate voi. Trovai Megan nel vialetto d’ingresso. Indossava un paio di jeans e una camicia da uomo con le maniche arrotolate e il colletto slacciato.
«Aspettavi me?» le chiesi, scendendo dalla macchina.
Affondò le mani nelle tasche posteriori dei jeans. «Non volevo che ti perdessi.»
«Sembri in forma», constatai.
«Grazie», replicò lei, e si accomodò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Restammo lì, sul vialetto in discesa. Nel punto in cui si trovava, Megan era momentaneamente più alta di me. Cercai di trovare qualcosa da dire.
Lei spostava da una parte all’altra le labbra chiuse in quel modo che mi piaceva. «Ti comporterai bene, giusto? Sei un tipo a posto, sì?»
«Quando non sono in costume.»
Non parve rassicurata più di tanto, ma mi fece comunque entrare in casa.
Lì dentro sembrava ci vivesse una nonna: c’erano mobili rivestiti con tessuti dai motivi fuori moda, mezzeri afgani drappeggiati sul divano e sulla poltroncina, centrini aperti come fiori su miriadi di superfici. Nel soggiorno, un gruppo di ragazzi e adulti (e una signora dai capelli bianchi, che identificai come la proprietaria) stava radunando in cerchio delle sedie e sistemando stuzzichini su un tavolino. Quando entrammo, si bloccarono e ci fissarono.
«Ciao a tutti», salutò Megan, e la sua voce risuonò nitida nel silenzio che di colpo era calato. «Lui è Noah Turner», e mentre diceva il mio nome mi strinse le spalle.
La vitalità che regnava prima nella sala non tornò, ma una donnina dai capelli castani crespi si toccò sotto l’occhio sinistro, come se sentisse l’ombra di un dolore al posto mio.
Un uomo ben piazzato con la barba fulva e un cappello da camionista incrociò le braccia all’altezza del petto. «Le regole le conosci, Megan.»
«Andiamo, Josh», replicò lei. «È un caso particolare.»
Josh si lisciò la barba. Lo stavano tutti guardando. A quanto pare era a lui che facevano riferimento gli altri.
«A me farebbe piacere che restasse», disse la donna più anziana.
«Ellen», le disse Josh.
«Ormai è qui», replicò la donna (Ellen), «e, casomai te ne fossi scordato, questa è casa mia. Quindi, a meno che tu non abbia intenzione di restartene fuori per strada durante l’incontro, sbrigati a trovargli una sedia.»
Josh cedette. «E va bene.» Mi puntò un dito contro. «Ma tu non parlare senza essere interpellato, e non raccontare a nessuno quello che vedrai o ascolterai qui dentro. Ci siamo capiti?»
Megan sbuffò. «Ha capito, Josh.» Mi trascinò verso una sedia libera. «Non farci caso», mi disse sedendosi accanto a me. «Josh è solo protettivo verso il gruppo. Vuole che tutti si sentano tranquilli, lui compreso. Lui soprattutto.»
«Quale gruppo?» domandai, ma non ricevetti alcuna risposta. Un confuso senso di panico iniziò a risvegliarsi in fondo al mio stomaco. In che diavolo di posto ero finito?
I presenti presero posto nel cerchio. Contai otto persone, incluso me. Guardavano tutti Josh. Lui chiuse gli occhi, e quando li riaprì appariva lucido e sereno. Appoggiò sul tavolino un registratore, uno di quelli a microcassette, e iniziò a registrare.
«Benvenuti nella sezione texana della Compagnia dei Dispersi, un gruppo di persone che si aiutano a vicenda per venire a capo di misteriose e inspiegabili sparizioni di persone care. Di solito si tratta di incontri a porte chiuse, ma stasera abbiamo un ospite. Visto che non sei membro della Compagnia, Noah, ti chiediamo di non parlare nel corso della riunione a meno che tu non sia invitato a farlo.»
Sollevai il pollice per indicare che avevo capito. Che palle quel tipo, davvero.
«Ci presenteremo adesso solo con il nostro nome di battesimo. Ciao, io sono Josh, sono di Denton e ho perso una persona cara in modo inspiegabile.»
