1
INIZIAI a collezionare i messaggi di suicidio di mia sorella Eunice a sette anni. Ce li ho ancora tutti nel cassetto in basso della scrivania, a tenerli insieme è una graffetta nera. È grosso modo l’unica cosa che mi abbiano lasciato portare qui. Negli ultimi mesi li ho riletti spesso, cercando un po’ di conforto, speranza, o almeno in una piccola indicazione di avere fatto la scelta migliore per tutti noi.
Eunice a un certo punto scoprì che conservavo i suoi messaggi e cominciò a indirizzarli a me direttamente. In uno dei miei preferiti c’è scritto: Noah, non esiste nessun lieto fine. Ci sono solo buone aree di sosta.
La mia famiglia è incredibilmente maldestra con i finali. Non li gestiamo con stile, mai. D’altra parte non siamo granché neanche con gli inizi. Io, per esempio, ignoravo del tutto il primo quarto di questa storia fino a poco tempo fa. Ho passato la maggior parte della mia infanzia e della mia giovinezza a gironzolare intorno ai sepolcri chiusi ermeticamente sul passato della nostra famiglia. È proprio da questo tipo di strazio che intendo preservarvi, chiunque voi siate. E perché questo avvenga sarò costretto a partire dai confini più remoti dell’ombra che grava sulla mia famiglia, ovvero da mia madre, la rossa, pallida e slanciata Margaret Byrne, nell’autunno del 1968.