«Ciao, Josh», risposero i presenti. Dopodiché si presentarono tutti a quel modo: Ellen di Fort Worth, Sarah di Rusk (la donnina che vedendo il mio occhio era rimasta scossa), Laura di Athens (una donna con il volto affilato e lunghi capelli lisci), Hector di Paris (un ragazzo più o meno della mia età), Eli di Houston (un adolescente con i capelli verdi sparati) e Megan di Mansfield. Ognuno dichiarò di aver perso inspiegabilmente qualcuno.
«La Compagnia dei Dispersi è un gruppo di uomini e donne che condividono le proprie esperienze, le proprie energie e la propria speranza, come qualsiasi altro gruppo di supporto» spiegò Josh. «Tuttavia, a differenza degli altri che solitamente aiutano la gente ad accettare un lutto, una dipendenza o una diagnosi medica, noi non predichiamo la catarsi tramite il dialogo, e non condividiamo le nostre storie solo per creare solidarietà. A nostro giudizio la catarsi si può raggiungere solo scoprendo la causa di ogni perdita e mettendo a confronto le testimonianze. Se condividiamo le nostre storie è perché i nostri compagni, ascoltandole, trovino spiegazioni, dettagli che potrebbero aiutarci a risolvere una volta per tutte il nostro problema comune.»
A quel punto si rivolse di nuovo me. «Ricorda che hai giurato riservatezza, quello che sentirai qui deve restare qui. Inoltre, niente interventi mentre uno parla o interruzioni.» Diede un’occhiata al blocco che teneva in grembo. «Sarah, vedo che stasera è il tuo turno per condividere quello che ti è successo.»
Tutti si girarono a guardarla. Eli, il ragazzino con i capelli verdi, le rivolse un sorriso amichevole per incoraggiarla.
«La mia storia la conoscete già tutti», disse Sarah, «ma farò del mio meglio per raccontarla come se non l’aveste mai sentita.» Si schiarì la gola, emettendo un suono stranamente infantile. «Mio fratello Stephen è scomparso quando io ero al primo anno delle superiori e lui al terzo. Era un bravo ragazzo, conosciuto da tutti e benvoluto. Non era uno sportivo, ma comunque usciva con le cheerleader. Era un gran lettore. Gli sarebbe piaciuto insegnare storia.»
Mentre Sarah parlava, tutti nel cerchio prendevano appunti. Solo io continuai ad ascoltare con attenzione la testimonianza a braccia conserte.
La sera della sua scomparsa, Stephen era uscito con una ragazza di nome Daisy. Aveva preso in prestito la macchina del padre ed era partito da casa intorno alle sei. Sarah stava guardando la tv nella sua stanza, non l’aveva quindi salutato e non aveva più pensato al fratello fino al mattino dopo, quando Daisy era tornata con la macchina del padre di Sarah da sola. La macchina era a posto, Daisy però sembrava uno straccio. A giudicare dai capelli pieni di foglie e sterpi era stata nel bosco, e il trucco era sfatto, rovinato dalle lacrime. I genitori di Sarah ci avevano messo un po’ a ottenere qualche informazione sensata dalla ragazza, e Sarah nel mentre si era trattenuta ai piedi delle scale, origliando ciò che raccontava Daisy.
Stephen era passato a prenderla la sera prima come d’accordo. Avevano cenato fuori, ma dopo avevano fatto a meno del cinema e si erano diretti invece nel parcheggio vicino al parco. Dopo circa venti minuti Stephen aveva cominciato a sembrarle assente. Mentre si baciavano continuava a staccarsi e a chiederle se avesse sentito qualcosa di strano. Daisy non aveva sentito nulla. Stephen si era portato le mani alle tempie innumerevoli volte, facendo smorfie come se soffrisse. Le aveva descritto un rumore, quello di una spada che gli perforava il cranio, e malgrado Daisy avesse fatto di tutto per impedirglielo, lui era uscito dall’auto per dare un’occhiata intorno. Aveva attraversato barcollando il parcheggio e con la testa fra le mani si era spinto oltre il confine alberato, inoltrandosi nel parco.
Daisy aveva aspettato quasi un’ora, ma a un certo punto era scesa dalla macchina e aveva ripercorso i suoi passi. Una volta nel parco, aveva vagato fra gli alberi nell’oscurità, gridando il nome di Stephen senza ricevere alcuna risposta. Per quanto conoscesse il parco piuttosto bene, il buio l’aveva in qualche modo confusa, e solo all’alba ce l’aveva fatta a uscire dalla boscaglia e a tornare alla macchina.
La seconda parte della storia mi suonò sgradevolmente familiare. I genitori di Sarah avevano chiamato la polizia, l’avevano cercato, e nonostante avessero passato il parco al setaccio, del ragazzo non avevano trovato tracce, nemmeno nel bosco, eppure a testimoniare il passaggio di Daisy delle tracce c’erano.
Un’indagine in grande stile che aveva coinvolto Daisy, la famiglia di Sarah e l’intera zona circostante aveva dato più o meno gli stessi sconfortanti risultati. Stephen era sparito, ma la storia aveva una terrificante postilla: due anni dopo, il suo portafoglio era riapparso nel banco frigo del latte di un piccolo supermercato a Topeka, nel Kansas. C’erano ancora dentro la patente, la tessera della scuola, lo scontrino della cena con Daisy, venti dollari in contanti e un pezzo di carta su cui era stata scarabocchiata un’unica parola: DOLORE.
Avevo paura di guardare Megan, paura di ciò che avrebbe potuto confermarle anche un nonnulla della mia espressione. Perché ero stato invitato lì?
«Grazie, Sarah», mormorò Josh finendo di appuntare qualcosa sul blocco. «Per quanto ti è dato di sapere, quello che hai appena affermato corrisponde a verità?»
«Sì», confermò la donna.
«Non hai infiorettato o comunque modificato nessun dettaglio, allo scopo di farci interpretare la tua storia in qualche modo particolare?»
«No», confermò di nuovo Sarah dopo un attimo di esitazione.
Josh si appoggiò allo schienale della sedia e indicò il resto della sala. «Allora diamo il via alle domande.»
«Tuo fratello in passato aveva sofferto di emicranie?» le chiese Hector.
«Quando era più piccolo, ma erano praticamente scomparse ai tempi del liceo.»
«E Topeka?» domandò Laura. «Aveva mai menzionato Topeka?»
«No, mai.» Sarah su questo punto risultò più sicura.
Ci fu un attimo di silenzio, poi Josh chiese: «Avete altre domande?»
Sarah guardò gli altri speranzosa, come se qualcuno stesse elaborando una domanda la cui risposta avrebbe svelato l’intero mistero.
Il mio cuore s’intenerì un po’ di fronte all’apertura che traspariva dal suo viso, quel momentaneo anelito di speranza. M’imposi di guardare a terra, temevo ancora che avrei potuto rivelare qualcosa, che quegli estranei riuniti unicamente dalla perdita di una persona cara avrebbero potuto dedurre qualcosa sul mio conto.
«Che ognuno ci rifletta», disse Josh, «e qualsiasi pensiero o idea vi venga in mente fatela sapere agli altri. Procediamo, dovrebbe toccare all’ospite di Megan.»
L’attenzione collettiva dei presenti si concentrò su di me, proprio come avevo immaginato.
«Che cosa dovrei dirvi sul mio conto?» domandai.
Josh orientò il registratore verso di me. «Perché non cominci a raccontarci con parole tue della sera in cui tua sorella è scomparsa, e poi passi a quella in cui hai incontrato James O’Neil?»
Cercai di incrociare lo sguardo di Megan, ma lei fissava i suoi appunti come se avesse per le mani un testo di capitale importanza e difficile da decifrare.
«Secondo Megan hai qualche problema a parlare dei fatti di quella notte», intervenne Ellen. «Ma credimi, qui sei al sicuro.»
«Spiegami», disse Josh. «Come può la piccola scheggia di un finestrino cavare un occhio a qualcuno?»
Mi alzai dalla sedia, mi feci largo tra Eli e Hector, e corsi verso l’uscita. Megan mi intercettò mentre attraversavo il cortile e mi afferrò per un braccio.
«Non andartene», disse. «Ti prego.»
Mi divincolai. «Mia sorella non è scomparsa nel nulla. È stata rapita e assassinata da James O’Neil. Quindi non ho i requisiti per fare parte del tuo piccolo club.» Raggiunsi la mia macchina. Megan restò immobile sul marciapiede.